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Tuesday, February 03, 2015

Mattarella, il paternalismo socialdemocristiano ci porta in Grecia

La vecchia logica del "nessun nemico a sinistra" a cui si è piegato Renzi (logica da 24%, non da 40) e l'insostenibile subalternità culturale del centrodestra

Cosa ci si poteva aspettare dal discorso alle Camere del nuovo presidente Sergio Mattarella? Esattamente ciò che ha pronunciato: il ricordo di Tachè, l'accenno ai marò (minimo sindacale, sarebbe stato gravissimo se li avesse dimenticati), l'enfasi sulla guerra al terrorismo (nessun applauso) sono stati gli unici passaggi non scontati. Per il resto, un discorso buono per tutte le stagioni, banalotto, tanto polveroso paternalismo dc e tanta retorica assistenzialista. Dal punto di vista economico-sociale, per le sue citazioni ha accuratamente selezionato gli articoli del cosiddetto "patto sociale" della Costituzione: più diritti e garanzie che libertà. Cattolicesimo sociale, direbbe qualcuno. Paternalismo dc, direi, anzi socialdemocristiano. Peccato che sia terribilmente out of time. Quella lunga lista di "diritti" e assistenzialismi è esattamente IL problema (LA follia) di questo Paese. Continuare a spacciare le pesanti droghe socialisteggianti e assistenzialiste - purtroppo sì, è vero, ancora scolpite nella nostra Costituzione - e per di più a un Parlamento che da sinistra a destra è un tossico di spesa pubblica, non è esattamente ciò che ci serve. Suona comodo e rassicurante, ma non è ciò che può farci uscire dalla crisi. Mattarella rappresenta la Grecia in noi che avanza...

E' stato un discorso di illusioni, non di speranze, di vecchie e pericolose illusioni scritte nella nostra Carta e nel Dna socialdemocristiano. Anche nella frase che probabilmente leggeremo domani sulle prime pagine dei giornali: «L'arbitro dev'essere e sarà imparziale... ma i giocatori lo aiutino con la loro correttezza». Non accadrà, all'occorrenza l'arbitro potrà anche segnare dei gol (è questo il senso del richiamo alla correttezza dei giocatori...): non per malafede, ma perché nel nostro sistema politico-istituzionale sono saltati regole e schemi. Completamente e irrimediabilmente. L'elezione diretta del presidente della Repubblica è urgente per dare alla carica la legittimazione popolare diretta richiesta dal ruolo che è ormai chiamato a svolgere in un sistema maggioritario.

Dal punto di vista strettamente politico si è trattato di un discorso "governativo": in nessun passaggio può essere suonato il campanello d'allarme di Renzi. Anzi, è arrivato un esplicito endorsement al percorso di riforme costituzionali (riforme che cambiano qualcosa - in peggio - per non cambiare, in realtà, nulla).

RENZI - Eppure, il premier non può dormire sonni tranquilli, come ho già scritto nel post precedente. Il problema è che Mattarella non è esattamente l'immagine di quel rinnovamento che Renzi aveva promesso in ogni ambito, suscitando grandi aspettative. Certo, magari non potrà fargli ombra come personalità, ma il suo grigiore finirà per ingrigire un bel po' anche lui, per intaccare nell'opinione pubblica la sua immagine di innovatore e "rottamatore".

Non credo affatto che Mattarella fosse la sua prima scelta. Quando si parla di capolavoro di Renzi bisogna intendersi. Ha scelto la via meno rischiosa per eleggere il nuovo capo dello Stato rapidamente, senza psicodrammi, intestandosi i meriti dell'operazione, così da poter al più presto archiviare la pratica e tornare a parlare di cose concrete. In questo una scelta molto saggia, e certamente vincente, perché ai cittadini (escludendo quel milione - per lo più di parassiti - che vive e parla di politica) del nuovo presidente frega assai poco. Ma la sua è stata una scelta né originale né coraggiosa: si può parlare di "capolavoro" solo perché Berlusconi e Alfano hanno di nuovo fatto la figura degli utili idioti? No, a mio modo di vedere è stata una vittoria tattica ma non strategica. Più uno scampato pericolo immediato. Di capolavoro si sarebbe potuto parlare se fosse riuscito a consolidare il suo potere portando al Quirinale un suo uomo (o donna): non nel senso di un suo servo, ma una figura in grado - per età, per esperienze politiche e per consapevolezza riformatrice - di rappresentare un'epoca di cambiamento, l'"era renziana", e anche un Pd diverso, meno ripiegato sulle sue due culture politiche fondatrici, ex comunista e sinistra dc.

Non è stata, insomma, una scelta da "partito della nazione", coerente con la strategia di un leader che ambisce a rivolgersi all'elettorato moderato, ex berlusconiano, per portare il Pd oltre la sua storica soglia di consenso. La scelta di ripartire dal Pd, di ricompattare innanzitutto il proprio partito è stata una scelta in parte dettata da realismo, suggerita dalla realtà dei numeri parlamentari, ma in parte anche dalla logica "nessun nemico a sinistra". Una logica vecchia e minoritaria, perdente, alla Bersani (e infatti Mattarella era anche tra i candidati di Bersani nel 2013). Una logica da Pd al 24%, non al 40. Attenzione, non sto dicendo che portando Mattarella al Colle Renzi si sia giocato tutto il consenso al di fuori del vecchio Pd che era riuscito ad aggregare: da qui alle prossime elezioni ci sono ancora molti mesi e molte scelte da compiere. Ma certo questa scelta in particolare, probabilmente per evitare guai peggiori, è stata dettata da una logica di vecchia appartenenza, da 24% e non da 40.

CENTRODESTRA - Per una volta non parliamo del complesso di superiorità, culturale e morale, della sinistra. L'elezione di Mattarella ha messo in chiara luce il patologico complesso di inferiorità del vecchio centrodestra: nessun esponente di FI o di Ncd ha osato criticare nel merito, oltre che nel metodo, la candidatura imposta da Renzi. Il problema è che Renzi non li avrebbe consultati, non avrebbe proposto una rosa di nomi, non che Mattarella rappresenta, come ha ben ricordato Piero Ostellino nell'editoriale di domenica, «quanto di più illiberale abbiano prodotto, da noi, la cultura politica egemone e il sistema politico». Né hanno saputo opporre una loro candidatura, tanto che il preferito di Berlusconi e dei suoi nelle ultime tre elezioni presidenziali è stato Giuliano Amato, un socialista della Prima Repubblica, presidente del Consiglio di centrosinistra nella Seconda, uno che ha messo le mani nelle tasche degli italiani appena ha potuto e accumulato ogni sorta delle prebende che ingrossano la nostra spesa pubblica.

E' il segno di qualcosa di più grave di una subalternità culturale, è una totale assenza di identità culturale. Gli esponenti di ciò che resta del principale partito del vecchio centrodestra letteralmente non sanno chi sono, da dove vengono e dove vogliono andare. Uno smarrimento accentuato dal declino di Berlusconi, dal momento che non possono più aggrapparsi, come fino a qualche anno fa, alla sua lucidità (un pallido ricordo) e al suo orgoglio (ormai ferito). Il berlusconismo come surrogato di una cultura politica non basta più. E se per la mancata realizzazione della promessa "rivoluzione liberale" Berlusconi può invocare qualche alibi - dall'aggressione mediatico-giudiziaria all'opposizione di nemici interni ed esterni - il fatto che i vent'anni della sua leadership abbiano lasciato un tale deserto di cultura politica è un fallimento di cui porta per intero la responsabilità.