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Monday, September 30, 2013

La crisi e il futuro del centrodestra

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Ancora una volta Silvio Berlusconi spiazza tutti, anche molti nel suo partito, e ha contro quasi tutti nei palazzi e nei salotti romani (nelle urne, si vedrà). No, non bluffava. Solo chi è molto ingenuo o propina scadente propaganda può davvero sostenere che il Cavaliere abbia aperto la crisi nel tentativo di evitare che si perfezioni la sua decadenza da senatore e di salvarsi dall'applicazione della sentenza di condanna che ne determina comunque l'incandidabilità per tre o sei anni. Certo, ha cercato di trattare sulla sua "agibilità politica", ma sa bene che non sarà certo la crisi a ritardare la sua esclusione dalle istituzioni e il suo destino giudiziario. Perché la crisi, dunque? E' certamente vero che la mossa è strettamente legata alle sue vicende personali (che qualcuno crede fondatamente abbiano a che fare con la democrazia), ma non nel modo banale che ci viene raccontato. Udite udite: nell'aprire questa crisi Berlusconi non ha alcuna convenienza personale. Ma il problema è proprio questo: è stato messo nelle condizioni di non avere nulla da perdere. E allora, perché assecondare i disegni dei suoi carnefici?

Ancora una volta "L'arte della Guerra" di Sun Tzu si conferma compendio di saggezza senza tempo: accerchia il tuo nemico, ma lascia sempre una via di fuga, si batterà con meno ardore. Invece, un animale ferito e disperato, lotterà con tutte le sue forze e contro qualsiasi pronostico. Chi ha deciso di non concedere nemmeno l'onore delle armi a Berlusconi, di accelerare una decadenza che sarebbe comunque sopraggiunta entro poche settimane, applicando una legge di dubbia costituzionalità e comunque funesta per la nostra democrazia, pur di purificarsi agli occhi del proprio elettorato, e di ignorare la questione giustizia per avere dalla sua parte i magistrati, unici in grado di togliere di mezzo l'avversario politico, ha messo nel conto, accettato, il rischio di questa crisi. E d'altronde, la situazione in cui è venuto a trovarsi Renzi - il Congresso che rischia di essere rinviato, l'ipotesi elezioni con Letta candidato, o un brutto governicchio da sostenere - rivela che le impronte digitali su questa crisi non sono solo quelle di Berlusconi. In tanti hanno tirato la corda.

Due erano gli elementi costitutivi di questo governo: una prospettiva di "pacificazione" e una svolta nella politica economica - senza abbandonare il rigore ma coniugandolo con riforme e tagli alla spesa pubblica e alla pressione fiscale per ridare fiato alla nostra economia. Ma proprio il presidente della Repubblica che nel discorso della sua rielezione sembrava perfettamente consapevole della necessità e urgenza di una pacificazione nazionale, nel momento più critico, quello seguito alla controversa condanna definitiva di Berlusconi (eventualità a cui certamente Napolitano era preparato), non ha saputo, o voluto, rilanciarla. Poteva farlo non necessariamente a scapito dell'applicazione della sentenza della Cassazione, aggirandola con provvedimenti di clemenza o leggi ad personam.

La via della pacificazione sarebbe potuta restare nell'alveo della politica, per esempio attraverso un percorso di riforme costituzionali più celere che portasse alla legittimazione reciproca tra avversari e che includesse anche il tema della giustizia. Non, quindi, un quarto grado di giudizio che assolvesse Berlusconi delegittimando clamorosamente la Cassazione, ma un atto politico che riconoscesse come anomalia da correggere l'accanimento giudiziario nei suoi confronti. Eppure, nemmeno una volta fatto fuori il suo avversario per via giudiziaria il Pd ha mostrato una disponibilità - nemmeno tattica - a mettere finalmente mano alla questione della giustizia ideologizzata e politicizzata, che pure enormi danni sta infliggendo al Paese, anche in sfere diverse da quella strettamente politica (vedi il caso Riva/Ilva). E nemmeno un gesto politico, magari nella forma di un messaggio alle Camere, è arrivato da Napolitano per incoraggiare i suoi "compagni". Qualcosa che potesse, nonostante la sentenza di condanna di Berlusconi, rimettere in moto il processo di pacificazione che sembrava alla portata subito dopo la sua rielezione e la nascita del governo Letta.

Da lì in poi, infatti, le larghe intese nate sotto il segno della pacificazione e della svolta economica si sono rivelate per quello che molti sospettavano: un'operazione di galleggiamento del "relitto Italia", da una parte nell'attesa di mettere fuori gioco Berlusconi, che si compiesse la sua espulsione dalle istituzioni, dall'altra per ritardare il più possibile la candidatura alla premiership di Matteo Renzi. In verità, già scorrendo la lista dei ministri del Pdl si poteva scorgere l'intenzione di dividere i "buoni", disposti al momento opportuno a mollare il vecchio leader e a dar vita all'ennesima operazione centrista (nonostante quella appena fallita di Monti e Casini), da Berlusconi e i "cattivi", che sarebbero stati abbandonati al loro destino.

Ecco, quindi, che l'unico obiettivo del governo sembrava il tirare a campare, per dividere il centrodestra da un lato e sbarrare la strada a Renzi dall'altro. Dai tempi lunghissimi, e le procedure pletoriche, del processo di riforme concepito dal ministro Quagliariello, alle scelte chiave in politica economica continuamente rinviate, rateizzate, anche quando le coperture sembravano alla portata: l'Imu cancellata solo a metà e l'aumento dell'Iva rinviato di tre mesi in tre mesi (per poter scaricare la responsabilità della loro permanenza sul Pdl nel caso in cui avesse staccato la spina), per non parlare della spending review, delle dismissioni e dei costi standard. Anzi, diversi sono stati i decreti di spesa, coperti con nuovi balzelli e accise, di cui anche i ministri Pdl sono stati complici, se non addirittura artefici. Altro che "fortino" e "sentinelle" anti-tasse! I ministri del Pdl in questi mesi hanno avallato, e fino all'ultimo dimostrato che avrebbero continuato ad avallare, qualsiasi nefandezza fiscale pur di tenere in vita il governo. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è il pasticcio sull'Iva cucinato tra Saccomanni, Letta e i ministri Pdl, per cui l'aumento veniva rinviato di soli tre mesi aumentando però altre tasse (accise e acconti Ires/Irap). Per qualsiasi motivo e strategia Berlusconi abbia staccato la spina, nessun rimpianto per questo governo dei "Guardiani della Spesa".

Insomma, un film già visto: invece di battere Berlusconi nelle urne, da anni si tenta un "rassemblement" centrista e moderato dopo l'altro per isolarlo nei palazzi della politica. Poi, però, presto o tardi si torna al voto e dalle urne esce un centrino ambiguo e democristiano. E' già capitato a Fini, Casini e Monti. Ora è il turno di Alfano? Il ruolo della sinistra e dei giornali dell'establishment è sempre lo stesso (è scritto a chiare lettere negli editoriali di oggi): allettare i dissidenti di turno (per poi abbandonarli a "funzione" svolta) con la prospettiva di un ambizioso progetto politico - niente meno che un Partito popolare finalmente europeo e liberale - mentre ciò a cui sono veramente interessati è un centro che isoli la destra, docile e remissivo, subalterno, da battere agevolmente o buono al massimo per un governo di coalizione. "Se volete esistere politicamente dopo Berlusconi - ripetono - questo è il momento di farsi avanti". Può darsi, ma esistere come? Come Martinazzoli, Dini e Mastella? Operazione legittima, intendiamoci, com'è legittimo opporsi da parte di chi nel centrodestra ritiene di non voler morire democristiano.

Sta di fatto che le scelte responsabili di Berlusconi a inizio legislatura - la rielezione di Napolitano e le larghe intese - sono state rivoltate contro di lui. Anziché coglierla questa occasione, forse l'ultima, per una pacificazione, una legittimazione reciproca, come premessa per una politica finalmente capace di cambiare il paese, è stata buttata nel cesso, trasformandola nell'ennesimo tentativo di farlo fuori e dividere il centrodestra. Il che c'entra poco o nulla con i richiami alla "stabilità" e alla "responsabilità" di queste ore. In cosa consisterebbero moderazione e responsablità? Nel tenere in vita un governo che si preparava ad aumentare accise e acconti Ires/Irap pur di non trovare nella spesa pubblica il miliardo che serviva. Non in grado, dopo cinque mesi di vita, di muovere un solo passo per tagliare spesa e debito?

La mossa di Berlusconi quindi fa chiarezza anche tra i suoi. Non è solo una questione di fedeltà/tradimento, sono in gioco diverse visioni di centrodestra. Quella centrista delle cosiddette "colombe" a mio modo di vedere porta alla divisione del centrodestra e alla subalternità politica e culturale alla sinistra e al partito della spesa. E' vero però che nemmeno l'alternativa che sembra profilarsi con la nuova Forza Italia appare molto entusiasmante: sarebbe poco lungimirante e perdente se fosse una ridotta di "falchi" interessati a lucrare personalmente da un partito di mera resistenza, senza vocazione maggioritaria e di governo, incapace di recuperare credibilità.

Possibile che il centrodestra italiano sia condannato alla subalternità neo-democristiana o alla marginalità di un nostalgico "Msi" post-berlusconiano? La questione centrale è se questo paese abbia diritto ad avere una destra, o un centrodestra, nei cui confronti non vigano una demonizzazione e una persecuzione permanenti, da parte oltre che dagli avversari politici anche da poteri che dovrebbero essere neutrali se non neutri, o se invece sia condannato ad una non scelta tra una sinistra post-comunista e un centro democristiano trasformista, culturalmente subalterno.

Tuesday, September 24, 2013

Gli inganni dei guardiani della spesa

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Il premier Letta avverte che non ci sta a farsi logorare. Purtroppo però il problema è che tra acconti di imposte, nuovi balzelli, rinvii, ripensamenti e gioco delle tre carte, è il suo governo che sta logorando gli italiani. Il ministro dell'economia Saccomanni si sveglia rigoroso quando si tratta di tagliare tasse o evitare nuovi aumenti, mentre si mostra molto più morbido e accondiscendente sulla spesa pubblica. L'aumento dell'Iva sembra diventato inevitabile, perché non si può certo mettere a rischio il bilancio per un miliardo, o quattro o cinque, ma la spending review può aspettare, bisogna prima nominare un nuovo commissario che se ne occupi. E i costi standard? Tutto pronto ma con calma, non c'è fretta. E le dismissioni? Prima il "road show" (per la promozione del Paese o di Letta junior?). Intanto, nonostante non ci sarebbero soldi per bloccare l'aumento dell'Iva, ne sono stati trovati a sufficienza per ulteriore spesa pubblica, dalla stabilizzazione dei precari della pubblica amministrazione al decreto sulla scuola, passando per i fondi alla cultura e altre micro-spese che sommate non sono così trascurabili. Insomma, la spesa pubblica sembra ormai incomprimibile (come se venissimo da anni di pesanti tagli), ma le tasse sono sempre espandibili, e i cittadini sono ormai molto più che al servizio dello Stato: sono veri e propri bancomat.

Il giochetto è chiarissimo: dietro l'alibi dei conti pubblici, della "responsabilità", dei richiami pedanti al rispetto del vincolo europeo del 3% di deficit, c'è in realtà la difesa ostinata, ad oltranza, della spesa pubblica. Nessuno chiede di sforare quel tetto: tagliare le tasse, o per lo meno evitare di aumentarle, si può trovando le necessarie coperture, tagliando la spesa. Ma se un ministro dell'economia sostiene che è impossibile trovarne in un bilancio di oltre 800 miliardi l'anno, sta implicitamente dichiarando o la sua impotenza o la sua incapacità. Delle due l'una, non si scappa. Anche perché in questi anni, le famiglie e le imprese, per far fronte non solo alla crisi ma anche alle pretese debordanti del fisco, hanno tagliato ben più dello 0,5% (tanto vale scongiurare l'aumento dell'Iva) dai loro bilanci.

Le fantastiche 7 proposte di Brunetta - tra anticipi, rinvii e una tantum - danno effettivamente il senso di qualcosa di molto precario e raccogliticcio, ma tra misure "spot" e vere riforme ci sono molteplici interventi possibili. Un intervento sulle pensioni d'oro può valere da un miliardo, nell'ipotesi più minimale, fino a una dozzina, nell'ipotesi più ambiziosa e radicale (e si può fare in modo da non incorrere nella bocciatura della Consulta). Poi ci sono gli stipendi d'oro dei manager pubblici, i sussidi troppo generosi alle rinnovabili, le province e il finanziamento pubblico ai partiti che sono duri a morire. Quindi le riforme di sistema, come la spending review "zero-based", l'adozione dei costi standard, la revisione del Titolo V, il disboscamento della selva di contributi alle imprese e di agevolazioni fiscali. Su tutto questo il governo finora non ha ancora mosso un passo.

I soldi, dunque, ci sono eccome, bisogna concludere che non tagliare, non evitare l'aumento dell'Iva, è una scelta politica, non un dato ineluttabile con cui fare i conti. Meglio aumentare l'Iva che ridurre la spesa pubblica? Lo si dica apertamente, mettendoci la faccia davanti all'opinione pubblica, ma basta con il giochetto dei soldi che non ci sono e con la retorica della "responsabilità", della "stabilità" e dei vincoli europei. La "stabilità" dell'attuale livello di pressione fiscale pur di non toccare la spesa pubblica, questo sì è massimamente irresponsabile. Invece chi vuole tagliare le tasse, anche se chiede di trovare adeguate coperture nei tagli alla spesa, viene accusato di populismo e demagogia, di propaganda, perché - si dice - non conosce davvero il bilancio e la macchina pubblica. Questa retorica, e l'indicare nell'evasione fiscale la causa prima del dissesto dei nostri conti pubblici, sono i peggiori inganni e le più efficaci strategie dei difensori della spesa pubblica.

Come ampiamente previsto, anche la polemica contro i tagli lineari si è rivelata niente più che un alibi per non tagliare. Bisogna agire selettivamente sulla spesa, ci viene spiegato, ma per farlo serve tempo, ci vuole un commissario, poi un altro; un rapporto, poi un altro, e così via. No, bisogna riabilitare i tagli lineari! Sia il governo a fissare obiettivi di risparmio ad ogni centro di spesa, in percentuali naturalmente diversificate, e siano gli enti stessi nella loro autonomia a decidere cosa tagliare. Per favorire una spending review "dal basso", per esempio, si potrebbero fissare premi economici e di carriera ai dirigenti pubblici che riescono a risparmiare, a ridurre le loro voci di spesa a parità di produttività.

Due strane coincidenze, poi, fanno dubitare dei veri motivi all'origine dell'improvviso irrigidimento sia del ministro Saccomanni, arrivato persino a minacciare le proprie dimissioni, che del premier Letta. E' avvenuto subito dopo l'incontro con il commissario europeo Olli Rehn e subito dopo il videomessaggio in cui Berlusconi, lasciando intendere di non voler staccare la spina alle "larghe intese" sulla propria decadenza, ha chiesto con forza però di fermare il «bombardamento fiscale»: la spiacevole sensazione, insomma, è che non si voglia fare qualcosa di ragionevole come scongiurare l'aumento dell'Iva solo per non accontentare il Pdl, per non concedergli altri "punti" dopo l'Imu. Ma così, per meri calcoli politici, a rimetterci sarebbero tutti gli italiani.

Thursday, September 19, 2013

Relitto Italia: operazione galleggiamento

Anche su L'Opinione

Si sono sprecate in questi giorni molte similitudini tra l'operazione di "parbuckling" della Costa Concordia e la situazione del nostro paese, i tentativi di "salvarlo" dagli abissi della decrescita. Ma non mi pare sia stata evocata l'unica davvero appropriata. Se quella sulla Concordia è stata un'operazione perfettamente riuscita dal punto di vista ingegneristico, anche il governo Letta, come il governo Monti prima di lui, potrebbe (forse) riuscire nell'impresa dal punto di vista contabile, quindi a rispettare i parametri europei e a gestire il nostro enorme debito pubblico, ma il paese che riuscirà eventualmente a risollevare e a far galleggiare sarà, temo, soltanto un relitto. Un esito scontato se la via del rigore e del risanamento non prevederà massicce dosi di riduzione di spesa pubblica e, quindi, di pressione fiscale.

Purtroppo l'obiettivo della nostra classe politica, ma anche dell'alta burocrazia e delle corporazioni dominanti (sindacati e Confindustria) non sembra essere quello di evitare agli italiani un penoso futuro, ma quello di salvare la spesa pubblica, apportando aggiustamenti marginali sì, ma senza mettere in discussione la sua mole, quindi senza scalfire la rete di clientele e le rendite di posizione che garantisce a chi la gestisce.

Ecco perché piuttosto che il governo del fare, questo è il governo del rinviare, nella speranza che un po' la ripresa dell'export, un po' qualche fondo europeo, garantiscano quella crescita dello zero virgola che ci consenta di galleggiare, mentre in realtà ci condanna al declino e all'impoverimento relativo rispetto sia agli altri paesi europei che ai paesi emergenti. Insomma, la missione di questo governo sembra quella di far galleggiare il relitto Italia (come si sta facendo con il Concordia, riaddrizzato ma pur sempre un relitto).

Stiamo ancora aspettando l'avvio della mitologica spending review, o del programma di dismissioni, o ancora l'attuazione dei costi standard, così come siamo in attesa delle coperture per la cancellazione della seconda rata dell'Imu e del promesso (entro il 31 agosto scorso) riordino sulla tassazione immobiliare. Per non parlare dell'immobilismo su pensioni e stipendi d'oro, sui contributi alle imprese del rapporto Giavazzi, insabbiato dal Ministero dello Sviluppo, con il silenzio complice di Confindustria, per impedire lo scambio "meno politica industriale" (sussidi per pochi) - "meno tasse" (per tutte le imprese). Pare sia "inevitabile", invece, l'aumento dell'Iva dal 21 al 22%, già l'aliquota più alta d'Europa. Il commissario europeo Rehn sembra essere stato "calato" da Bruxelles proprio per benedire la decisione del governo Letta di non evitarlo - a meno che non sia un patetico escamotage per far gridare al miracolo quando ne verrà annunciato l'ennesimo rinvio al primo gennaio o aprile o luglio 2014. Soldi non ce ne sono, eppure il governo Letta-Alfano è riuscito a trovare le risorse per ulteriore spesa pubblica, dalla stabilizzazione dei precari della pubblica amministrazione al decreto sulla scuola, passando per i fondi alla cultura e altre micro-spese che sommate non sono così trascurabili.

Nel frattempo i ministri del Pdl, che proprio il vicepremier Alfano (il più distratto tra i suoi colleghi ministri pidiellini nel farsi passare sotto il naso ogni sorta di balzello) ha avuto l'impudenza di definire il "fortino antitasse" nel governo, si stanno rivelando un partito della spesa. Lupi sta preparando un piano quinquennale per il rinnovo del parco mezzi pubblici e privati su gomma con incentivi per 500 milioni (metà di quanto servirebbe per bloccare l'aumento dell'Iva fino a dicembre). La De Girolamo un pacchetto di incentivi e formazione per l'assunzione di "giovani" (under 40) nell'agricoltura «figa» (qualunque cosa significhi...).

E' vero, il Pdl è comprensibilmente preso dalle vicende del suo leader, ma sembra proprio non riuscire a darsi una linea salda su tasse/spesa e riforme istituzionali, nonostante i generosi sforzi di qualcuno non vadano dimenticati. Non ci iscriviamo però alla folta schiera di quanti non si rendono conto, o fingono di non accorgersi, che il caso Berlusconi non riguarda solo il cittadino e il politico Berlusconi. Sono in gioco valori fondamentali per qualsiasi democrazia, che rischiano di essere travolti insieme al controverso leader, e di restare sepolti chissà per quanto tempo. Stiamo assistendo all'inizio della fase più cruenta del giacobinismo italiano e non possiamo dire oggi se, e quando avrà fine. Abbiamo la sensazione però che, una volta montata, la ghigliottina giustizialista resterà in attività a lungo, anche molto dopo l'uscita di scena del Cav.

Dunque, non rimproveriamo a Berlusconi e ai suoi di voler tenere il punto, di aggrapparsi con le dita di mani e piedi allo scoglio per non farsi trascinare via dalla corrente, ma di avere sostanzialmente smesso di porsi, e di proporre ai cittadini, obiettivi politici di maggiore appeal. Di non rendersi realisticamente conto che per quanto sulla giustizia rischiamo davvero di giocarci definitivamente la democrazia nel nostro paese, l'unico orizzonte su cui sono fissati gli occhi dei cittadini è comprensibilmente quello della crisi economica, delle politiche per uscirne, del lavoro, delle tasse e della spesa pubblica.

Il sequestro ordinato dal gip di Taranto, che ha costretto il gruppo Riva a sospendere le attività di stabilimenti che nulla c'entrano con l'Ilva, essendo di fatto bloccata la sua operatività finanziaria in tutta Italia, conferma che la magistratura ideologizzata e politicizzata non resta circoscritta al caso Berlusconi e non cesserà di esserlo con la decadenza di Berlusconi. Tende semmai ad estendere il proprio raggio d'azione al di fuori della sfera politica in senso stretto, fino al punto di danneggiare gravemente settori vitali della nostra economia. Non si accontenta di far fuori un avversario politico, sta distruggendo, e non da oggi, ciò che rimane del nostro sistema industriale, e con esso migliaia di posti di lavoro, arrivando a minacciare il principio, e l'esercizio concreto, della libertà d'impresa. E per farlo non esita a disapplicare o aggirare le leggi dello Stato. Non illudiamoci di non pagare il caso Ilva anche in termini di fuga di realtà produttive - italiane e straniere - dall'Italia: una via sicura per il nostro definitivo declino. Per non parlare dei veri e propri attacchi terroristici di cui sono vittime le imprese che lavorano nel cantiere Tav in Val di Susa, che non ricevono dallo Stato adeguata protezione.

Su tutto questo, nonostante l'evidente aggressione della magistratura politicizzata anche alla nostra economia già agonizzante confermi le sue tesi sulla giustizia, il Pdl è rimasto pressoché in silenzio. Mentre il governo studia interventi legislativi - un custode giudiziario cui spetterebbe di guidare in tutto e per tutto l'attività produttiva, l'impresa - che  rischiano di ratificare di fatto una forma di esproprio per via giudiziaria, per di più nella fase delle indagini preliminari, non solo senza una sentenza ma senza nemmeno un processo. L'azione della magistratura di Taranto ormai si è trasformata in lotta di classe contro i Riva e lotta di potere contro Governo e Parlamento. Se il metodo adottato dai magistrati e gli espedienti normativi del governo Letta diventano "sistema", è tracciata la via italiana alle nazionalizzazioni. Davvero per eliminare Berlusconi dalla scena politica non si vuole riconoscere la deriva ideologica e faziosa di parte della magistratura? Ne vale davvero la pena?

Friday, September 06, 2013

Una pericolosa ferita al diritto di voto

Anche su Notapolitica

La legge Severino, di cui si discute in questi giorni l'applicabilità al caso Berlusconi, di fatto introduce una conseguenza sanzionatoria, incandidabilità e decadenza, nei confronti di coloro i quali subiscano condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione, a prescindere che sia inflitta o meno la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici. Quindi una sanzione "automatica", una tagliola che scatta anche se il giudice non ha ritenuto di disporre l'interdizione al momento della sentenza.

Per quanto si sostenga il contrario, la conseguenza sanzionatoria - sia essa penale o solo amministrativa - è auto-evidente: ogni sanzione, infatti, ha l'effetto di ridurre la capacità di esercitare un diritto, in questo caso il diritto di elettorato passivo. Ma anche se non rientrasse tra le norme penali, la cui irretroattività è sancita a livello costituzionale, la legge Severino non potrebbe comunque avere effetti retroattivi in assenza di una deroga esplicita - che non pare esserci - alla regola generale dell'irretroattività delle leggi.

Ma ammesso e non concesso che la legge Severino, come sostengono alcuni, non sia di natura sanzionatoria, che disponga da sé, implicitamente, la propria retroattività, e che si limiti a stabilire un requisito di eleggibilità (prevedere che chi non abbia compiuto 25 anni non sia eleggibile alla Camera non è certo una sanzione), a maggior ragione, se così fosse, andrebbe a mio avviso sottoposta al giudizio della Consulta. Se così fosse, infatti, in gioco non ci sarebbe solo la capacità giuridica del titolare del diritto di elettorato passivo, ma anche il concreto esercizio del diritto di elettorato attivo da parte di milioni di cittadini. Si può togliere a qualcuno il diritto di candidarsi ed essere eletto - e indirettamente ai cittadini il diritto di votarlo - infliggendogli una pena accessoria a seguito di un procedimento penale, il quale però prevede tutta una serie di garanzie a sua difesa. Ma togliere a 40 milioni di elettori il diritto di votare per qualcuno semplicemente restringendo i requisiti di eleggibilità, in modo retroattivo ed extragiudiziale, è faccenda un po' più delicata.

Siamo così sicuri che in democrazia il "controllo di legalità" debba prevalere in modo così netto, automatico e generalizzato sul "controllo democratico"? Non dovrebbe preoccuparci che l'elettorato attivo, cioè quello esercitato dal popolo, venga limitato non solo da una sanzione penale accessoria, applicata al termine di un regolare processo, com'è l'interdizione, ma anche da un semplice requisito di eleggibilità introdotto con legge ordinaria? Forse non è un caso se la non eleggibilità a deputato dei minori di 25 anni è una norma di rango costituzionale.

E se milioni di elettori ritenessero che il candidato o l'eletto condannato sia vittima di una persecuzione politica e volessero comunque che li rappresentasse? Sul diritto soggettivo al voto dovrebbe prevalere l'interesse legittimo collettivo ad avere un Parlamento privo di condannati? Ne siamo così certi? Il Parlamento equivale proprio ad un ufficio pubblico? Per la salute di una democrazia non sarebbe forse un "male minore" accettare che teoricamente un condannato in via definitiva possa venire eletto, se il popolo lo desidera, e se non interdetto da un giudice naturale, piuttosto che correre il rischio che un potere, anzi un ordine fuori controllo abusi del cosiddetto "controllo di legalità", o peggio di un semplice requisito di eleggibilità, per eliminare dalla vita pubblica i propri avversari politici?

E' proprio delle dittature (come dimostrano Iran, Cina, o Birmania con il caso Aung San Suu Kyi) approfittare del "controllo di legalità" per eliminare i dissidenti dalla competizione politica. Insomma, che i cittadini possano liberamente farsi rappresentare anche da un loro concittadino condannato, una volta espiate le pene stabilite al termine di un giusto processo, è un'utile polizza di assicurazione contro derive autoritarie. La pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici già esiste nel nostro ordinamento, ma giustamente può essere inflitta solo dal giudice naturale e qualsiasi suo inasprimento è sottoposto al principio dell'irretroattività. Se, come sostengono alcuni, la legge Severino stabilisce un requisito di eleggibilità e non introduce una sanzione penale, è ancora più grave la ferita inferta alla nostra democrazia, perché restringendo in modo automatico ed extragiudiziale l'elettorato passivo e attivo, di fatto limita il diritto di voto in via amministrativa.

Wednesday, September 04, 2013

In gioco il diritto alla guerra "giusta"

Anche su L'Opinione

E' stato l'agire incerto e maldestro di Obama, privo di un'idea precisa sul ruolo da giocare in Medio Oriente fin dall'inizio di questa delicata fase di transizione, ad esporre gli Stati Uniti al rischio di un clamoroso smacco politico e diplomatico nella crisi siriana. Ma paradossalmente, proprio quando è apparso chiaro che in gioco non c'erano più solo la sua faccia e l'intervento in Siria, bensì la credibilità degli Stati Uniti stessi, la loro capacità di deterrenza, Obama è riuscito ad uscire dall'angolo in cui si era infilato. Chiamando in causa il Congresso, con una mossa azzardata ma a quel punto obbligata, ha reso ancor più evidente la posta in gioco e i leader repubblicani non hanno potuto far altro che venire in soccorso del presidente, se non altro per amor di patria. Sulle questioni di sicurezza e di prestigio nazionale l'America si conferma unita. L'accordo raggiunto al Senato per una risoluzione bipartisan sull'intervento consente a Obama di presentarsi con maggiore forza di fronte al G20, e di fatto riapre uno spiraglio diplomatico per tentare di costruire una qualche forma di consenso internazionale sulla necessità di sanzionare con le bombe il regime siriano.

Anche il presidente russo Putin non ha potuto escludere l'approvazione di una risoluzione Onu sulla Siria, nel caso venissero mostrate prove "inconfutabili" dell'uso di armi chimiche da parte di Assad. Ma ovviamente la sua è un'apertura destinata a restare puramente teorica, persino se fosse il dittatore siriano in persona ad ammetterlo.

La posizione di Obama quindi resta molto critica. Anche perché le incertezze e i segni di debolezza mostrati fino ad oggi, così come l'ignavia dell'Europa, non l'aiuteranno a convincere Russia e Cina, che anzi già pregustano lo smacco, e l'ulteriore indebolimento di Washington. E John McCain nel frattempo si è dissociato dall'intesa bipartisan, annunciando che voterà contro la bozza preparata al Senato, la cui approvazione quindi è tutt'altro che scontata. L'anziano senatore, e fiero avversario di Obama nella campagna del 2008, ritiene tempi e modalità dell'intervento inefficaci a provocare un cambio di regime a Damasco, obiettivo che invece sosterrebbe.

In effetti, oltre ad essere tardivo e preparato in modo approssimativo a livello diplomatico, dell'intervento delineato dalla Casa Bianca è davvero difficile scorgere logica e obiettivi politici, il disegno di lungo termine. Somiglia più ad un fallo di frustrazione dell'amministrazione Obama per coprire l'ennesimo fallimento della sua non-strategia, il cosiddetto "leading from behind". Anche in caso di caduta di Assad, Washington sembra comunque intenzionata a restare defilata nella gestione post-conflitto, come già in Egitto e Libia. Se si tratta di un attacco dimostrativo, utile solo a Obama per salvare la faccia di fronte ai massacri di civili, e come contentino all'Arabia Saudita, allora le perplessità sono più che legittime. Se l'obiettivo invece è il regime change, l'intervento dovrebbe puntare almeno all'uccisione di Assad, o a farlo cadere, ma bisogna anche avere un piano per un impegno deciso e duraturo volto a favorire un nuovo ordine in Medio Oriente, non per defilarsi e delegare tutto ai sauditi non appena caduta l'ultima bomba.

Il fallimento di Obama è non avere una visione di politica estera, ma agire opportunisticamente, subendo gli eventi anziché cercando di influenzarli. Non ha un piano, ma solo potenziali problemi di immagine su cui mettere una frettolosa toppa. La sensazione è che questo attacco gli serva per rispondere a chi lo accusa di essere rimasto indifferente ai massacri, per far vedere di averci provato. Ma non affronta le sfide, fa "spin doctoring".

Bisogna tuttavia considerare che per quanto privo di un piano e di una visione strategica, a questo punto, dopo le parole del segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon («l'uso della forza è legale solo se autorizzato da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu») e quelle di Papa Francesco (a proposito, perché solo ora preghiere e digiuni, dopo due anni di guerra, massacri e innocenti gasati in Siria?), l'intervento avrebbe anche il valore politico non trascurabile di riaffermare che si può – e in alcuni casi si deve – agire anche unilateralmente, senza subire veti da Russia, Cina e Iran, né il ricatto morale del pacifismo ipocrita. Di riaffermare il diritto/dovere alla guerra "giusta", oggi contestato fin nel suo principio umanitario.

Mentre Obama pretende di presentare il suo "case for war" in Siria in modo molto diverso dal caso iracheno («io ero contrario alla guerra in Iraq e non voglio certo ripeterne gli errori»), non stupisce che i suoi argomenti siano così simili a quelli usati proprio da George W. Bush dieci anni fa, a cominciare dal possesso e l'uso delle famose armi di distruzione di massa. Obama esprime rispetto per il ruolo dell'Onu e degli ispettori, ma ribadisce di fidarsi delle informazioni raccolte e si riserva il diritto di agire anche da solo nell'interesse e per la sicurezza degli Stati Uniti. Mette in guardia, poi, dai costi del non agire: «La nostra sicurezza di lungo periodo è minacciata dall'ignorare situazioni come quella siriana». Ricorda che tutte le vie diplomatiche sono state esplorate e che, alla fine, contro i "bulli" servono azioni decise. «Possiamo cercare una nuova risoluzione Onu, ma non sempre il Consiglio potrà agire, e agire si deve – osserva – è in gioco la credibilità della comunità internazionale». «Amiamo la pace, ma bisogna fare i conti con un mondo pieno di violenza e a volte anche di male, e dobbiamo assumerci le nostre responsabilità».

Un déjà vu, insomma. Davanti agli stessi dilemmi – il possesso e l'uso di armi di distruzione di massa da parte dei dittatori; la paralisi del Consiglio di Sicurezza Onu, sotto il ricatto dei veti di Russia e Cina; il pantano mediorientale; la necessità di tutelare la credibilità e il potere di deterrenza, oltre che la sicurezza, degli Usa – ecco che nelle parole di Obama si avverte l'eco dell'odiato Bush.