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Wednesday, August 28, 2013

Qualche missile per coprire i suoi fallimenti

Siria: regime change sì, l'ennesimo spot di Obama no, grazie

Parafrasando Friedman sulle tasse, chi segue questo blog sa che «sono favorevole a buttare giù una dittatura in qualsiasi circostanza e con qualsiasi scusa, per qualsiasi ragione, ogni volta che è possibile». Ma di questo si tratta nel caso dell'intervento militare che sta valutando Obama in Siria? E' lecito dubitarne. E' talmente tardivo che è davvero difficile ravvisarne logica e obiettivi politici. La durata (pochi giorni) e le modalità (lancio di missili) fanno pensare ad un atto dimostrativo piuttosto che ad un intervento mirato a (e in grado di) provocare un cambio di regime. E Washington sembra comunque intenzionata a restare defilata nell'eventuale post-caduta del regime, come già in Egitto e Libia.

Per due anni, praticamente disinteressandocene e non schierandoci, chi illudendosi di poter convincere con le buone Mosca e Teheran ad abbandonare le proprie postazioni a Damasco, chi confidando nei sauditi, abbiamo permesso che la ribellione contro il regime di Assad in Siria si trasformasse in una guerra tra estremisti sunniti (al Qaeda) e fondamentalisti sciiti (Iran, Hezbollah). La scomoda verità è che al Qaeda è stata più svelta dell'Occidente nell'approfittare della crisi del regime siriano per tentare di assestare un colpo mortale alle aspirazioni egemoniche iraniane e russe sulla regione, al fine ovviamente di sostituirvi le proprie. E abbiamo lasciato che fosse l'Arabia Saudita ad aiutare i ribelli, con il risultato, come altrove in passato, che Assad, sostenuto da Teheran, sembra poter resistere, e che i sauditi hanno lasciato troppo spazio ai jihadisti.

Nelle fasi iniziali un aiuto occidentale diretto o indiretto avrebbe potuto garantire la leadership della ribellione alla parte migliore dell'opposizione ad Assad, quella laica, di civili ed ex militari, limitando quindi le infiltrazioni jihadiste e controllando da vicino come si sviluppava in concreto, sul terreno, l'ingerenza saudita. Ma ora che il conflitto si è trasformato in una guerra settaria tra terroristi sciiti e sunniti, è davvero arduo intervenire contro gli uni senza aiutare gli altri. Nella migliore, ma nient'affatto scontata, delle ipotesi, l'intervento favorirebbe l'Arabia Saudita, con la quale condividiamo, è vero, l'interesse a contenere gli ayatollah, ma che come sempre non è altrettanto netta e limpida nel contrastare l'integralismo e il terrorismo di matrice sunnita. Insomma, un altro fallimento del "leading from behind".

Obama ha dormito per due anni - mentre nel frattempo si concedeva la passerella contro il folcloristico Gheddafi - non s'è avvantaggiato in alcun modo della crisi siriana nei confronti di Russia e Iran (anzi!). Ora però è stata oltrepassata la "linea rossa": l'uso di armi chimiche. Quale ipocrisia! Prima di tutto, un massacro indiscriminato di civili è tale a prescindere dalle armi usate, se i macete o armi chimiche, e in quest'anno e mezzo se ne sono visti in abbondanza. Inoltre, prove dell'uso di armi chimiche sono emerse già mesi e mesi fa. Non sarà forse che ora sono aumentate le pressioni saudite, dato che senza intervento esterno Assad potrebbe addirittura prevalere?

Non c'è nulla di più vile però che nascondersi dietro l'assenza di un mandato Onu per dire no all'intervento militare in Siria. Significa infatti farsi dettare la politica estera e di sicurezza da Russia e Cina. Emma Bonino così facendo non fa certo onore alla sua storia politica, ma almeno rispetto ai suoi critici di sinistra non aderisce al doppio standard: se Bush non poteva deporre Saddam senza autorizzazione Onu Obama può attaccare Assad? Perché? Il primo violava il diritto internazionale e Obama no? Perché? Purtroppo sì, l'Occidente si sta riavvitando di nuovo sui soliti aspetti marginali, come l'uso di armi chimiche o il mandato dell'Onu, mentre la questione centrale dovrebbe essere: come agire per ottenere cosa?

Se si tratta di un attacco dimostrativo, utile solo a Obama per salvare la faccia di fronte ai massacri di civili, e come contentino all'Arabia Saudita, allora le perplessità sono più che legittime. Se l'obiettivo invece è il regime change, bisogna puntare almeno ad uccidere Assad, come suggerisce Bret Stephens, o a farlo cadere, ma bisogna anche avere un piano per un impegno deciso e duraturo volto a favorire un nuovo ordine in Medio Oriente, non per defilarsi e delegare tutto ai sauditi non appena caduta l'ultima bomba. Non mi pare quest'ultimo però il nostro caso.

Il fallimento di Obama è non avere una visione di politica estera, ma agire opportunisticamente, subendo gli eventi anziché cercando di influenzarli. Non ha un piano, né visione o principi, ma solo potenziali problemi di immagine su cui mettere una frettolosa toppa. La sensazione è che questo attacco gli serva per rispondere a chi lo accusa di essere rimasto indifferente ai massacri, per far vedere di averci provato... ma lui non affronta le sfide, fa "spin doctoring". E uno dei problemi del Medio Oriente oggi è che gli Stati Uniti non toccano palla in Medio Oriente.

Molti di sinistra in queste ore stanno rievocando l'interventismo democratico di Clinton e Blair per giustificare l'intervento contro il sanguinario Assad (definito solo pochi mesi fa un «riformatore» - non va dimenticato - dal precedente segretario di Stato di Obama), ma è un riferimento a sproposito: in quello che Obama sta per fare in Siria non c'è un'unghia di quello che fecero Clinton e Blair nei Balcani. Giuste o sbagliate che fossero, e a prescindere dagli errori commessi nella loro concreta applicazione, altri presidenti americani, da Clinton al tanto vituperato Bush, avevano una dottrina, una strategia, un'idea abbastanza definita sul nuovo ordine da favorire, nei Balcani così come in Medio Oriente. Obama mostra invece di non averne.

Wednesday, August 07, 2013

The Real Untouchables

Anche su Notapolitica e L'Opinione

L'intervista rilasciata dal giudice Antonio Esposito al Mattino, e l'audio che ha letteralmente e totalmente sbugiardato la sua doppia smentita, sono di una gravità inaudita. 1) Il giudice della Cassazione, presidente della Corte che ha condannato in via definitiva Berlusconi, ha mentito per due volte, nelle due smentite in cui ha negato di aver pronunciato le frasi che poi tutti abbiamo potuto ascoltare nell'audio pubblicato dal quotidiano, e probabilmente ha mentito anche al suo capo, il primo presidente della Cassazione Santacroce, rispondendo alle sue richieste di chiarimento. 2) Nella registrazione audio Esposito sembra fare riferimento proprio alle motivazioni della sentenza di condanna inflitta a Berlusconi: «Noi non andremo a dire "chillo non poteva non sapere", noi potremmo dire nella motivazione, eventualmente, "tu venivi portato a conoscenza di quello che succedeva"... Nunnè che tu nun putev nun sape' pecché eri u cap, pecché pur u capo potrebbe non sapere. Tu non potevi non sapere perché Tizio, Caio e Sempronio hanno ditto che te l'hanno riferito, allora è nu poco diverse».

3) Il giudice Esposito cade in contraddizione comunque, sia che si riferisse a Berlusconi sia che parlasse in generale. Se infatti si riferiva alla sentenza Mediaset, è evidente che non ha letto gli atti del processo, dal momento che nessun testimone, nessun "Tizio, Caio e Sempronio" ha mai detto di aver portato a conoscenza di Berlusconi l'elusione fiscale. Anzi, "Tizio, Caio e Sempronio" hanno sempre smentito di averlo informato. Se, invece, parlava in generale, allora la sentenza da lui pronunciata va contro il principio di diritto enunciato nell'intervista, nella quale conferma più volte che non si può condannare qualcuno sull'argomento solo logico, e non giuridico, del "non poteva non sapere", mentre la sentenza che la Cassazione era chiamata a valutare in diritto, senza entrare nel merito, si basava proprio sul "non poteva non sapere", non sul "sapeva".

Nelle sue smentite Esposito denuncia la «manipolazione» dell'intervista, ma qui l'unica manipolazione compiuta dal giornalista del Mattino è la traduzione in italiano delle parole del supremo giudice. In linea teorica, di principio, se un giudice si lascia scappare che l'imputato è stato condannato senza prove - è questo, in pratica, che emerge dall'audio di Esposito - dovrebbe essere possibile revocare anche una sentenza di Cassazione. Ma anche ammesso che l'intervista e l'audio di Esposito non siano elementi sufficienti ad inficiare la sentenza, sono evidentissimi gli estremi per un'azione disciplinare nei suoi confronti. Eppure, mentre scriviamo, a quasi 24 ore dalla pubblicazione dell'audio dell'intervista, che sbugiarda totalmente il giudice, non abbiamo notizie in tal senso, né da parte del Ministero della Giustizia né da parte del Csm. Si badi che l'iniziativa avviata dai consiglieri "laici" del Csm Zanon, Palumbo e Romano, e trasmessa alla I Commissione, è una "pratica a tutela", ben diversa da un procedimento disciplinare ai sensi del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109.

Altro che riforma della giustizia, che qualcuno ingenuamente o ipocritamente evoca come possibile, ora che con la condanna sarebbe caduto l'alibi del favore a Berlusconi. La Cancellieri come ministro della Giustizia e il presidente Napolitano in qualità anche di presidente del Csm potrebbero - quindi dovrebbero - pretendere l'avvio di un'azione disciplinare nei confronti del giudice Esposito. Eppure, né l'una né l'altro sembrano avere la forza nemmeno per chiederla su un caso così conclamato. Figuriamoci una riforma della giustizia! L'amara realtà è che i magistrati nel nostro paese fanno parte dell'unica casta davvero intoccabile, mentre in un paese normale, civile, un Esposito sarebbe stato espulso dalla magistratura e privato della pensione.

Tuesday, August 06, 2013

L'unica via di Berlusconi per una rivincita è la politica

Tasse e presidenzialismo: l'unica "agibilità politica" che il Cav può recuperare

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Berlusconi e gli esponenti del suo partito dovrebbero essere i primi a mostrarsi convinti della fondatezza delle loro denunce sullo strapotere delle toghe. Viviamo davvero in una "Repubblica delle Procure". Dopo una lunga sfilza di atti di resa della politica dal 1992 ad oggi - varchi aperti innanzitutto dalla sinistra, bisognosa di concedere ai magistrati spazi e poteri necessari per abbattere per via giudiziaria i nemici che non riusciva a battere politicamente - si sono impossessate del potere di cassare la classe politica selezionata da colui che, in teoria, secondo la nostra Costituzione è ancora sovrano: il popolo. Il nostro, dunque, è di fatto un sistema misto, una democrazia sotto tutela giudiziaria, o mutilata.

Se così stanno le cose, Berlusconi dovrebbe prendere atto che non può vincere la sua battaglia sul piano giudiziario. Non ci si può realisticamente aspettare che il presidente Napolitano restituisca al leader del Pdl l'"agibilità politica" revocatagli dai giudici. A cosa serve parlare di grazia, o evocare altre fantasiose formule, se comunque altre condanne sono dietro l'angolo, e se la legge Severino ha praticamente consegnato i requisiti di eleggibilità nelle mani della magistratura?

Maldestra è stata la salita al Colle, con armi del tutto spuntate, dei capigruppo Brunetta e Schifani. Non è nella disponibilità di Berlusconi nemmeno la decisione di farsi la galera vera e propria, dal momento che i giudici non gli faranno questo "regalo" politico. Potrà scegliere tra i domiciliari e i servizi sociali, e dovrebbe soppesare molto attentamente, e pragmaticamente, quale delle due situazioni gli lascerebbe maggiori spazi e tempi di interazione con la sua famiglia e il suo partito, e di comunicazione con l'opinione pubblica.

Berlusconi e i suoi dovrebbero al più presto convincersi - ma avrebbero dovuto convincersene anni fa - che l'unica vittoria cui possono ambire è sul piano morale e politico. E lottare, dunque, per essa, dato che margini di manovra ancora ci sono. Dovrebbero smetterla di agire come se una linea politica o l'altra potesse influenzare l'esito delle vicende giudiziarie, ottenendo a conti fatti solo il contrario, e cioè che le vicende giudiziarie influenzano - e negativamente - il loro agire politico. Non c'è mossa o atteggiamento politico che possa salvare Berlusconi dalle sentenze: né un sostegno passivo al governo né la sua caduta, né una resa né una rottura, insomma né la linea delle cosiddette colombe né quella dei cosiddetti falchi possono salvarlo giudiziariamente. Ma ci sono scelte e comportamenti politici che possono ancora farlo vincere politicamente.

Una gran parte degli elettori, ovviamente di centrodestra, hanno capito che il Cav è stato ed è oggetto di un accanimento giudiziario, una vera e propria persecuzione, da quando è sceso in campo, ma non si appassionano per le polemiche sulla giustizia, tanto meno per la grazia e l'amnistia. Come hanno sempre fatto, concedono o revocano la loro fiducia a Berlusconi sulla base di considerazioni politiche, dei loro interessi. La rimonta alle elezioni di quest'anno è stata possibile, nonostante un'immagine devastata dal caso Ruby e una deludente stagione di governo, perché Berlusconi ha messo al centro della sua campagna l'economia, e in particolare l'oppressione fiscale, mantenendo il più possibile lontane le sue vicende giudiziarie e le polemiche con la magistratura.

E il consenso di cui secondo gli ultimi sondaggi dispone oggi il Pdl deriva sì dall'assenza di alternative - l'operazione Monti si è rivelata inconsistente, e i grillini incompetenti - ma anche dall'atteggiamento responsabile di Berlusconi, che ha reso possibile la nascita del governo Letta, anzi ne è stato uno dei promotori, anteponendo gli interessi del paese a quelli di parte. Facendo cadere ora il governo Letta, come rappresaglia per la sentenza della Cassazione, Berlusconi e il Pdl farebbero un grande regalo ai loro nemici, finendo per avvalorare le accuse di irresponsabilità e disperdendo quindi il patrimonio di consensi ritrovato. Viceversa, la rottura con il governo Letta dovrebbe eventualmente consumarsi su questioni di governo che interessano gli elettori, quando fosse conclamato il suo immobilismo.

L'unica "agibilità politica" che Berlusconi può recuperare dipende da lui: porsi - e porre alle sue controparti - obiettivi politici. Se l'unica vittoria a cui può aspirare è politica, sono i risultati politici che può e deve pretendere dal governo Letta. Se questo si dimostrasse incapace di produrre risultati - per esempio, ridurre le tasse e varare finalmente un vera riforma costituzionale - allora sì, maturerebbero le condizioni per porre fine anche a questa esperienza. E la "deadline", il momento della verità, non può che essere l'autunno prossimo. La domanda politica che il Pdl deve porsi, e porre, pretendendo una risposta dai suoi alleati di governo e anche dal capo dello Stato, in qualità di padrino dell'attuale esecutivo, è la seguente: il Pd ha intenzioni serie? E' pronto ad assumersi la responsabilità, e sopportarne i costi politici, di riformare le istituzioni insieme a un partito il cui leader è stato appena condannato, oppure sta semplicemente prendendo tempo per riorganizzarsi, mentre la magistratura porta a termine il lavoro sporco di togliere di mezzo il suo unico avversario politico? Ciò che Berlusconi e i suoi possono pretendere da Napolitano non è la grazia, o la riforma della giustizia, ma una garanzia su questo punto: che costringa il Pd a realizzare le riforme costituzionali insieme al Pdl.

Se condannando Berlusconi la magistratura si è dichiarata indisponibile a quell'atto di pacificazione le cui premesse sembravano essere poste dalla nascita del governo di "larghe intese", ora bisogna capire se il Pd è almeno disponibile ad un atto di pacificazione sul piano politico, che può consistere unicamente nel realizzare insieme al suo nemico storico, seppure condannato, le riforme costituzionali a lungo attese. Il percorso, per come è stato incardinato dal ministro Quagliariello e dalle Commissioni Affari costituzionali, rischia di essere troppo lento rispetto agli sviluppi extra-politici. Serve un segnale subito, già alla ripresa delle attività parlamentari a settembre. Se c'è la volontà politica, un accordo per una nuova forma di governo e una conseguente nuova legge elettorale si può chiudere domattina. Se non c'è, non ha più senso un governo di "larghe intese".

Come abbiamo già osservato, con la sentenza della Cassazione le possibilità di una riforma della giustizia, già ridotte ai minimi termini, si sono del tutto azzerate, e il richiamarla nella sua nota di giovedì sera è stato da parte del presidente Napolitano tra il velleitario e l'ipocrita. Mai una riforma della giustizia è stata così lontana dal nostro orizzonte politico come lo è oggi. Come ha giustamente osservato Panebianco sul Corriere della Sera, ormai «la magistratura è l'unico "potere forte" oggi esistente in questo Paese e lo è perché tutti gli altri poteri, a cominciare da quello politico, sono deboli. Non permetterà mai al potere debole, al potere politico, di riformarla». Forse qualche correttivo per introdurre un po' di efficienza sì, ma scordatevi una riforma dell'ordinamento giudiziario, come quella abbozzata nella legge delega Castelli nel 2005.

Berlusconi e il Pdl dovrebbero evitare di porla come condizione, dal momento che sarebbe del tutto velleitario. Ha di nuovo ragione Panebianco: se gli «attacchi frontali» si sono risolti in massacri per gli attaccanti, serve una «strategia indiretta», «il problema va aggredito da un'altra prospettiva», passando cioè per il «rafforzamento della politica». E c'è una sola via diretta per rafforzare la politica: il presidenzialismo. Un capo dello Stato eletto direttamente dal popolo potrebbe modificare "dall'alto" gli equilibri di potere in quelle istituzioni-chiave che si oppongono a qualsiasi riforma della giustizia. L'incandidabilità di Berlusconi dovrebbe, diciamo, facilitare le cose, togliendo al Pd un comodo alibi per dire no ad una riforma che ormai piace anche gli elettori di sinistra.

Friday, August 02, 2013

Il solito tempismo di Napolitano

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Eh no, caro presidente Napolitano, le sue sono lacrime di coccodrillo. E' il suo solito tempismo! Possibile che ci arriva sempre in ritardo, come su quel maledetto 1956 a Budapest? Anche Lei, come molti illusi (o ipocriti), pensa davvero che solo ora che Berlusconi è condannato in via definitiva sia finalmente possibile riformare la giustizia? E' proprio questo che ha lasciato intendere con la sua nota di giovedì sera: rispetto per la magistratura, ma allo stesso tempo nemmeno Lei vi ripone troppa fiducia, se avverte che "ora" occorre sbrigarsi a ridimensionarla. Ed è grave che Lei abbia tra le righe ammesso che fino ad oggi il Parlamento era interdetto a farlo, non libero di riformare la giustizia, perché sarebbe sembrato un favore a Berlusconi e un dispetto ad alcuni settori influenti della magistratura. E' un'amara verità, quella della politica sotto il ricatto della magistratura, la quale però un presidente della Repubblica, che nel nostro paese è a capo dell'ordinamento giudiziario, aveva il dovere di denunciare apertamente ben prima di giovedì, non tra le righe di un comunicato successivo all'estromissione dalle istituzioni del leader di 10 milioni di italiani.

In quella nota Lei, presidente Napolitano, conferma indirettamente che contro Berlusconi ha agito una giustizia politica. Be', ora è un po' tardi per chiudere la stalla: le condizioni per riformare la giustizia non sono state mai favorevoli, è vero, ma oggi le chance sono pari allo zero. E' impensabile che proprio ora, dopo il maggior successo dei magistrati politicizzati, i partiti trovino la forza per arginare il loro strapotere. Se si azzardano, gli esponenti berlusconiani subiranno lo stesso trattamento del loro capo. E quelli del centrosinistra, che hanno cavalcato le iniziative mediatico-giudiziarie per sconfiggerlo, dal momento che non ci riuscivano politicamente, sono ancor più sotto il ricatto del partito dei giudici e dell'estremismo forcaiolo che essi stessi hanno alimentato. Si tratta di una magistratura che ha rivendicato il potere di selezionare la classe politica. E, complice anche il Suo silenzio, oggi se ne è appropriata. Ormai la magistratura politica ce la tieniamo, con o senza Berlusconi. Tante grazie, presidente.

Thursday, August 01, 2013

Comunque vada, condannata la nostra democrazia

Anche su Notapolitica

Qualunque sia la sentenza della Cassazione, che la condanna a Berlusconi venga confermata o annullata, con o senza rinvio, ormai il danno inferto alla nostra democrazia è irreparabile. Né l'uno né l'altro esito ormai basterebbero a ristabilire la credibilità della giustizia, e quindi della democrazia in Italia. Bisogna cominciare a chiedersi se questo paese sia riformabile per via democratica. Le burocrazie statali e locali, le alte magistrature, i poteri corporativi, il "partito della spesa" - trasversale, potendo ormai contare probabilmente anche su una maggioranza numerica nelle urne, tanti sono elettori e imprese che sopravvivono o prosperano di spesa pubblica - e infine il "partito delle procure", hanno dimostrato in questi anni di poter respingere o neutralizzare qualsiasi tentativo - attacco frontale o approccio sobrio - di cambiare gli equilibri politici nelle istituzioni che contano, e quindi qualsiasi cambiamento che andando oltre una mera manutenzione compromettesse l'assetto di potere esistente e l'enorme mole di denaro dei contribuenti che gli serve per sopravvivere.

Attenzione: non intendo dire che solo Berlusconi avrebbe potuto cambiare questo paese. Anzi, ha avuto la sua occasione e, fra tragici errori e formidabili attenuanti, l'ha mancata. Ma la storia di questi vent'anni, il "caso Berlusconi", ciò che gli è capitato da quando è "sceso in campo", come è stato combattuto - cioè, non politicamente, ma usando la via giudiziaria per estrometterlo dalla vita politica del paese, per impedirgli di rappresentare una metà degli italiani - pongono una serissima ipoteca sul futuro, sulla cosiddetta "Terza Repubblica". No, qui non si tratta di Berlusconi, il quale anzi, comunque andrà, quasi sicuramente potrà vantare una sorta di vittoria morale, continuando ad essere considerato il leader almeno simbolico di molti milioni di italiani nonostante il fallimento politico di non essere riuscito a cambiare l'Italia.

Si tratta di chi vorrà provarci dopo di lui. A prescindere dal giudizio di ciascuno di noi su Berlusconi, infatti, e dalle verità giudiziarie che emergeranno da questo o da altri processi, c'è un fatto politico inconfutabile per chiunque sia dotato di una minima onestà intellettuale: il "fumus persecutionis". Un fatto che ormai nemmeno l'annullamento della condanna da parte della Cassazione basterebbe a confutare. A questo punto siamo giunti. Probabilmente mai in tutta la storia dell'umanità sono stati mobilitati da parte di un potere pubblico così tanti mezzi - finanziari e umani - per un periodo così prolungato di tempo contro un sol uomo. Per incastrarlo, dal momento che in  gran parte le inchieste su Berlusconi non hanno preso avvio da una notizia di reato, ma da un pregiudizio di reato, partendo cioè dal presupposto che nelle innumerevoli attività e conoscenze di quest'uomo qualcosa di illecito doveva pur averlo commesso, e quindi nella convinzione che dilatando all'inverosimile le indagini, gettando ripetutamente una rete a strascico, qualcosa sarebbe comunque rimasto impigliato.

E forse sì, può darsi che alla fine qualche peccatuccio sia venuto alla luce. Ma quanti di noi sarebbero usciti perfettamente puliti dopo uno screening di tal portata e durata? Piuttosto, c'è da stupirsi che non sia emerso qualcosa di ben più grave di un incerto reato fiscale su una somma pari all'1% di quanto Mediaset ha comunque versato e di una incertissima concussione per ottenere di non far passare una notte in carcere a una ragazza minorenne. No: 41 processi in vent'anni, con un dispiegamento impressionante di mezzi giudiziari e mediatici, danno il senso di una persecuzione politica, di un accanimento giudiziario. Il sospetto che chi osa toccare, o anche solo pensare di toccare, certi fili (e certe "casse") muore, è più che fondato. Quanto meno molti italiani, una fetta non irrilevante, se ne sono ormai convinti.

Quasi tutti i commentatori, di ogni tendenza politica, concordano nell'osservare che questa sentenza non muterà di molto l'opinione degli italiani su Berlusconi. Scusate, ma vi pare normale? Se, in caso di conferma della condanna, una parte consistente di italiani continuerà a difenderlo e a considerarlo il suo leader, e se gli italiani che lo odiano non daranno comunque credito ad una sentenza di annullamento, e continueranno a ritenerlo colpevole, vuol dire che la giustizia nel nostro paese è del tutto screditata, che gli uni e gli altri in cuor loro sanno benissimo che si tratta di una giustizia politica. In nessuna democrazia, d'altra parte, un uomo politico sarebbe potuto sopravvivere politicamente non dico a una condanna, ma persino a una sola inchiesta di quelle subite da Berlusconi. A meno che.... A meno che non fosse chiaro all'opinione pubblica che il personaggio in questione è in realtà oggetto di una persecuzione. A meno di non credere che a milioni gli italiani, e di diverse generazioni, siano o totalmente rincretiniti o delinquenti, occorre cercare un'altra spiegazione.

Il guaio è che prima o poi Berlusconi passa, questa magistratura invece ce la teniamo. Gli italiani sono in qualche misura autorizzati ad essere assuefatti alla giustizia politica, al barbarismo mediatico, e alla guerra civile permanente. Sono giustificati se si preoccupano della terribile crisi che lo Stato ha interamente scaricato sulle loro spalle, ma dalla classe politica, almeno di centrodestra e liberale, è lecito aspettarsi una maggiore consapevolezza.

E invece i più "responsabili" del Pd sotto sotto si augurano l'assoluzione di Berlusconi, o almeno il rinvio, solo perché così il governo delle "larghe intese" può andare avanti e continuare ad occuparsi "responsabilmente" della crisi, e allo stesso tempo ammoniscono il Pdl: tenete separata la vicenda giudiziaria del vostro leader dalla sorte dell'esecutivo; Renzi continua a ripetere come un disco rotto che Berlusconi si augura di mandarlo in pensione alle elezioni, non in galera; e persino i berlusconiani, sia le "colombe" che i "falchi", mostrano di essere disposti a convivere, in fondo, con una magistratura che amministra in modo lento e inefficiente la giustizia, ma che mostra una celerità e una meticolosità stupefacenti quando si tratta di cacciare dalle istituzioni e dalla vita politica del paese il leader in cui si riconosce almeno un terzo degli italiani.

Le prime, le cosiddette "colombe", illudendosi di poter conservare oggi le proprie poltrone sotto l'ombrello del governo di "larghe intese" voluto da Napolitano, e un domani di poter proseguire le loro mediocri carriere all'insegna di un neo-centrismo marginale, del tutto inoffensivo, anzi funzionale allo status quo. Ma anche i secondi, i cosiddetti "falchi" del Pdl, che strepitano ostentando la certezza che la leadership di Berlusconi uscirà persino più forte in caso di condanna definitiva, mostrano di essere solo interessati ad ereditare una ridotta, una specie di Msi berlusconiano.

Nessuno, insomma, né a sinistra né a destra, sembra preoccuparsi più di tanto di ciò che significa per il paese, non solo per Berlusconi, un leader politico perseguitato per via giudiziaria dalla sua discesa in campo fino alla sua estromissione dalle istituzioni. E ripeto: non si tratta di Berlusconi, il cui ciclo politico comunque si sta esaurendo. Non è eterno, d'accordo, ma il modo in cui viene fatto fuori è la questione politica all'ordine del giorno oggi, non la sua successione. Alcuni liberali si illudono, purtroppo, che una volta superata l'anomalia Berlusconi, una volta fatto fuori, tutto tornerà normale. Anzi, spezzato questo incantesimo, questo perverso equilibrio per cui berlusconiani e antiberlusconiani si sorreggono a vicenda, si potrà persino riformare la giustizia. Nient'affatto, scordatevelo: si tratta di una magistratura che rivendica il potere, e se ne è ormai appropriata, di "selezionare" la classe politica. Che da ordine, come prevede la Costituzione, si è trasformata in un vero e proprio "contro-potere", del tutto fuori controllo, ab solutus, dunque tecnicamente antidemocratico e golpista.

Si tratta di chi verrà dopo Berlusconi: chi avrà a disposizione le risorse, economiche e di consenso popolare, e vorrà rischiarle, per resistere un solo mese agli assalti del "partito delle procure"? I futuri leader di centrodestra - in modo direttamente proporzionale al loro consenso, e alla loro determinazione nel voler cambiare il paese - subiranno lo stesso trattamento. E quelli di centrosinistra saranno tenuti per le palle dalla casta dei giudici e dall'estremismo forcaiolo. La nostra rischia di diventare rapidamente, ancor più di quanto non lo sia stata dal 1992 ad oggi, una democrazia sotto tutela da parte di poteri non espressione della volontà popolare, come in Iran, dove spetta al Consiglio dei Guardiani l'ultima parola.