Pagine

Wednesday, July 31, 2013

L'atto di accusa di De Gregori alla sinistra come l'abbiamo conosciuta

Sono numerosi i passaggi dell'intervista a De Gregori oggi sul Corriere che andrebbero scolpiti sul portone di ogni sede del Pd e tatuati sulla fronte di ogni dirigente e militante. Vale quindi la pena riportarne alcuni, però quel «tassatemi quanto volete, ma non pretendete di rappresentarmi», proprio all'inizio dell'intervista, può permetterselo solo qualcuno che vive di rendita.

Per il resto, quello di De Gregori non è un atto di accusa solo alla sinistra, al Pd, ai suoi dirigenti e a qualche "tipo" umano della "base", ma anche (forse soprattutto) al partito "Repubblica-Espresso", al partito delle procure, ai "Santorini" e ai "Travaglini".

La sinistra
«È un arco cangiante che va dall'idolatria per le piste ciclabili a un sindacalismo vecchio stampo, novecentesco, a tratti incompatibile con la modernità. Che agita in continuazione i feticci del "politicamente corretto", una moda americana di trent'anni fa, e della "Costituzione più bella del mondo". Che si commuove per lo slow food e poi magari, "en passant", strizza l'occhio ai No Tav per provare a fare scouting con i grillini».

«Sono stufo del fatto che, appena si cerca un accordo su una riforma, subito da sinistra si gridi all'"inciucio", al tradimento. Basta con queste sciocchezze. Basta con l'ansia di non avere nemici a sinistra».

«Viene il momento in cui la realtà cambia le cose, bisogna distaccarsi da alcune vecchie certezze, lasciare la ciambella di salvataggio ed essere liberi di nuotare, non abbandonando per questo la tua terra d'origine. Non ce la faccio più a sentir recitare la solita solfa "Dì qualcosa di sinistra". Era la bellissima battuta di un vecchio film, non può diventare l'unica bandiera delle anime belle di oggi. Proviamo piuttosto a dire qualcosa di sensato, di importante, di nuovo. Magari scopriremo che è anche di sinistra».
L'antiberlusconismo
«Ho seguito con crescente fastidio e disinteresse l'accanimento sulla sua vita privata. Forse potevamo farci qualche domanda in meno su Noemi e qualcuna di più sull'Ilva di Taranto? Pensare di eliminare Berlusconi per via giudiziaria credo sia stato il più grande errore di questa sinistra. Meglio sarebbe stato elaborare un progetto credibile di riforma della società e competere con lui su temi concreti, invece di gingillarsi a chiamarlo Caimano e coltivare l'ossessione di vederlo in galera. Non condivido nulla dell'etica e dell'estetica berlusconiana, ma mi irrita sentir parlare di "regime berlusconiano": è una falsa rappresentazione, oltre che una mancanza di rispetto per gli oppositori di Castro o di Putin che stanno in carcere».

«Sono stato berlusconiano solo per trenta secondi in vita mia: quando ho visto i sorrisi di scherno di Merkel e Sarkozy».
Grillo
«Questa idea della Rete come palingenesi e istituzione iperdemocratica mi ricorda i romanzi di Urania».
I due Papi
«Papa Francesco, la più bella notizia degli ultimi anni. Ma mi piaceva anche Ratzinger. Intellettuale di altissimo livello, all'apparenza nemico del mondo moderno e in realtà avanzatissimo, grande teologo e per questo forse distante dalla gente. Magari i fedeli in piazza San Pietro non lo capivano. Ma il suo discorso di Ratisbona fu un discorso importante».
Viva l'Italia
«"L'Italia che resiste", ad esempio; e solo le anime semplici potevano pensare che c'entrasse qualcosa con lo slogan giustizialista "resistere resistere resistere"».

Tuesday, July 30, 2013

La piccola mistificazione del Sole sull'Imu

Anche su Notapolitica e L'Opinione

I dati riprodotti oggi dal Sole24Ore, che hanno indotto il giornale di Confindustria a sostenere che l'abolizione dell'Imu sulla prima casa (tranne gli immobili di lusso) premierebbe i redditi più alti ("I numeri del Tesoro. Con lo stop all'Imu premiati i redditi alti", il titolo) dimostrano in realtà il contrario, e cioè «l'impatto fortemente regressivo» dell'imposta, non della sua abolizione. Se chi dichiara al fisco più di 120 mila euro l'anno versa, in media, 629 euro, cioè lo 0,5% o anche meno del suo reddito, e invece chi dichiara fino a 10 mila euro l'anno paga, in media, 187 euro, cioè quasi il 2% o anche più del suo reddito, non può esserci alcun dubbio su quale sia la fascia di contribuenti più penalizzata dall'Imu sulla prima casa.

Pesano di più 187 euro su un reddito fino a 10 mila euro (anche perché fino vuol dire che nella media dei 187 rientrano anche redditi inferiori, per esempio di soli 7-8 mila euro, rispetto ai quali l'imposta vale molto più del 2%), che 629 euro su un reddito oltre i 120 mila euro (anche perché oltre vuol dire che nella media dei 629 rientrano anche redditi molto superiori, per esempio di 150 mila euro, rispetto ai quali l'imposta vale addirittura meno dello 0,5%).

Ovvio, quindi, che il risparmio derivante dall'esenzione totale della tassa sulla prima casa sarebbe senz'altro maggiore per i redditi più alti in termini assoluti, ma al contrario in termini percentuali premierebbe i redditi più bassi, perché è su quelli che l'imposta pesa, in percentuale, maggiormente.

Detto questo, l'errore metodologico sta proprio nel voler misurare l'equità di un'imposta di natura patrimoniale con la distribuzione per classi di reddito. E' come mischiare mele con pere. Se la logica è colpire la rendita, dal momento che non siamo più nell'800 non ci si può meravigliare che a rimetterci siano anche molti contribuenti a reddito basso.

Basti considerare che mentre pensionati, operai o semplici impiegati proprietari della casa in cui vivono in città medio-grandi hanno dovuto pagare anche un migliaio di euro di Imu con redditi certamente bassi o medi, chi guadagna oltre 120 mila euro ma abita in piccoli centri o in zone isolate probabilmente se l'è cavata con 2-300 euro. Il fatto è che un'imposta patrimoniale sulla casa, che si calcola sulla rendita immobiliare, non potrà mai essere equa rispetto al reddito.

Thursday, July 04, 2013

Letta brinda ma non ci serve più spesa

Anche su L'Opinione e Notapolitica

Altro che brindisi! Sarà un successo forse per il governo Letta, e per l'ex premier Monti, ma per l'Italia è una beffa, l'ennesima occasione sprecata. Cerco di spiegare perché. L'apertura del presidente della Commissione europea Barroso ad una maggiore flessibilità di bilancio (ma sempre al di sotto del tetto del 3%) per quei paesi usciti dalla procedura di deficit eccessivo sembra una buona notizia, ma al di là delle apparenze è la conferma del dramma continentale che stiamo vivendo. Un'Europa che impone ai paesi in crisi un'austerità cieca, perché incapace di distinguere, ferma restando la necessità di consolidamento dei conti pubblici, tra diverse politiche economiche, tra i diversi percorsi al risanamento, più o meno recessivi, che esistono e che vengono indicati anche dal presidente della Bce Draghi.

In questo senso, le parole di Barroso sono sintomatiche di un'Europa che non sa immaginare politiche per la crescita se non all'interno della cornice della spesa pubblica: più spesa, più crescita, è l'unica equazione che sembrano conoscere non solo a Roma, ma anche a Bruxelles. Ma leggiamole attentamente le dichiarazioni di Barroso: «Quando la Commissione valuterà i bilanci nazionali per il 2014 e i risultati di bilancio del 2013, deciderà caso per caso se permettere, sempre nel pieno rispetto del Patto di stabilità, deviazioni temporanee del deficit strutturale dal suo percorso verso gli obiettivi di medio termine fissati nelle raccomandazioni specifiche per Paese». Tali "deviazioni", cioè la maggiore flessibilità di bilancio concessa, ha precisato Barroso, «dovranno essere collegate alla spesa nazionale su progetti cofinanziati dall'Ue nell'ambito della politica di coesione, delle reti transeuropee Ten o di Connecting Europe, con un effetto sul bilancio positivo, diretto, verificabile e di lungo termine».

Innanzitutto, nulla di nuovo: sapevamo già che come premio per l'uscita dalla procedura di deficit eccessivo ci sarebbe stato concesso di discostarci dagli obiettivi di medio termine per il pareggio di bilancio, ma sempre restando al di sotto del tetto del 3% imposto dal Patto di stabilità. Il che in termini concreti per noi significa - se le previsioni del Pil e del fabbisogno pubblico saranno rispettate, e se il mercato dei nostri titoli di Stato non subirà scossoni - che avremo nel 2014, tra il deficit previsto al 2,4% e il tetto del 3%, comunque da rispettare, un margine di manovra di circa lo 0,5% del Pil, ossia 7-8 miliardi.

Dove sta la beffa, dunque? Ci viene sì concesso un margine di manovra, ma ci viene anche detto come dobbiamo utilizzarlo: non per la riduzione delle tasse di cui la nostra economia ha disperato bisogno, ma per fantomatici «investimenti produttivi». E il principale criterio per attribuirgli o meno questa patente di "produttività" sarà l'essere "agganciati" a progetti cofinanziati dall'Ue, nell'ambito della politica di coesione e delle reti. Ma se gli investimenti pubblici di cui si parla fossero davvero produttivi, in quest'ultimo decennio di programmi europei il nostro Pil sarebbe schizzato alle stelle.

L'Italia ha certamente bisogno di investimenti, ma non dei cosiddetti «investimenti pubblici produttivi», che alla fin dei conti non si sono mai rivelati tali. Sia per la lentezza nell'avvio di questi progetti, e per le note difficoltà dell'Italia a spendere i fondi europei, sia perché gli "investimenti" finiscono il più delle volte ai soliti attori economici, che o sono inefficienti o non ne avrebbero bisogno. Per richiamare investimenti privati, e perché siano davvero produttivi, lo Stato deve alleggerire il suo peso sull'economia, deve abbassare le sue pretese fiscali e burocratiche. Non ci sono scorciatoie.

A parte il fatto che stiamo festeggiando, ma quel margine dobbiamo ancora conquistarcelo (ed è a rischio se la stima del Pil dovesse peggiorare ancora), oggi il premier Letta brinda, insieme ai ministri del Pdl, perché l'Ue ci concede di spendere di più quando l'Italia sta morendo proprio di questo, di troppa spesa, quindi dovrebbe esigere dall'Europa di poter utilizzare qualsiasi flessibilità di bilancio dovesse manifestarsi per ridurre la pressione fiscale, per esempio il costo del lavoro. E il Pdl non sembra accorgersi che proprio alle direttive di Barroso farà ricorso Letta per spiegare che i ristrettissimi margini che ci saranno nel 2014 non potranno essere usati per tagliare le tasse.

Wednesday, July 03, 2013

L'euroassistenzialismo non ci salverà

Anche su L'Opinione e Notapolitica

Ha ragione il senatore Mario Monti quando ricorda al premier Letta che con i «piccoli passi» non si va avanti. E lui può parlare per esperienza diretta... I passi sono piccoli, impercettibili, ma il governo pretende che ora "altri" facciano la propria parte. E' questo il messaggio recapitato al mondo delle imprese. Sia da parte del premier in persona, quando al termine del vertice europeo della scorsa settimana, dopo aver ottenuto dall'Ue 1 miliardo di fondi per il lavoro in due anni, ha fin troppo euforicamente detto che «ora le imprese non hanno più alibi» (nemmeno quello del total tax rate al 70%, caso unico al mondo?), sia da parte del ministro del lavoro Giovannini, che al convegno di Confindustria ha spiegato che non può essere solo il governo a creare «opportunità» per i giovani, serve «l'impegno dell'intero paese, comprese le imprese». Analisi corretta a metà. E' senz'altro vero che il governo non può "creare" posti di lavoro (anche se poi, dalle misure varate si direbbe che nell'esecutivo sia piuttosto diffusa la convinzione opposta), ma riesce benissimo ad ostacolarne la creazione. Dire alle imprese che ora sta a loro impegnarsi è come incoraggiare un prigioniero a liberarsi dopo avergli dato un bicchiere d'acqua... ma è ancora incatenato! Puro sadismo.

Non è «il peso dei 2,2 milioni di "neet" (giovani che non lavorano, non studiano né si stanno formando, ndr)» che «ci porterà a fondo». Il ministro Giovannini confonde uno dei sintomi della crisi con la causa: a portarci a fondo è il peso dello Stato. Da ex presidente dell'Istat dovrebbe almeno far bene di conto, eppure come ha calcolato Tito Boeri, dagli sgravi sulle nuove assunzioni si possono ottenere nella migliore delle ipotesi 28.846 posti di lavoro (la cifra che risulta dividendo i 225 milioni l'anno stanziati per 7.800 euro, lo sgravio concesso per 12 mesi), un numero ben lontano dai 100 mila evocati dal ministro.

Ma il punto è che i pochi e temporanei sgravi, così come il miliardo e mezzo messo a disposizione dall'Ue nei prossimi due anni, stanziato senza nemmeno sapere come concretamente verrà speso, possono ben poco se le imprese non vedono una prospettiva di aumento della produzione che le induca ad assumere. «Gli sgravi andranno per lo più alle imprese che avrebbero comunque fatto assunzioni», conclude Boeri.

La realtà è che in queste settimane, riempiendosi la bocca della parola "lavoro", il governo italiano e i governi degli altri paesi europei riuniti a Bruxelles hanno messo in scena un'enorme operazione propagandistica. Per una ripresa vera, che non sia solo uno 0,3-0,4% trainato dall'export, l'Italia ha bisogno di un radicale shock fiscale e di riforme vere del mercato del lavoro. Invece, con i sussidi temporanei, che non hanno mai funzionato, l'Europa conferma la propria essenza: un carrozzone che sa solo spendere soldi, ma non attuare politiche per la crescita.

Il nostro premier ha festeggiato per quel miliardo e mezzo come avrebbe festeggiato un politico meridionale all'ennesimo stanziamento di fondi a pioggia da Roma. Con il vertice Ue di venerdì siamo entrati a pieno titolo nell'era dell'euroassistenzialismo. Entrare nell'Euro avrebbe aiutato l'Italia a diventare "più europea", si diceva e si dice ancora. Sta accadendo il contrario: è l'Europa che si sta "italianizzando". Si sta ripiegando su se stessa, chiusa in un dibattito tra i paesi del sud e la Francia che chiedono aiuti e investimenti, e quelli del nord e la Germania che tengono stretti i cordoni della borsa. Una dinamica che ricorda molto quella italiana sulla "questione meridionale": un nord ricco e competitivo frenato da un Mezzogiorno assistito e depresso.

Piuttosto che accelerare i processi di unione bancaria e unione fiscale, e riconoscere la necessità di riforme strutturali e fiscali volte a far recuperare competitività alle nostre economie appesantite da bilanci pubblici famelici, burocrazie opprimenti e mercati troppo rigidi, e di discutere come implementarle velocemente in tutti i paesi, ecco che il nuovo tema elevato a priorità negli ultimi vertici Ue, al pari del lavoro, è quello dell'evasione fiscale: il problema che sembra angosciare i governanti europei come quelli italiani, senza eccezioni, è come far cassa, dove rastrellare soldi freschi da destinare a ulteriori investimenti dall'alto (la maggior parte dei quali si riveleranno improduttivi) e a nuove forme di assistenzialismo. Come i miliardi appena stanziati a Bruxelles, in modo generico, "per il lavoro". Le stesse cure che lo Stato unitario ha "somministrato" per oltre un secolo al nostro sud, oggi diventano le concessioni di Berlino e degli altri stati membri del nord ai paesi dell'Europa mediterranea.