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Friday, June 28, 2013

Governo di larghi acconti e lunghi rinvii

Anche su L'Opinione e Notapolitica

Con le misure varate per il lavoro e le coperture-beffa del rinvio di 3/6 mesi dell'aumento Iva il governo Letta ha toccato vette di presa per i fondelli forse mai raggiunte prima. Innanzitutto, se si biasimava l'ultimo governo Berlusconi per la cosiddetta politica degli annunci, bisogna osservare che sia Monti che Letta non sono da meno: ormai a Palazzo Chigi si approvano comunicati, slogan, mentre per i testi si aspettano giorni, tanto che viene da chiedersi chi effettivamente abbia l'ultima parola su di essi.

Dal governo delle "larghe intese" al governo dei "larghi acconti" e dei "lunghi rinvii". E' possibile che le scelte compiute sull'Iva siano ancor più dannose per la nostra economia dell'aumento al 22% che era previsto dal primo luglio. Non essendo del tutto scongiurato, infatti, il rinvio in sé non rappresenta quel segnale di inversione di tendenza nella politica fiscale che può mutare, aumentandola, la propensione al consumo e agli investimenti. Il segnale, semmai, rischia di essere di segno opposto.

La decisione, poi, di "coprire" il rinvio aumentando in modo surreale gli acconti Irpef/Ires/Irap costringerà tutti i soggetti interessati - imprese, lavoratori autonomi, possessori di conti corrente - ad accantonare per la scadenza di novembre ulteriori 2,6 miliardi di euro, calcola la Cgia di Mestre, da anticipare all'erario. Il che vuol dire meno liquidità proprio per quei settori che più soffrono per la "stretta del credito" da parte delle banche.

Per non parlare dell'assurdità logica di acconti che ormai hanno raggiunto il 100% (Irpef), o l'hanno addirittura superato (Ires e Irap al 101% e ritenute su interessi di conti correnti e depositi al 110%). Ora, immaginate la situazione: state acquistando un abito o una lavatrice da 600 euro, e il negoziante vi chiede un acconto di 660, assicurandovi che vi restituirà la differenza dopo un anno. Quale sarebbe la vostra reazione?

Il premier Letta ci tiene a precisare che non si tratta di nuove tasse, ma solo di anticipazioni rispetto al saldo calcolato sulle dichiarazioni di giugno 2014 (ma gli eventuali rimborsi arriveranno solo tra settembre e novembre). Una beffa doppia per quelle imprese che ancora aspettano decine di miliardi di pagamenti da parte delle amministrazioni pubbliche, e che ora si vedono costrette a concedere ulteriore credito al loro debitore. Un "acconto", infatti, superiore al saldo, quindi di fatto un acconto a 2 anni, non è altro che un "prestito forzoso" allo Stato, a cui bisognerebbe applicare i relativi interessi.

Ma non solo acconti maggiorati. Anche una super-tassa di consumo, pari al 58,5% del prezzo di vendita, sulle sigarette elettroniche, di fatto equiparate a quelle di tabacco, e la possibilità di aumento dell'addizionale Irpef di regioni e province a Statuto autonomo. Dunque, in totale continuità con le manovre dei passati governi, il 78% della copertura, calcola il Sole24Ore, arriva da nuove tasse.

Resta bizzarro, ma diremmo politicamente ed economicamente criminale, che su oltre 800 miliardi di euro di spesa pubblica prevista nel 2013 il ministro dell'economia non riesca a trovare 4 miliardi per cancellare l'aumento dell'Iva. Prima Monti, ora Saccomanni e Giovannini, sono soprattutto i tecnici a deludere. Resterà un mistero, infatti, perché da premier e da ministri fanno l'esatto contrario delle cose, quasi sempre giuste, che suggerivano alla politica dal loro ruolo di "tecnici", alla Banca d'Italia o all'Istat.

Anche il pacchetto per il lavoro è risibile. Con l'economia in caduta, nessuna politica in atto per risollevare la domanda, e nessuna riforma in vista per rendere flessibile anche in uscita il mercato del lavoro, quale impresa si accollerebbe "a vita", cioè assumendolo con contratto a tempo indeterminato, un giovane tra i 18 e i 29 anni, quindi si presuppone privo di esperienze lavorative, per soli 18 mesi di sconti contributivi, senza la prospettiva di una diminuzione strutturale del costo del lavoro? Questi incentivi saranno d'aiuto per lo più agli imprenditori che decideranno di assumere i loro figli ventenni. Se non altro parte dei fondi potrebbero restare inutilizzati.

Le ultime stime macroeconomiche di Confindustria delineano un quadro di tale gravità della crisi in atto che le misure varate dal Governo, e il suo approccio complessivo, appaiono nella migliore delle ipotesi inadeguate. Un ulteriore calo del Pil dell'1,9% quest'anno, dopo quello già drammatico del 2012 (-2,4%), non rappresenta purtroppo nemmeno un rallentamento della caduta della nostra economia, che dovrebbe cominciare a riprendersi - ci viene assicurato, come ogni anno - nel IV trimestre. Peccato che anche nell'ultimo trimestre del 2012 avremmo dovuto riprenderci. Possibile che la ripresa arrivi sempre nel IV trimestre? Peccato non sapere di quale anno!

Disoccupazione dal 12,2% di quest'anno al 12,6% del prossimo, con 817 mila occupati in meno rispetto al 2007. E, ovviamente, una pressione fiscale effettiva insostenibile, il 53,6%, record nell'intera storia delle democrazie occidentali. Questi dati confermano che la via al risanamento attraverso l'aumento delle tasse anziché i tagli alla spesa, intrapresa dal governo Monti e non ancora invertita dal governo Letta, non solo deprime il potenziale di crescita, ma finisce per compromettere gli stessi obiettivi di bilancio che si prefiggeva. E mentre è totale il nostro immobilismo sul fronte della spesa, nel Regno Unito il governo Cameron già programma i tagli alla spesa per il 2015-2016. Altro che prendersela con i "paradisi fiscali", la politica dovrebbe preoccuparsi di combattere l'"inferno fiscale" in cui siamo.

Wednesday, June 26, 2013

La vera anomalia

I processi politici non iniziano e non finiranno con Berlusconi

Anche su L'Opinione e Notapolitica

Tv e giornali sono pieni di commenti sull'assurdità, o quanto meno sull'eccessiva severità, della condanna inflitta dal Tribunale di Milano a Berlusconi per il caso Ruby, e di sottili analisi politiche sull'impatto che potrà avere la sentenza sulla vita del governo Letta, su quelle "larghe intese" favorite dalla promessa di un processo di "pacificazione" tra Pd e Pdl, proprio a partire dalla figura del Cav. Certo, non può non balzare agli occhi l'estrema debolezza degli elementi probatori a sostegno delle tesi dell'accusa, tanto che c'è del grottesco nel fatto che i giudici per coerenza con la loro sentenza di condanna abbiano dovuto accusare di falsa testimonianza decine e decine di testimoni, compreso il commissario di polizia Giorgia Iafrate, che ha sempre negato di aver subito pressioni per il rilascio di Ruby da parte dell'ex premier. Così come è certo che non tanto dal campo berlusconiano, quanto piuttosto da sinistra arriveranno i maggiori pericoli per il governo Letta: come si può governare insieme al partito di Berlusconi dopo questa sentenza che lo addita come criminale? Chi per ambizioni personali (vedi Renzi), chi per puro antiberlusconismo e giustizialismo, in molti si impegneranno a delegittimare, a provare l'impraticabilità politica delle "larghe intese".

Ma non si vuole qui entrare nel merito del processo Ruby o degli effetti politici della sentenza. Ciò su cui vogliamo concentrarci è la pericolosa illusione in cui molti liberali, o troppo ingenui o in cattiva fede, rischiano di indugiare. Ci si illude - molti in buona fede anche nell'area di centrodestra - che il protagonismo politico di certe procure sia dettato dall'"anomalia" Berlusconi. A torto o a ragione, ce l'hanno con lui. Una volta fatto fuori, tutto tornerà normale. Anzi, una volta spezzato questo incantesimo, rotto questo perverso equilibrio per cui berlusconiani e antiberlusconiani si sorreggono a vicenda, si potrà persino riformare la giustizia.

La realtà purtroppo è molto diversa: Berlusconi è destinato a passare (prima o poi), questa magistratura invece ce la teniamo. Proprio ora che sta riuscendo, dopo vent'anni di accanimento mediatico-giudiziario, a mettere all'angolo Berlusconi, aprendo per lui addirittura la prospettiva non più solo teorica del carcere, la magistratura è più che mai "coperta" e intoccabile politicamente. Il punto è che accrescendosi il suo ruolo politico, si accresce fatalmente anche il suo potere di interdizione rispetto a qualsiasi tentativo di riforma organica della giustizia.

Nonostante non abbia mantenuto le promesse di una riforma generale, e in senso liberale, della giustizia (non vuol essere questa la sede per soppesare colpe e attenuanti), Berlusconi ha sempre rappresentato un vero e proprio argine - quasi fisico - allo strapotere e al ricatto della magistratura sulla politica. All'orizzonte del dopo Berlusconi non si scorge l'eroe che realizzerà i "sogni" che il Cav. ha mancato di realizzare, né la normalizzazione dei rapporti tra politica e giustizia che molti auspicano.

Fuori causa Berlusconi, nessun altro leader ad oggi sembra disporre delle risorse, economiche e di consenso popolare, per resistere un solo mese agli assalti di qualche magistrato politicizzato o solo ansioso di farsi pubblicità. I futuri leader di centrodestra - in modo direttamente proporzionale alla loro determinazione nel voler riformare la giustizia - continueranno ad essere molestati giudiziariamente. E quelli di centrosinistra saranno tenuti per le palle dalla casta dei giudici e dall'estremismo forcaiolo.

Si scoprirà allora che la vera anomalia italiana è il protagonismo politico di certe procure, una magistratura che da ordine autonomo e indipendente come prevede la Costituzione, si è trasformata in un vero e proprio "contro-potere", del tutto fuori controllo, ab solutus, dunque tecnicamente antidemocratico e golpista, che impedirà qualsiasi riforma lo riguardi, rendendo impossibile governare a qualsiasi leader di centrodestra e tenendo in ostaggio il centrosinistra. Un'anomalia che non inizia con Berlusconi e non finirà con lui. Altri leader del campo "moderato", o semplicemente non comunisti, prima di lui, come Craxi e Andreotti, sono stati sottoposti ad una persecuzione mediatico-giudiziaria simile.

Con sentenze come quella di lunedì sul caso Ruby, le procure ipotecano la Terza Repubblica, una Repubblica delle Procure, in cui nessun Parlamento potrà permettersi neanche di discutere una riforma della giustizia sgradita alla magistratura; in cui qualsiasi governo - non credo solo di centrodestra, ma soprattutto di centrodestra - sarà letteralmente sotto il loro ricatto. La nostra rischia di diventare rapidamente, ancor più di quanto non lo sia stata dal 1992 ad oggi, una democrazia sotto tutela da parte di poteri non espressione della volontà popolare. Persino sui singoli parlamentari peserà il pre-giudizio della magistratura, basterà un avviso di garanzia o una richiesta di arresto preventivo per estrometterli dalla vita politica, quasi come in Iran, dove spetta al Consiglio dei Guardiani l'ultima parola sulle candidature.

Wednesday, June 19, 2013

Sforare il tetto, ma per tagliare tasse e spesa

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Ma di che stiamo parlando? Al di là del merito della questione - si può essere a favore o contro lo sforamento del tetto del 3% nel rapporto deficit/Pil imposto dall'Ue - è esattamente questa la richiesta italiana a Bruxelles. Non è una provocazione di Berlusconi: il partito dello sforamento del 3% è non solo bipartisan, ma trasversale nella società italiana. Come lo è, purtroppo, il partito della spesa.

Quando si chiede all'Europa la "golden rule", cioè lo scorporo dal calcolo del deficit dei cosidddetti «investimenti pubblici produttivi» - ed è una richiesta che sembra mettere d'accordo proprio tutti: partiti, organizzazioni imprenditoriali e sindacali, economisti da salotto tv, i giornaloni voce dell'establishment così come i fogli d'opinione di centrodestra e di sinistra - non si sta forse chiedendo il permesso di sforare il 3%?

Il ministro per gli affari europei Moavero ha spiegato alcuni giorni fa alle commissioni parlamentari competenti cosa si impegnerà ad ottenere il governo Letta dalla Commissione Ue e dal Consiglio europeo del 27 e 28 giugno: non solo di poter utilizzare il margine che si aprirà nel 2014 tra il rapporto deficit/Pil previsto (2,4%) e il tetto del 3% (quindi uno 0,5%), ma anche di dedurre dal deficit i 12 miliardi di cofinanziamenti nazionali ai 31 circa dei fondi strutturali europei ancora da spendere entro il 2015. Di sforare il tetto del 3%, insomma, come ha suggerito Berlusconi. Anzi, se Letta è sveglio i toni dell'ex premier potrebbero fargli gioco con i partner europei: "Vedete? Se non mi venite incontro, il malcontento nei confronti dell'Europa potrebbe crescere e l'alternativa al mio governo sarebbe meno affidabile".

Tanto più che il suggerimento dell'ex premier sembra riprendere quello che non più di un mese fa, il 17 maggio scorso, compariva sulla prima pagina del Corriere della Sera a firma Alesina-Giavazzi: «Quel 3% non sia un tabù». Per i due economisti non vale la pena impiccarsi alla soglia del 3%, perché dal momento che quest'anno saremo sotto d'un soffio, non ci saranno comunque margini per ridurre le imposte. La chiusura della procedura di infrazione da parte della Commissione Ue avrà un effetto quasi solo simbolico: «A parte una questione di orgoglio, non ne guadagneremmo sostanzialmente nulla. Non si riduce la disoccupazione con l'orgoglio».

Quindi suggeriscono al ministro Saccomanni di «puntare alto, non perdersi con i decimali». In pratica, di dire a Bruxelles: noi sforiamo, ma per attuare un piano, da voi verificabile, di tagli alle tasse (50 miliardi: sufficienti per abolire l'Imu sulla prima casa, evitare l'aumento Iva e a cancellare l'Irap) e alla spesa (un punto di Pil all'anno per tre anni). Certo, la Commissione non chiuderebbe la procedura di sorveglianza, dovrebbe approvare il piano e verificarne l'effettiva attuazione, ma sarebbe il "nostro" piano e, soprattutto, ben più di una speranza di tornare a crescere. «Di questo Saccomanni dovrebbe discutere a Bruxelles, non della seconda cifra decimale del rapporto deficit/Pil».

Dunque, sforare il tetto del 3% non è di per sé un peccato mortale né un'eresia. Dipende: per fare cosa? Per una pioggerellina di investimenti pubblici che gli euro-burocrati e i politici italiani ritengono «produttivi» e che hanno già dimostrato in passato di non funzionare, come grandi opere difficili da avviare o una miriade di contributi e bandi per progetti inutili? E' proprio questo, purtroppo, che il governo Letta si prepara a chiedere e l'Europa, forse, a concedere. No, grazie, abbiamo dato. Sforare, invece, ha senso solo per tagliare le tasse a cittadini e imprese.

Friday, June 14, 2013

"Non rinvenibile" è solo la volontà politica

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Dev'esserci un virus che gira ai piani alti di Palazzo Chigi e via XX Settembre. Una specie di narcotizzante. Chiunque entri in quelle stanze, o è colto da uno stato di «letargia» come il premier Letta (copyright Financial Times), o dismette (è invece il caso di Saccomanni) i panni dell'economista prodigo di analisi e soluzioni per vestire quelli del mero contabile, restìo ad assumersi la responsabilità di un indirizzo politico e timoroso di toccare lo status quo, fino a farsene persino custode. E' stato molto deludente il ministro dell'economia non solo e non tanto nel merito delle sue risposte su Iva e Imu, durante il question time al Senato, ma innanzitutto nell'approccio.

Da economista, da ministro, avrebbe potuto spiegare che scongiurare l'aumento dell'Iva e/o eliminare l'Imu sulla prima casa non sono priorità per la nostra economia, o che i tagli alla spesa necessari a coprirli sarebbero ancora più dannosi. Sostenendo, invece, che quelle misure costano 8 miliardi e che non ci sono risorse per finanziarle ha dimostrato un approccio meramente da contabile, che non è consentito a un ministro, il cui compito è trovarle quelle risorse, per realizzare gli impegni annunciati e ufficializzati, e non limitarsi a constatare l'esistente. Anche perché l'economista, a differenza del contabile, dovrebbe sapere che la domanda di beni non è assolutamente rigida: i 4 miliardi derivanti dall'aumento dell'Iva al 22% e già messi a bilancio potrebbero non arrivare comunque, perché i cittadini potrebbero decidere, come conseguenza dell'aumento, di comprimere ulteriormente i loro consumi, e potrebbero aumentare le imprese, gli esercizi commerciali, costretti a chiudere, con conseguente perdita di gettito per lo Stato su altri fronti.

Si dirà che il consumatore non può percepire un aumento dell'Iva dell'1% sul singolo bene che intende acquistare. Pur senza considerare che il clima di sfiducia alimentato da un nuovo aumento di tasse può scoraggiarlo dall'acquisto di beni ben oltre l'effettivo rincaro, la sua capacità di spesa diminuisce comunque (si calcola tra i 50 e i 200 euro in meno l'anno a famiglia), a prescindere dalla sua percezione: il che significa, a fine anno, una minor quantità di beni acquistati. E l'aumento dell'Iva incentiva o disincentiva l'evasione fiscale?

Ma intendiamoci, l'approccio contabile non è una colpa esclusiva di Saccomanni. E' ormai l'atteggiamento prevalente in Europa, dove non si ragiona più sugli effetti espansivi o recessivi delle misure di politica fiscale. Ci si accontenta che i conti tornino da un punto di vista esclusivamente ragionieristico, anno per anno. E pazienza se proprio averli fatti tornare sulla carta sarà all'origine dello sforamento nell'anno successivo.

Ma c'è chi non si rassegna a sentirsi dire che non ci sono soldi, che i conti sono questi e non possiamo farci niente. Non è così, è una pericolosa mistificazione a cui l'opinione pubblica rischia di arrendersi.
«L'Imu, se dovesse essere eliminata definitivamente, comporterebbe un onere di finanziamento di 4 miliardi all'anno che, se si aggiungono ai 4 miliardi per l'Iva, fanno ipotizzare la necessità di interventi di tipo compensativo di estrema severità, che al momento attuale non sono rinvenibili».
Queste le parole esatte del ministro Saccomanni. La risorse per scongiurare l'aumento dell'Iva «non sono rinvenibili»? O piuttosto, a non essere «rinvenibile» è la volontà politica di cominciare davvero, non per finta, a tagliare la spesa pubblica?

Con una spesa pubblica che è all'incirca la metà del Pil, cioè del totale della ricchezza prodotta nel nostro paese, con un patrimonio pubblico (solo l'immobiliare vale 350 miliardi e più di euro, per non parlare di partecipazioni e municipalizzate) che si può decidere di dismettere (riducendo il nostro stock di debito e quindi risparmiando sugli interessi), con 250 miliardi di tax expenditures e decine di miliardi di sussidi - platealmente improduttivi - alle imprese, con sprechi e inefficienze della pubblica amministrazione sotto gli occhi di tutti, è inaccettabile che ci si dica che l'aumento dell'Iva è «inevitabile». Si tratta di scelte, di priorità. Evidentemente, rispetto a scongiurarlo il governo ritiene prioritario mantenere ogni singolo centesimo degli oltre 700 miliardi di spesa pubblica. Se vuol farci credere che sia impraticabile una manovra finanziaria sull'1% del bilancio (8 miliardi servono per evitare l'aumento Iva ed eliminare l'Imu sulla prima casa), allora è inutile averlo e pagarlo un governo. Non ci si può rassegnare a constatare che i "soldi non ci sono". I soldi ci sono, e tanti: gli italiani versano una quantità enorme di tasse, si tratta di decidere come spenderli.

Il premier Letta si riempie la bocca di «lavoro». Ma è la crescita che crea lavoro, non il contrario. La defiscalizzazione e la decontribuzione ipotizzate per le nuove assunzioni di giovani è una buona cosa, ma rischia di funzionare poco (soprattutto se il budget sarà, come sembra, di un solo miliardo), perché se non c'è domanda di produzione di beni e servizi, comunque le aziende non assumono. Lo ha spiegato molto bene al Sole24Ore l'ad e presidente di Prada, Patrizio Bertelli:
«Le aziende assumono se hanno bisogno di aumentare la produzione, ma se c'è crisi dei consumi e nessuno, in Italia, vende più alcunché, come fanno ad assumere? Non parlo di Prada, noi andiamo benissimo (...) Ma tutte le altre imprese, piccole e medie, che in Italia sono la stragrande maggioranza e che hanno fatturati in forte calo, come fanno ad assumere?».
Il problema è la mancanza di potere d'acquisto degli italiani, legata ai salari effettivi erosi dalle pretese fiscali dello Stato:
«Non esiste altro paese in Europa e forse al mondo con una differenza così alta tra quello che un lavoratore costa a un'azienda e quello che il lavoratore percepisce in busta paga... Lo Stato deve ridurre del 10% il prelievo sullo stipendio lordo».
Il che rilancia come priorità tutti quegli interventi che possono aumentare il potere d'acquisto: il taglio del cuneo fiscale, ovviamente, ma anche dell'Imu e dell'Iva.

Invece, siamo al paradosso che nei confronti internazionali, anziché sforzarci di adeguarci ai livelli inferiori di costo del lavoro, dell'energia, e di tassazione, corriamo ad allinearci solo laddove - e sono delle eccezioni - i livelli sono più alti dei nostri. Così ecco che "finalmente" la tassazione sugli immobili è su un livello paragonabile a quelli europei. Ma non contenti, la Banca d'Italia, in quella che appare come una vera e propria istigazione a tassare, segnala al governo che «in Italia le imposte sulle successioni e le donazioni sono decisamente inferiori al resto dell'Europa». Di adeguarci ai livelli Ocse, o europei, per quanto riguarda il tax rate sulle imprese, le imposte dirette e indirette, o almeno la pressione fiscale complessiva, ovviamente non se ne parla nemmeno. Velocissimi a prendere il peggio, mai capaci di imitare il meglio.

Tuesday, June 11, 2013

Il governo del dire e non dire

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Si sta ormai consolidando a Palazzo Chigi il vezzo di dare un titolo mediaticamente spendibile ai provvedimenti. Patetici tentativi di supplire all'inadeguatezza, all'insufficienza di contenuti dell'atto che si sta varando con un efficace "spin" comunicativo, enfatizzando effetti taumaturgici che non si verificheranno. Così come non è bastato al governo Monti ribattezzare i suoi decreti "salva-Italia" e "cresci-Italia" per salvare davvero, o far crescere l'Italia, non basterà al governo Letta chiamare il suo prossimo provvedimento "decreto del fare" per convincerci che sta facendo qualcosa di epocale, o che sta aiutando gli italiani a riavviare le attività produttive - quelle del "fare", appunto.

Il voto delle amministrative rafforza il governo Letta, è la lettura "politicista" prevalente, perché non punisce il Pd per essersi piegato alle "larghe intese" con il caimano, anzi sembra premiarlo (ma allora bisognerebbe concludere che per lo stesso motivo punisce severamente il Pdl), e perché bastonando il centrodestra ne raffredda i bollenti spiriti, dissuadendo Berlusconi dal mettere a rischio la tenuta dell'esecutivo. In realtà, il governo Letta può sperare di durare solo se fa, se agisce. E' come andare in bicicletta: se sta fermo, cade. Ma per fare cose davvero utili al paese non basta attribuire l'appellativo "del fare" ad un decreto.

Fino ad oggi, è stato piuttosto il governo del dire e non dire. Tranne la proroga degli incentivi fiscali sulle ristrutturazioni, su nessun tema - dall'Imu all'aumento dell'Iva, e in generale sulle tasse, passando per la revisione della spesa e la questione del debito pubblico - ha proferito una parola chiara, definitiva, sulla direzione che intende intraprendere. E la sensazione è che tutto si riduca ad un pressing bipartisan (Pd-Pdl) su Bruxelles per ottenere un po' di caro, vecchio deficit spending, senza mettere davvero mano al dissestato "sistema Italia".

Ben vengano, intendiamoci, misure di liberalizzazione, di semplificazione, di defiscalizzazione delle nuove assunzioni, così come il superamento delle rigidità in ingresso sciaguratamente introdotte dalla riforma Fornero sul lavoro. Ma i dati di questi giorni obbligano la politica, il governo e i partiti che lo sostengono, a scelte ben più coraggiose, ad un vero e proprio cambio di passo e di paradigma, innanzitutto in campo fiscale.

La produzione industriale in calo del 4,6% rispetto ad aprile 2012; il Pil nel I trimestre 2013 di un ulteriore 0,6%, con una perdita già acquisita per quest'anno dell'1,6%, ben peggiore delle stime del governo; il total tax rate sulle nostre imprese al 68,3%, oltre 20 punti sopra la soglia media che grava sulle imprese europee concorrenti; una pressione fiscale effettiva del 53,4% del Pil (paghiamo 38 miliardi di tasse in più rispetto ai partner europei!).

Questi dati impietosi testimoniano che non stiamo affatto uscendo dalla crisi, che la nostra economia è nel bel mezzo di un avvitamento, e quindi che non possiamo permetterci di procedere per rinvii di tre o sei mesi, aspettando di intervenire più a fondo con la legge di stabilità del 2014. Bisognerebbe invertire al più presto questa inerzia con un vero e proprio shock, ma purtroppo i provvedimenti ipotizzati al vertice governo-maggioranza di questa mattina, o che filtrano dalle indiscrezioni di stampa, non solo non sembrano contenere cure e terapie adeguate al male italiano, ma non raggiungono nemmeno lo status di aspirine. Somigliano piuttosto a delle semplici tisane.

Non si tratta di dare 3-400 milioni, uno o due miliardi da una parte, magari togliendoli dall'altra. Serve una grande, coraggiosa, operazione di politica fiscale che alleggerisca il carico su tutti i fronti: Iva, Imu, Irap. Tagliando la spesa, dismettendo asset pubblici, e anche - a questo scopo sì, avrebbe senso - ammorbidendo i vincoli europei.