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Friday, March 29, 2013

Napolitano fai presto, Pd tentato dallo strappo

Se tentenna, il Pd lo pre-pensiona e si vota

Anche su Notapolitica

Al termine del colloquio con Napolitano, Berlusconi si dice disponibile a un governo politico Pd-Pdl-Lega-SC, anche con Bersani premier, e chiude invece a ipotesi di governo tecnico. Ma togliendo dal tavolo la partita per il prossimo inquilino del Colle («sta nella logica delle cose che, se si fa un governo di coalizione insieme, insieme si debba discutere su chi sia il migliore presidente della Repubblica»), toglie al Pd l'alibi delle contropartite improprie e, quindi, inaccettabili. Il cerino torna in mano a Bersani: dopo una così ampia disponibilità da parte del centrodestra, se il governo non si fa la colpa sarà sua. Ma il Pd non può permettersi alcuna forma di corresponsabilità di governo o dialogo istituzionale con Berlusconi (il giaguaro da smacchiare!), pena il rischio di una spaccatura lacerante del partito, sia a livello di gruppo dirigente che di base elettorale. Meglio il voto, e magari perdere, piuttosto.

L'abbiamo scritto fin dall'inizio: la linea che Bersani ha pervicacemente portato avanti in questo mese, chiudendo il Pd in un vicolo cieco, è l'occupazione di tutte le cariche istituzionali (presidenza delle Camere, Palazzo Chigi, Quirinale) con solo il 29% dei voti (sul 72% di quelli espressi) e un distacco dal centrodestra di uno 0,3%. Senza maggioranza al Senato, o la nascita di un governo Pd-Sel tramite il "non impedimento" delle altre forze politiche (offrendo al M5S gli 8 punti del "cambiamento" e a Berlusconi di non essere troppo cattivi nello scegliere il successore di Napolitano), o meglio il voto. Bersani le ha provate tutte, in un vero e proprio braccio di ferro con il capo dello Stato, pur di ottenere l'incarico a formare il governo anche senza avere numeri certi in Parlamento. Perché seppure sfiduciato dal Senato, sarebbe rimasto in carica a Palazzo Chigi durante la successione al Colle e durante la campagna elettorale, mantenendo così la leadership del partito e scaricando le colpe dell'ingovernabilità sull'irresponsabilità altrui.

Per questo avvertivamo che per i suoi obiettivi, quanto più i tempi si fossero allungati, fino ad arrivare sotto la scadenza del settennato, tanto più i margini di Napolitano per "costringere" il Pd ad aprire ad un governo di "larghe intese", o "del presidente" (che però non gli eviterebbe una collaborazione non meno imbarazzante con il Pdl), si sarebbero ristretti. E' quanto sta accadendo. Durante le sue consultazioni, il segretario del Pd non ha mai davvero aperto a tutte le forze politiche, come era stato incaricato a fare da Napolitano. Se scaricare subito Bersani, come suggerivamo, sarebbe stata una mossa al quanto ardita da parte del presidente, dal momento che si trattava pur sempre del leader della coalizione con la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera e quella relativa al Senato, e dunque una chance gli andava riconosciuta, tuttavia avergli concesso un'intera settimana per consultazioni che sarebbero potute durare 1-2 giorni e, di fronte ad un esito «non risolutivo», rimandare ancora una decisione a dopo un altro giro di consultazioni, è stato un segno di debolezza che potrebbe costare caro al tentativo di Napolitano di dare un governo al paese.

Così come Pdl e Grillo hanno esercitato il loro veto rispetto al governo del "non impedimento", Bersani ora può esercitare il suo veto all'ipotesi di un governo di "grande coalizione" o "del presidente" (anche se a "bassa intensità politica"). Se il Pd s'impunta, è evidente che diventerebbe Napolitano l'elemento di blocco del sistema, non potendo egli sciogliere le Camere poiché in scadenza di mandato. E dunque, verrebbe indotto ad accelerare la propria successione, a dimettersi prima. Il Pd potrebbe finalmente eleggersi più o meno da solo il nuovo capo dello Stato (e scatterebbe la vendetta finale contro Berlusconi: Prodi? Zagrebelski?), il quale permetterebbe a Bersani di entrare a Palazzo Chigi anche senza numeri per poi, di fronte ad una eventuale sfiducia del Senato, sciogliere subito le Camere. Ecco il disegno per il quale il Pd è tentato dallo strappo.

Rispetto a tale piano, Napolitano rischia di tentennare troppo e finire fuori tempo massimo. Per il Pd è inaccettabile una coalizione di governo con Berlusconi. Per quest'ultimo, è inaccettabile concedere il proprio "non impedimento" ad un governo Bersani senza nulla in cambio. L'unica chance che ha di riuscire a dare un governo al paese e di evitare il ritorno al voto già a giugno, è di mettere al più presto le forze politiche di fronte al fatto compiuto del giuramento di un governo "del presidente", di scopo, con pochi e precisi punti all'ordine del giorno. In questo modo, Pd e Pdl non potrebbero scaricare l'uno sull'altro la responsabilità del ritorno al voto, perché se lo bocciano sarebbero entrambi gli irresponsabili.

Thursday, March 28, 2013

Game over per Bersani

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Se le telefonate di un famoso spot allungavano la vita, le consultazioni hanno allungato la vita politica di Bersani, che ha cercato di vivere il più a lungo possibile il suo sogno di diventare presidente del Consiglio, pur rifiutando l'unica prospettiva politica che gli avrebbe potuto ragalare una chance. E' riuscito a trascinare il suo testardo tentativo, costellato di passaggi davvero patetici - come le "consultazioni" con Saviano e il Touring Club, o quelle in diretta streaming con il M5S - fino a Pasqua. Consultazioni che sarebbero potute durare due giorni, tanto bastava per verificare l'esistenza di un «sostegno parlamentare certo» alla sua proposta, sono durate per un'intera settimana, a spese del paese, e del suo bisogno urgente di essere governato.

Ma l'incontro in diretta streaming con i grillini rappresenta la sua tomba politica. Un evento del genere in nessuna democrazia ha qualcosa a che fare con la trasparenza, piuttosto con la farsa. Il gioco dei grillini - i quali le riunioni in cui decidono per davvero si guardano bene dal trasmetterle in streaming - era un altro, e dal loro punto di vista un senso l'aveva: costringere il segretario del Pd e il premier pre-incaricato ad una umiliazione pubblica, in diretta internet, trasmettere l'immagine della vecchia politica che veniva sfiduciata, respinta, sbeffeggiata dai duri e puri "cittadini" del M5S.

Come abbia potuto Bersani accettare una simile umiliazione, e come sia possibile che nessuno del Pd sia riuscito ad impedirlo, resta un mistero. Probabilmente il segretario ha accettato convinto di fornire ai suoi elettori sia la prova di aver tentato con tutta la ragionevolezza possibile, sia la prova dell'irresponsabilità dei grillini. Ma il bilancio per lui è negativo, per l'immagine ridicola che ha offerto di sé. Anche perché non ha proposto nulla di concreto, è rimasto come da sua abitudine sul generico. «Qua non siamo mica a Ballarò, questa è roba seria». E' la frase magica, ripetuta un paio di volte con enfasi, che avrebbe dovuto suscitare nei grillini il senso di responsabilità.

Il colloquio si è trasformato ben presto in una umiliante questua, con Bersani pronto ad abbassare via via le sue pretese: prima la fiducia, poi l'astensione (l'uscita dall'aula), senza alcuno scatto d'orgoglio di fronte alla supponenza e alla sconcertante banalità dei personaggi che stava pregando in ginocchio. Condendo il tutto, inoltre, con una frase che un pre-incaricato premier non dovrebbe mai pronunciare pubblicamente: «Solo un insano di mente avrebbe la fregola di governare questo paese ora». Parole che da una diretta internet possono rimbalzare in tutto il mondo, ledendo ulterioremente l'immagine dell'Italia, in questi giorni letteralmente sfregiata dal caso marò. Semplicemente surreale, poi, che sia arrivato a prefigurare ai grillini «un regime parlamentare, al limite anche senza governo». Proprio lui, incaricato dal capo dello Stato di cercare i voti per formare un governo forte, teorizza che si può farne addirittura a meno.

Bersani ha platealmente violato la natura del mandato attribuitogli dal presidente Napolitano. Questi gli aveva chiesto di verificare l'esistenza di «un sostegno parlamentare certo» per un governo con «pieni poteri», mentre in questi giorni il segretario del Pd non ha affatto cercato un accordo politico esplicito con le forze politiche che si dichiaravano disponibili a parlarne, limitandosi invece a cercare un "non impedimento" alla nascita di un governo monocolore Pd-Sel, quindi esplicitamente "di minoranza", l'esatto opposto dell'obiettivo indicato dal capo dello Stato, e ostinandosi ad escludere una corresponsabilità di governo con il Pdl.

Cosa accadrà adesso? Bersani si presenterà al Quirinale con pochi numeri e con molte «valutazioni» sulle forze politiche che alla fine, messe di fronte alla scelta concreta, dovrebbero assumersi la responsabilità di «non ostacolare» il governo del "cambiamento" che ha in mente, con una lista di ministri sul modello Grasso-Boldrini. Ma al presidente Napolitano non basterà la "supercazzola", una vaga ipotesi di governo «della non-sfiducia», che dovrebbe nascere e sopravvivere qualche mese sull'eventualità che singoli senatori escano dall'aula per abbassare il numero legale. Almeno non senza un accordo politico esplicito in tal senso. In assenza di numeri certi e accordi espliciti, non permetterà al segretario del Pd di presentarsi in Parlamento per ottenere la fiducia.

Ormai chiusa a suon di insulti la via Grillo, resta la possibilità, a cui probabilmente dietro le quinte i pontieri di Pd e Pdl - nolente Bersani - stanno lavorando, di un voto favorevole da parte dei senatori del neo gruppo di Miccichè, e magari anche della Lega, con l'uscita dall'aula di alcuni del Pdl. Lo schema della "non-sfiducia", insomma, che dovrebbe pur sempre passare attraverso un accordo politico diretto con Berlusconi: se «scambi» non sono ipotizzabili tra governo e presidenza della Repubblica, almeno un «nome di garanzia» per il Quirinale dovrà uscire entro venerdì mattina, e l'ipotesi della presidenza di una Convenzione per le riforme al Pdl. Si tratterebbe comunque, per il Pd, di ufficializzare un accordo con il giaguaro e mettersi nelle sue mani per quanto riguarda la sopravvivenza del governo.

Il presidente Napolitano si trova nella condizione di aver fatto provare Bersani, il candidato-premier della coalizione con la maggioranza assoluta dei seggi al Senato e relativa alla Camera. Se dovesse certificare il suo fallimento, sarebbe pienamente legittimato, anche politicamente oltre che dalla Costituzione, a tentare la strada di un cosiddetto "governo del presidente". Incaricando una personalità di sua fiducia di formare un governo in grado di ottenere il sostegno esplicito di Pd, Pdl e Scelta Civica, senza che i "nemici" siano vincolati da scomodi accordi politici tra di loro. In questo scenario, il patto, l'impegno, ciascun partito lo assumerebbe direttamente con il presidente e il suo premier.

Qualsiasi ipotesi, tuttavia, com'è facile intuire, rischia di spaccare seriamente il Pd, dal momento che una forma di coesistenza e di corresponsabilità con Berlusconi e il suo partito - nelle votazioni sui singoli provvedimenti, sulle riforme istituzionali e innanzitutto sul nome del nuovo capo dello Stato - sarebbe inevitabile. Il Pd non si salverebbe, insomma, dall'accusa di "inciucio" con quel giaguaro che avrebbe dovuto smacchiare per sempre.

Wednesday, March 27, 2013

Tranne i marò, tutti colpevoli con disonore

Anche su Notapolitica

Non saranno le dimissioni, annunciate ieri alla Camera, a scagionare l'ormai ex ministro degli Affari esteri Giulio Terzi dalle sue responsabilità per la disastrosa gestione della vicenda dei marò sequestrati dalle autorità indiane. Tranne i due nostri militari, infatti, nessuno degli uomini di governo coinvolti può pensare di uscire a testa alta, con dignità, da questa storia: non Terzi, ma nemmeno gli altri che non si dimettono. Per quanto tardive, per quanto «irrituali», e per quanto "paracule", senza ammettere i propri errori, pur sempre di dimissioni si tratta. Anche se avrebbe dovuto farlo giorni fa (e forse mesi fa), invece di rilasciare a la Repubblica un'intervista surreale, sprezzante del ridicolo, nel tentativo di presentare come un successo diplomatico la doppia giravolta, almeno Terzi si è dimesso. Il ministro Di Paola, pur non dimettendosi, ha però rivolto le sue scuse ai marò, al Parlamento e agli italiani. E gli altri? Il premier Mario Monti? il patetico De Mistura? State sicuri che non si sottrarranno al rito dello scaricabarile avviato da Terzi. E' possibile credere davvero che la decisione di trattenere i nostri marò in Italia, scatenando l'ira indiana, e dopo pochi giorni quella di rispedirli indietro, non siano state assunte collegialmente, quindi avallate entrambe dalla presidenza del Consiglio? Ed è credibile la versione che Terzi ha presentato di sé alla Camera, ministro con la schiena dritta che non voleva mollare di fronte alla prepotenza indiana, mentre dall’inizio di questa vicenda è sempre sembrato a proprio agio nel rappresentare una linea che definire morbida è un eufemismo?

A quanto pare, però, siccome le sue dimissioni, inaspettate e in dissenso con la decisione del governo di far rientrare i marò in India, avvantaggiano indirettamente Berlusconi e il Pdl nella loro polemica contro Monti e i "tecnici", e siccome disturbano anche la quiete del Colle, allora in questo caso, improvvisamente, diventano persino motivo di supremo biasimo. Ci lamentiamo sempre, noi italiani, che non si dimette mai nessuno per i disastri che combina, chiedere le dimissioni è una specie di sport nazionale, eppure stavolta no: Terzi non doveva dimettersi, almeno non ora, non così. Ok, è stato scorretto, ma invece di perderci nei dettagli, di chiederci chi ci guadagna e chi ci perde politicamente, alludendo a chissà quali calcoli, e se avesse dovuto rassegnarle prima (certo che sì) e nelle mani del presidente del Consiglio piuttosto che annunciarle davanti al Parlamento (forse), dovremmo pretendere che ne seguano altre di dimissioni. Non si tratta di difendere Terzi: è inaccettabile il suo scaricabarile, ma lo è anche che il suo comportamento diventi un alibi per insabbiare le responsabilità altrettanto gravi di tutti gli altri, Monti in testa, nella fallimentare gestione di questa crisi.

Andrebbe innanzitutto fatta chiarezza sulla ricostruzione fornita da Terzi alla Camera, secondo cui è «maturata in modo pienamente collegiale la decisione di ricorrere all'arbitrato e di trattenere i marò in Italia» e, da ministro, aveva posto «serie riserve alla repentina decisione di un loro ritrasferimento in India», dovendo però constatare che la sua voce è rimasta «inascoltata». In particolare, sembra emergere che la decisione di farli rientrare in India sarebbe arrivata proprio sul più bello, cioè quando secondo Terzi lo "strappo", trattenerli in Italia, ci stava finalmente per mettere in una posizione di vantaggio rispetto all'India, mentre stavamo acquisendo sostegno internazionale sia sulla richiesta di arbitrato che contro la rappresaglia indiana. «Avevamo finalmente da noi, in patria, i due fucilieri di marina in una cornice legale che consolidava la giurisdizione del nostro Paese e la consolidava in modo inequivocabile. L'azione diplomatica con i nostri principali partners aveva acquisito forti consensi e ancor più dopo la revoca dell'immunità al nostro ambasciatore. E la coerenza della linea intrapresa dal Governo nella tutela dei valori fondamentali per il Paese, per le Forze armate, dei nostri interessi economici e dei nostri connazionali espatriati, attirava nella comunità internazionale ampio e crescente sostegno». Proprio in quel momento così promettente, sostiene Terzi, il governo ha deciso di rimandare indietro marò dietro assicurazioni da parte indiana ritenute «idonee» (da De Mistura).

La gestione della crisi è stata disastrosa fin dall'inizio. E' stata sottovalutata la fermezza della posizione indiana: ci veniva spiegato dai conoscitori di quella realtà che si trattava di strumentalizzazioni politiche interne che si sarebbero in breve tempo sgonfiate. Basso profilo, dunque, riservatezza, rispetto. Più appariva evidente che si trattava di una questione politica, di interesse e dignità nazionale, più si negava, tentando di venirne a capo con una miope linea tecnico-giuridica, e ritardando il coinvolgimento di organismi internazionali, mai preteso con la necessaria convinzione. Fino al vero e proprio pasticcio finale. La decisione di trattenere i marò ci ha esposti ad una brutta figura, perché per far valere i suoi diritti l'Italia aveva dovuto ancora una volta dar prova della propria inaffidabilità. Ma per quanto discutibile, almeno i marò erano a casa e i reiterati inganni degli indiani in qualche modo costituivano un'attenuante.

Peccato che la svolta è stata eseguita in modo così maldestro e dilettantesco, senza adeguata preparazione, né sul piano legale né dal punto di vista diplomatico e politico, tanto che ci siamo fatti trovare del tutto impreparati e scoperti dalla dura rappresaglia delle autorità indiane, senza alleati al nostro fianco. Ma una volta intrapresa quella strada, e soprattutto dopo la plateale violazione da parte indiana della convenzione di Vienna sulla intangibilità degli ambasciatori, calarsi le brache è stata una toppa peggiore del buco, come quell'arbitro che per riparare un torto commette un errore ancora più eclatante. Una prova di incompetenza, cinismo e meschinità senza pari.

Tuesday, March 26, 2013

Giustizia italiana una maionese impazzita

Anche su L'Opinione

E' tutto da rifare. Accogliendo la richiesta della Procura generale di Perugia, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito che aveva messo la parola fine al processo di appello per l'omicidio di Meredith Kercher. Il nuovo processo d'appello, però, si svolgerà a Firenze. Dovremo attendere per conoscere le motivazioni della sentenza, ma nel frattempo bisogna chiarire che non si tratta di un giudizio di merito. La sentenza non «ribalta» da assoluzione a colpevolezza il verdetto d'appello, come purtroppo molti organi di informazione con il loro lessico inappropriato inducono a credere. E forse si può azzardare qualche considerazione di carattere generale. La giustizia italiana sembra ormai una maionese impazzita. Tanti, troppi sono i casi in cui su una stessa vicenda giudiziaria intervengono più di due sentenze di merito e altrettante da parte della Cassazione. Una quantità tale di verdetti contraddittori, spesso anche nell'ambito di uno stesso grado di giudizio, che di per sé lede la credibilità dell'intero procedimento giudiziario.

E occorrerebbe una riflessione approfondita su quell'anomalia solo italiana che porta la pubblica accusa a ricorrere sempre e comunque, fino al terzo grado di giudizio, contro le sentenze di assoluzione, anche senza che siano emerse nuove e schiaccianti prove che giustifichino la riapertura del caso. Quasi che per il nostro ordinamento l'onore dei procuratori smentiti dai giudici sia meritevole di maggiore tutela rispetto alle garanzie degli imputati. Com'è possibile, infatti, dal punto di vista logico, sgombrare il campo da ogni ragionevole dubbio sulla colpevolezza di qualcuno sottoposto ad un nuovo processo di merito, se costui è stato già giudicato innocente sulla base degli stessi elementi?

E' questo il caso che potrebbe verificarsi nei confronti di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Ancora non concosciamo le motivazioni che hanno indotto la Cassazione ad annullare la sentenza del processo di appello di Perugia, ma nella sua requisitoria il sostituto pg non ha motivato la richiesta di annullamento con alcuna nuova prova a carico degli imputati. Si è limitato a lamentarsi di quanto i giudici di appello abbiano sottovalutato gli argomenti dell'accusa, quindi in sostanza a delle semplici contro-deduzioni alla sentenza di assoluzione, che per quanto possano risultare condivisibili non introducono alcun nuovo elemento di merito rispetto a quelli su cui si basa.

E' possibile che anche i giudici della Cassazione abbiano riscontrato nella sentenza annullata il «raro concentrato di violazioni di legge» e il «monumento alla illogicità» di cui ha parlato il sostituto pg nella sua requisitoria. Lo vedremo. Ma la Procura generale rimprovera ai giudici di appello di non aver preso in considerazione, o di aver sottovalutato, gli elementi dell'accusa, e di aver basato il loro giudizio solo sugli argomenti della difesa. Eppure, di per sé l'aver trovato più convincenti questi ultimi piuttosto che i primi non può portare all'annullamento di una sentenza, perché altrimenti non esisterebbero proprio sentenze di assoluzione. E' del tutto ovvio: se un giudice ha deciso di assolvere piuttosto che condannare, deve aver ritenuto di dover "sotto-valutare" gli elementi dell'accusa e "sopra-valutare" quelli della difesa. Viceversa, sarebbe arrivato ad una sentenza di condanna.

Né si può rimproverare alla Corte di aver «frantumato, parcellizzato, gli elementi indiziari», dal momento che spetta all'accusa presentare logicamente il complesso di indizi raccolti al punto di trasformarli in una prova in grado di dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio la colpevolezza degli imputati. Insomma, dalla requisitoria della Procura generale si ricava l'impressione che si rimproveri ai giudici che hanno assolto Amanda e Raffaele di aver ritenuto le tesi della difesa più convincenti di quelle dell'accusa. E' sufficiente questo per annullare una sentenza? Un processo non serve proprio a stabilire quali argomenti debbano prevalere e quali, invece, siano da sottovalutare?

Monday, March 25, 2013

Inciucio o voto, il dilemma del Pd

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Tre giorni sono trascorsi da quando il presidente della Repubblica ha conferito al segretario del Pd l'incarico di verificare preliminarmente «l'esistenza di un sostegno parlamentare certo», tramite consultazioni aperte a tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento. E in questi tre giorni Bersani tutto ha fatto fuorché quanto gli è stato chiesto dal presidente, dal momento che né i sindacati, né le associazioni imprenditoriali, né Roberto Saviano e don Luigi Ciotti possono esprimere un «sostegno parlamentare». Perché, a che titolo consultarli? Non solo, dunque, non ha ancora iniziato a verificare ed "esplorare" alcunché - forse, si potrebbe sospettare, per prendere tempo essendo indeciso sul da farsi - ma ha alimentato un'indebita confusione tra rappresentanza sindacale, sociale e politica, se non addirittura un'interferenza istituzionale. A meno di ritenere che il metodo della concertazione con le parti sociali, già controverso rispetto ai dossier di loro interesse, debba essere esteso anche alla formazione dei governi. Le rappresentanze sindacali/imprenditoriali hanno forse ricevuto dai loro iscritti anche un mandato a rappresentare le loro posizioni politiche in merito alla formazione del nuovo governo? E perché mai gli iscritti a queste associazioni di categoria dovrebbero godere di una sorta di doppia rappresentanza politica, la prima espressa tramite il voto, alla quale si aggiunge quella esercitata come corporazione?

Ma non solo tempi (lunghi) e metodo (concertativo), anche il merito. Nel week end Bersani ha tratteggiato «la strada di un doppio registro», sperando che «si possa trovare un equilibrio di responsabilità». In sostanza, ritiene di poter ottenere dagli eletti del M5S la fiducia su un programma di "cambiamento", politico e sociale, e dal centrodestra quanto meno una tregua per raggiungere "larghe intese" su alcune riforme istituzionali («di cui si parla da 15 anni»), compresa la legge elettorale. La sua proposta si rivolge quindi a tutte le forze parlamentari, «su uno schema che consente a ciascuna di riconoscervisi». In pratica, Bersani continua a proporre un governo monocolore Pd-Sel, sostenuto da maggioranze variabili su una sorta di menù "a la carte". Ma Napolitano nel conferirgli l'incarico aveva chiesto altro. Difficilmente, infatti, uno schema a maggioranze variabili è garanzia di «un sostegno parlamentare certo» e di un governo con «pieni poteri».

Il problema è che se interpretato per quello che davvero è, per come Napolitano l'ha spiegato venerdì scorso incontrando la stampa, l'incarico a Bersani rischia di spaccare il Pd, visto che per assicurare un governo con «pieni poteri», non esposto all'umore piuttosto instabile di maggioranze variabili, occorre una qualche forma di collaborazione con il Pdl, che invece il segretario del Pd, e diversi esponenti del partito a lui vicini, continuano ad escludere: «Non mi vengano a parlare di concordia quelli che cinque mesi prima delle elezioni hanno lasciato il cerino in mano ad altri sui danni che avevano provocato».

Dopo Confindustria, con l'allarme lanciato dal suo presidente Giorgio Squinzi («l'ossigeno per il nostro sistema industriale è ormai pochissimo»), anche i sindacati (Cgil, Cisl, Uil e Ugl) chiedono un governo «a tutti i costi» e al più presto. Un governo forte, non di minoranza. «Siamo contrarissimi a che si torni al voto, il quel caso l'Italia potrebbe somigliare alla Germania all'epoca della Repubblica di Weimar», ha osservato Bonanni della Cisl. E sulle cose da fare, sulle tasse, una Camusso quasi "berlusconiana": «Via l'Imu sulla prima casa fino ad un importo massimo di 1.000 euro. La tassa sulla casa, insieme alla Tares e al rincaro dell'Iva sono minacce da disinnescare».

Anche nel contesto di una prova muscolare come sono sempre le manifestazioni di piazza, sabato scorso, e ancora oggi, Berlusconi ha chiarito che il Pdl è pronto a condividere con il Pd la responsabilità del governo (proponendo Bersani premier e Alfano vicepremier). A patto che il Pd si disponga ad una scelta condivisa per un «moderato» come prossimo inquilino del Colle e che la priorità del nuovo esecutivo sia l'economia (sottinteso, dunque, niente provvedimenti ostili a Berlusconi), mentre è ragionevole supporre che sul piano delle riforme istituzionali la proposta del Pdl resti lo scambio tra doppio turno di collegio e presidenzialismo.

Berlusconi sta chiedendo "l'impossibile" per farsi dire di no? Forse, ma in qualsiasi trattativa si parte chiedendo "l'impossibile". Di sicuro però, per dare al paese un governo forte, con numeri certi, la distribuzione dei seggi parlamentari parla chiaro: stante il "no" di Grillo, servono i voti del Pdl, che però il Pd ritiene «impresentabile». Posizione legittima, purché si ammetta che è il frutto non di uno stato di necessità, ma di una libera scelta politica, di natura identitaria, che implica il ritorno immediato alle urne e che significa di fatto disattendere gli auspici alla base dell'incarico che il presidente Napolitano ha attribuito al segretario del Pd. Viceversa, se qualcuno nel Pd ritiene che occorra una "politica oltre Bersani", è questo il momento in cui dovrebbe manifestarsi.

Il dilemma che deve sciogliere il Pd nelle prossime ore, probabilmente già nella Direzione di stasera, è di quelli da far tremare i polsi: dopo aver nutrito il proprio popolo a pane e antiberlusconismo per vent'anni, è ovvio infatti che qualsiasi "inciucio" col "giaguaro" verrebbe pagato a caro prezzo. Il rischio è una spaccatura del partito e un sonoro "vaffa" anche da parte degli elettori più fedeli, quindi meglio il voto subito che sedersi al governo con Berlusconi o uno dei suoi. Ma è anche vero che la "scissione" del Pd, tra i suoi elettori, è già strisciante, come prova la decisione di molti di essi di dare il proprio voto a Grillo. Ed essere richiamati alle urne già a giugno, ritrovandosi Bersani candidato premier (magari a Palazzo Chigi da sfiduciato, come spera ancora il segretario), non farebbe cambiare idea a molti.

Friday, March 22, 2013

Prosegue il braccio di ferro Napolitano-Bersani

Dunque, il presidente Napolitano ha deciso di attribuire a Bersani una sorta di "incarico esplorativo". Non è il presidente del Consiglio incaricato di formare un governo. E' il capo della coalizione con la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera e relativa al Senato incaricato di verificare «l'esistenza di un sostegno parlamentare certo». Napolitano è stato chiaro e rigoroso: al termine delle sue consultazioni, Bersani dovrà riferire l'esito della verifica al presidente, non potrà limitarsi a sciogliere la sua riserva per formare il governo. Nessun automatismo tra pre-incarico e nomina, insomma.

Politicamente, Bersani riceve un "incarico esplorativo" su una linea opposta a quella perseguita finora e sancita dall'ultima direzione Pd. Dovrà rivolgersi a tutte le forze parlamentari, e non solo al M5S, cercando non il via libera ad un governo di minoranza, ma «un sostegno parlamentare certo», che spetterà a lui dimostrare di avere, non in aula ma al cospetto del capo dello Stato prima di ricevere l'incarico vero e proprio.

Il governo non dev'essere per forza di "larghe intese" (anche se Napolitano insiste su questa formula, facendo capire di essere favorevole), ma non potrà nemmeno essere di minoranza. Dovrà avere un «sostegno parlamentare certo», non da cercare di volta in volta, provvedimento per provvedimento. Il che tenderebbe ad escludere il M5S e riaprire l'ipotesi di accordo con il Pdl, eventualità che nell'ultima direzione Pd era stata esclusa del tutto. Un mandato, dunque, che se Bersani dovesse portare avanti sui binari tracciati da Napolitano, rischia di spaccare il partito.

Vedremo ora come intenderà giocarsi questa partita. Di sicuro, il suo obiettivo è quello di ricevere l'incarico pieno e andarsi a cercare la fiducia in Parlamento, pronto anche ad andare a sbattere. Alle brutte, infatti, sarebbe comunque il nuovo premier dimissionario al posto di Monti e gestirebbe da Palazzo Chigi sia l'elezione del nuovo capo dello Stato sia l'eventuale ritorno alle urne. Questo l'obiettivo, ma certo i paletti posti da Napolitano sono piuttosto rigorosi. Molto dipenderà anche dai tempi. Qui siamo convinti che più tempo passa, e meno il presidente avrà margini per imbastire soluzioni alternative una volta fallito il tentativo di Bersani, il che potrebbe indurlo a passare prima del previsto la mano al suo successore, che molti nel Pd sperano meno propenso a insistere per scomodi governi di larghe intese e più incline a sciogliere le Camere.

Il presidente, specificando che Bersani dovrà «tornare a riferire appena possibile», è sembrato consapevole dell'importanza dei tempi. Ma preannunciando la consultazione anche delle forze sociali, il segretario del Pd ha fatto capire che si prenderà un bel po' di tempo, non certo 2-3 giorni.

Scandalo marò, l'ultima infamia del governo Monti

Anche su L'Opinione

Inaccettabile, indecorosa, oscena. Sono solo alcuni degli aggettivi che ci vengono in mente per descrivere la vera e propria catastrofe diplomatica del nostro governo sul caso dei marò, costretti a tornare in India alla fine di un balletto che ci ha ridicolizzati davanti agli occhi di tutto il mondo.

La gestione della crisi è stata disastrosa fin dall'inizio, come abbiamo più volte sottolineato, ma nessuno si sarebbe meravigliato se, come accaduto a Natale, i nostri marò fossero tornati in India al termine della licenza concessa loro dal governo indiano, questa volta per votare. Invece, per bocca del ministro Terzi, qualche giorno fa il nostro governo annunciava che questa volta non sarebbero tornati, sarebbero rimasti in Italia, perché l'India viola «gli obblighi di diritto internazionale», scatenando l'ira di Nuova Delhi. Una brutta figura, perché per far valere i suoi diritti l'Italia aveva dovuto ancora una volta dar prova della propria inaffidabilità. Ma almeno i marò erano salvi.

Una svolta che si è dimostrata scellerata, però, quando è apparso evidente che non era stata adeguatamente preparata, né sul piano legale né dal punto di vista diplomatico e politico. Tanto che ci siamo fatti trovare del tutto impreparati e scoperti dalla dura rappresaglia delle autorità indiane, che non hanno esitato a violare l'immunità diplomatica del nostro ambasciatore a Nuova Delhi (roba che neanche durante la Guerra Fredda!). Nemmeno l'Unione europea - a riprova della sua totale nullità politica - ha preso posizione a nostro favore tramite l'insignificante e patetica baronessa Catherine Ashton, né ci siamo preoccupati di avere al nostro fianco qualche potenza nel prevedibile braccio di ferro con l'India che ne sarebbe seguito. Temendo l'isolamento e una grave rottura delle relazioni diplomatiche e commerciali con Nuova Delhi, il governo italiano alla fine si è di nuovo calato le brache, tornando sulla propria decisione e ordinando ai marò di tornare in India, dove è facile immaginare che troveranno un clima molto più ostile e autorità molto meno ben disposte nei loro confronti dopo lo scherzetto di questi giorni. Insomma, se prima dell'incidente potevamo confidare in un giudizio positivo sulla giurisdizione, ora difficilmente la Corte suprema indiana mollerà l'osso.

Ma questo non è solo uno smacco senza precedenti per l'immagine e lo status internazionale del nostro paese. Non abbiamo solo perso una prova di forza a cui era prevedibile che gli indiani ci avrebbero sottoposti. E' una prova di incompetenza - non la prima - e di viltà tali da parte di un governo che si definisce "tecnico" da lasciarci semplicemente sbigottiti e infuriati. Surreali e ai limiti della volgarità e dell'insulto alla nostra intelligenza le interviste di Terzi e De Mistura sulle rassicurazioni indiane: no, tranquilli, i nostri marò non rischiano la pena di morte, ma solo un processo ingiusto da uno Stato che non ha giurisdizione su di loro, che li ha tratti in arresto con l'inganno e ha violato l'immunità diplomatica. Nulla di cui preoccuparsi, insomma.

Ne abbiamo viste di tutti i colori, si può dire tutto il peggio dei governi precedenti, ma probabilmente mai il cinismo e la meschinità di cui hanno dato prova il premier Monti, il ministro Terzi e tutti gli altri responsabili di questa vergognosa vicenda. Dovrebbero tutti dimettersi subito da ogni incarico: da Monti a Terzi fino all'ultimo dei ministri, dei funzionari e dei diplomatici coinvolti, passando per De Mistura. Una commissione parlamentare di inchiesta andrebbe istituita per far luce su circostanze e responsabilità di tutta la vicenda, fin dal suo inizio. Ha disonorato la Repubblica, umiliato gli italiani, giocato con la vita dei due marò: per questo Monti dovrebbe dimettersi anche da senatore a vita.

Farebbe bene Napolitano a fidarsi di Bersani?

Il presidente ha un'unica chance: scaricare subito Bersani. Se lo incarica, il suo tempo è scaduto e la palla passa al successore

Anche su Notapolitica

A giudicare dal volto con il quale Pierluigi Bersani si è presentato davanti ai giornalisti, la consultazione con il capo dello Stato dev'essere stata piuttosto tesa. Il segretario del Pd è andato a chiedere per sé l'incarico di formare il governo, secondo la tesi "tocca a me provare", ma Napolitano ha risposto, come prevedibile, che senza numeri se lo poteva scordare. Ti incarico a condizione che ci stai a valutare altre strade oltre Grillo, oppure ti fai da parte, deve avergli detto in pratica il presidente. E alla fine, un minuto prima di finire in fuori gioco, nella speranza di convincerlo a farsi dare almeno questa sorta di incarico "condizionato", Bersani si è piegato, s'è fatto concavo, sembra di capire dalle parole pronunciate dal segretario del Pd al termine dell'incontro: una "supercazzola", da cui però è emerso abbastanza chiaramente che ora il Pd con le sue proposte si rivolge «a tutte le forze parlamentari». E' davvero finita la rincorsa a Grillo? In quel «a tutte le forze parlamentari» (dunque, Pdl compreso) potrebbe esserci la condizione imposta da Napolitano e la conversione a U di Bersani, ora disposto a cercare l'appoggio di altre forze politiche, e non del solo M5S, pur di essere ancora lui a condurre le danze.

Ma farebbe bene il capo dello Stato a fidarsi? A nostro avviso no. Siamo nel terreno ambiguo, e contraddittorio, della prassi costituzionale. Al presidente della Repubblica spetta il potere di nomina, di quello parla la Costituzione. Non esiste alcun incarico "condizionato", né un pre-incarico, né un mandato esplorativo. Si tratta di convenzioni. E di solito il mandato a continuare le consultazioni si attribuisce ad una carica istituzionale terza, come il presidente del Senato, proprio perché il presidente non può revocare un incarico: sciogliere o meno la riserva riguarda l'incaricato. Se ad essere incaricato è il candidato premier del partito più votato, in questo caso Bersani, e se questi decide di sciogliere la riserva, può formare un governo e presentarsi in Parlamento per la fiducia. E se ieri sera Bersani ha lasciato intravedere uno spiraglio nel "no" finora intransigente del Pd a qualsiasi dialogo con il Pdl, potrebbe trattarsi semplicemente del più classico "buon viso a cattivo gioco" per ottenere una qualche forma di incarico.

Bersani potrebbe comunque decidere di giocare fino in fondo la carta Grillo, oppure tornare dal capo dello Stato, dopo un tentativo di facciata, per dirgli che un accordo con il Pdl è impossibile e che non c'è alternativa al ritorno alle urne. D'altra parte, Berlusconi è interessato soprattutto ad un accordo su una personalità di garanzia da mandare al Quirinale, ma è proprio la scelta del prossimo inquilino del Colle che il Pd non è disposto a condividere, essendo convinto di riuscire ad eleggere un suo uomo a prescindere dalla partita per la formazione di un governo.

Insomma, altro tempo prezioso sarebbe trascorso e Napolitano si ritroverebbe a quel punto con margini, sia temporali che politici, sempre più ristretti per imbastire altri tentativi, e non gli resterebbe forse che passare la mano al suo successore, il quale nei piani del Pd sarebbe meno propenso a cercare governi del presidente o di larghe intese e potrebbe sciogliere le Camere (sbocco che non dispiace a Bersani, che potrebbe ripresentarsi come candidato premier evitando le primarie e scaricando la colpa sull'irresponsabilità di Grillo). La domanda a cui il presidente dovrebbe dare una risposta è: è credibile l'apertura di Bersani «a tutte le forze parlamentari», avendo finora perseguito con ostinazione una linea del tutto opposta (fiducia dei grillini o voto)? Oppure, come mediatore di questa nuova fase è più indicata un'altra figura? Lo scopriremo tra poche ore.

Thursday, March 21, 2013

La distrazione di massa dai veri costi della politica

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Ben vengano i tagli alle retribuzioni dei presidenti delle Camere e dei parlamentari, naturalmente, e con essi il taglio agli sprechi, sperando che questa volta non si tratti solo di parole ma si passi ai fatti. Non possono che destare preoccupazione, tuttavia, i segni di una certa deriva "impiegatizia" del lavoro dei parlamentari che ci sembra di cogliere nelle parole dei neo presidenti Boldrini e Grasso, che in alcune loro uscite mostrano anche di non aver ben inquadrato la natura della loro carica istituzionale. Fin dai loro discorsi di insediamento hanno mostrato intenti "programmatici" più appropriati a un ministro che non al presidente di un'assemblea elettiva. Propositi confermati in un'intervista al settimanale L'Espresso dal presidente del Senato Grasso: «Giustizia e cambiamento sono le linee guida del mio lavoro. Corruzione, falso in bilancio, voto di scambio e nuove forme di riciclaggio: sono queste le priorità, per tutti». Anche l'intenzione proclamata dalla presidente Boldrini di «stare il più possibile fuori dal Palazzo e farmi carico dei problemi dei cittadini» non lascia presagire nulla di buono: Camera e Senato hanno bisogno non di presidenti in gita (o campagna?) permanente, non di promoter di se stessi, ma di manager il più possibile presenti, e capaci di farle funzionare.

Il solo parlare di "stipendio" è scorretto, fuorviante. Gli emolumenti di deputati e senatori, così come dei loro presidenti, sono costituiti infatti di più voci: indennità parlamentare, ma anche diaria e rimborso delle spese per l'esercizio del mandato. A cui si aggiungono varie indennità di carica e di funzione a seconda che ricoprano anche i ruoli di presidente, vicepresidente, questore, segretario d'aula, capogruppo, presidente e vicepresidente di commissioni. Dunque, quando l'altra sera, a Ballarò, Boldrini e Grasso hanno annunciato di essersi «tagliati lo stipendio» del 30%, hanno in qualche modo disinformato, se non ingannato i telespettatori. Il taglio finora deciso, infatti, riguarda le loro indennità d'ufficio, cioè una parte "accessoria" del loro "stipendio". Il taglio del 30% della sola indennità da presidenti delle Camere corrisponde infatti a circa il 7% del totale delle loro entrate mensili.

Se gli emolumenti dei parlamentari non si chiamano «stipendio» un motivo c'è. Perché il loro, piaccia o meno, non è un lavoro, com'è invece quello di un impiegato o di un operaio. La loro è una funzione. E si parla di «indennità» proprio perché si presuppone che l'esercizio di tale funzione sottragga loro del tempo per l'attività lavorativa e, quindi, dei guadagni. La loro funzione è quella di rappresentare i cittadini in Parlamento e non può essere misurata con il numero di ore lavorate, a cui corrisponde uno "stipendio". Viene valutata politicamente dagli elettori.

Un altro segno della deriva "impiegatizia" sta in un'altra uscita piuttosto demagogica dei due neo presidenti delle Camere, che hanno più volte dichiarato di voler far lavorare deputati e senatori per 5 giorni su 7. «Una più alta produttività, le ore di lavoro settimanali devono passare da 48 a 96, lavorando dal lunedì al venerdì, e si potrebbe fare anche di più», è l'impegno assunto dalla presidente Boldrini. Ma è assurdo misurare la produttività del Parlamento con il monte ore lavorate, come si farebbe per un impiegato o un operaio. Innanzitutto, Boldrini e Grasso sembrano ignorare che se il Parlamento lavora per più ore, i costi di struttura non diminuiscono, ma aumentano, anche considerevolmente. Basti pensare alle utenze e alle spese per il personale che assiste i parlamentari nel loro lavoro, dai consulenti legislativi ai commessi. Ore e ore di straordinari.

Altro che 5 giorni su 7. Il Parlamento dovrebbe lavorare/legiferare meno e meglio, laddove meglio significa innanzitutto in tempi più rapidi, che presupporrebbero modifiche costituzionali e dei regolamenti parlamentari a cui da sempre si oppongono i custodi di una concezione parlamentarista e assemblearista della democrazia rappresentativa.

Alla base di certe uscite demagogiche, purtroppo, c'è una malintesa idea, di tipo appunto "impiegatizio", dei costi della politica. E' senz'altro doveroso ridurre, riallineandoli agli standard degli altri maggiori paesi europei, gli emolumenti dei parlamentari, dimezzare il numero di deputati e senatori, così come dei membri di tutte le assemblee legislative, e magari anche sostituire il Senato con una Camera delle Regioni.

Ma i veri costi della politica, quelli rilevanti come dimensioni rispetto all'intera spesa pubblica, quelli che tarpano le ali all'economia del nostro paese, sono quelli che mantengono una casta improduttiva e parassitaria molto più ampia dei mille parlamentari, rendendo la vita quasi impossibile, ormai, ai ceti produttivi. I veri costi della politica stanno nell'incapacità delle istituzioni di prendere decisioni in tempi utili. Stanno nella sovraproduzione normativa, e in una macchina statale ipertrofica - che necessita di sempre maggiori risorse non già per funzionare, ma solo per la propria sopravvivenza - che aggravano l'oppressione burocratica e fiscale. Stanno nelle società partecipate che gestiscono i servizi pubblici locali (acqua compresa!), imbottite di politici, loro parenti, amici degli amici eccetera. Stanno nella malagestione della sanità pubblica, per cui la stessa siringa può costare in una regione dieci volte tanto che in un'altra. Stanno in tutti i fondi e sussidi elargiti dai politici alle loro clientele nelle forme più disparate, e sempre con la scusa di favorire lo sviluppo.

Ed è qui la contraddizione di fondo di movimenti come quello di Grillo: sono contro i partiti, vogliono estirpare la corruzione, la malapolitica, ma allo stesso tempo chiedono più Stato, più "pubblico", in tutti gli ambiti (acqua pubblica!), il che inevitabilmente significa più potere ai politici, ai partiti, come in una sorta di sindrome di Stoccolma.

Wednesday, March 20, 2013

Perché Napolitano deve scaricare subito Bersani

Anche su L'Opinione e Notapolitica

Altro che Renzi, che resta in riva al fiume rischiando di distrarsi troppo. Oggi le due anime del principale partito di sinistra, il Pd, sono rappresentate la prima, quella maggioritaria, dal segretario Bersani, che dietro di sé (almeno per ora, almeno formalmente) ha la quasi unanimità del gruppo dirigente; e l'altra, decisamente minoritaria, da una personalità esterna, il presidente della Repubblica Napolitano, forte del suo ruolo e del sostegno "in sonno" di alcuni esponenti del partito. I due sono arrivati al momento dell'incontro/scontro decisivo. Non è un mistero, infatti, che Bersani punta ad un incarico pieno, senza riserva, per presentarsi in Parlamento con una squadra di governo in grado di sedurre i grillini, ripetendo il successo (parziale) dei nomi di Boldrini e Grasso per la presidenza delle Camere. In caso di insuccesso, riportare il paese alle urne già a giugno, ma al volante di Palazzo Chigi e scaricando la colpa sull'irresponsabilità di Grillo. Non ci sarebbe il tempo per convocare nuove primarie e il candidato sarebbe ancora lui: Bersani. Al contrario, la linea del capo dello Stato è sgonfiare, neutralizzare lo tsunami grillino - non inseguirlo - con almeno un anno di buon governo ("di scopo", di "larghe intese") su pochi punti qualificanti (emergenza economica, costi della politica, legge elettorale), frutto di un compromesso "alto" tra le forze politiche responsabili. Tentare tutte le strade, dunque, per dare al paese un governo stabile, come hanno riferito i presidenti delle Camere Grasso e Boldrini dopo il colloquio con il presidente.

L'Italia infatti non può permettersi di andare avanti "a tentoni", per tentativi (prima Bersani, poi semmai avanti un altro), né di sperimentare le maggioranze variabili o altre assurde formule, per poi alla fine precipitarsi al voto balneare, con un governo per gli affari correnti che avrebbe una conoscenza molto meno approfondita dei dossier rispetto a quello uscente. La crisi morde, gli ultimi sviluppi dell'Euro-delirio fanno temere da un momento all'altro una nuova fase acuta da rischio sistemico, e molti nodi cruciali sono in attesa di essere sciolti da un governo nel pieno delle sue funzioni e sostenuto da forze senza "grilli" per la testa: dall'incombenza di nuove stangate fiscali già previste, come nuova Tares e ulteriore aumento dell'Iva, che bisognerebbe scongiurare, al pagamento dei debiti commerciali della PA nei confronti delle imprese, per non parlare del completamento di alcune riforme troppo timidamente avviate dal governo Monti (Autorità dei trasporti, Strategia energetica nazionale, servizi pubblici locali, piano di dismissioni), ma di fondamentale importanza per attrarre investimenti e far ripartire la nostra economia.

Il guaio è che l'inerzia sembra avvantaggiare Bersani. Perché la linea del presidente abbia qualche chance di riuscita, infatti, si dovrebbe passare dall'oggi al domani dalla fase dei veti incrociati tra le forze politiche ad una fase di ricerca delle possibili convergenze. I numerosi richiami di Napolitano al comune senso di responsabilità, le sue esortazioni ad abbandonare una sterile contrapposizione tra i partiti, non solo sono caduti nel vuoto, ma sono stati scientemente contraddetti dalla linea di sistematica occupazione delle istituzioni (presidenza delle Camere e Quirinale) che sta portando avanti il Pd e da dichiarazioni incendiarie (il sì all'arresto di Berlusconi, che nessuna procura ha ancora richiesto), nonché travolti dall'azione della magistratura contro il leader del Pdl, che ha scatenato la prevedibile reazione scomposta del centrodestra e offerto al Pd un buon pretesto per chiudere ad ogni ipotesi di dialogo con coloro i quali vengono chiamati «impresentabili». Anche da giornalisti del servizio pubblico desiderosi di appuntarsi medagliette in vista di futuri prestigiosi (e ben retribuiti) incarichi.

Alla fine è probabile che Napolitano decida per una via di mezzo: non un incarico, ma un mandato "esplorativo" a Bersani che consenta al governo tecnico uscente di restare in carica per gli affari correnti. Ma se, come ampiamente e platealmente annunciato, il M5S confermerà nelle consultazioni la propria assoluta indisponibilità a votare la fiducia ad un governo Pd, il presidente Napolitano non dovrebbe perdere ulteriore tempo e dovrebbe favorire il passaggio ad una nuova fase semplicemente scaricando Bersani e affidando il mandato esplorativo ad un'altra personalità di sua fiducia. Il Pd saprebbe prenderne atto, non mancano segnali in questo senso, anche se il gruppo dirigente è apparentemente allineato dietro il suo segretario. Bersani, viceversa, pretenderebbe di giocare fino in fondo la carta Grillo, e permetterglielo significa non poter cominciare ad esplorare strade alternative. A quel punto, qualsiasi sia l'esito, si verrebbe a creare una situazione in cui, trascorso altro tempo prezioso, a Napolitano non resterebbe che accelerare la sua successione.

Esattamente il disegno di Bersani: rendere impraticabile, per mancanza di tempo e di clima politico, l'iniziativa del capo dello Stato, eleggere prima possibile il suo successore in modo che possa sciogliere senza ulteriori indugi le Camere, tornando al voto ancora da candidato premier.

Tuesday, March 19, 2013

Italia, Europa: stessa maionese impazzita

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Come non intravedere una qualche sinistra corrispondenza tra il delirio di cui ogni volta che c'è da assumere una decisione sembrano preda i vertici europei e quello cui assistiamo ogni giorno nella caotica realtà politica, istituzionale ed economica italiana?

IN ITALIA - L'elezione dei presidenti di Camera e Senato proposti dal Pd non cambia il segno di questa fase politica, che vede Bersani inseguire Grillo e questi rigettare ogni ipotesi di accordo per la nascita di un governo. I nomi di Boldrini e Grasso servivano proprio a lusingare gli istinti grillini e in parte ci sono riusciti. E' stata definita una vittoria di Bersani, ma si può chiamare così il prolungamento di un'agonia? Certo, la linea del segretario è uscita rafforzata, è riuscito ad aprire una breccia nella rappresentanza parlamentare del M5S, a farne esplodere le contraddizioni, ma il Pd si sta infilando in un vicolo cieco dal quale è sempre più difficile che riesca a far uscire se stesso ed il paese. L'elezione dei presidenti Boldrini a Grasso non aumenta di uno zero virgola le chance di veder nascere un governo Pd-Monti con l'appoggio esterno del M5S, ma chiude quasi del tutto le porte a qualsiasi altro tentativo di dare un governo al paese evitando l'immediato ritorno al voto.

E loro stessi, i neo presidenti, sono sintomi del vero e proprio impazzimento politico-istituzionale che il nostro paese sta vivendo. Solo tre mesi fa Grasso era niente meno che il procuratore nazionale antimafia, non un magistrato qualunque. Era già improprio che si candidasse alle elezioni, oggi è addirittura presidente del Senato. Della serie, una Repubblica fondata sulle procure. Laura Boldrini è una signora che ha usato il suo incarico in un organismo internazionale per fare opposizione politica al governo del suo paese. Legittimo, ma è stata premiata per quello. Se da portavoce dell'UNHCR lanci critiche così violente contro il governo del tuo paese, fino a farne un caso "europeo", e dopo pochi mesi ti candidi, vieni eletta e diventi presidente di una Camera proprio contro la parte politica che avevi accusato, diventa forte il sospetto che le tue critiche fossero frutto di un pregiudizio politico, piuttosto che di valutazioni di merito. Apprezzabili o meno, i discorsi di insediamento di Boldrini e Grasso erano totalmente fuori luogo. Discorsi "programmatici", un'orgia di retorica con accenti addirittura palingenetici rispetto ai mali e ai vizi della nostra società e del mondo intero, che inducono a chiedersi seriamente se queste persone siano davvero consapevoli della natura istituzionale del compito che sono stati chiamati a svolgere.

Per non parlare della definitiva "caduta in politica" di Mario Monti. Veniamo da una tre giorni, infatti, da cui è emersa anche tutta la meschinità di colui che doveva essere il "salvatore della patria". Dei suoi errori di politica economica e dei suoi bluff sulle riforme ci eravamo ormai accorti un po' tutti. Ma il duplice disperato tentativo, in rapidissima sequenza, prima di occupare la poltrona di presidente del Senato, respinto da Napolitano, e poi di ottenere il sostegno alla sua corsa per il Colle, gettano un'ombra persino inquietante sulla reale statura del personaggio, se pensiamo all'aura di credibilità e spirito di servizio che lo circondava solo pochi mesi fa.

Il Pd, da parte sua, va avanti come un treno con il suo disegno di occupazione delle istituzioni, forte (o debole?) del 25% dei voti sul 72% dei cittadini che si sono espressi (cioè il 18% reale): dopo Camera e Senato, ora la presa del Quirinale. Palazzo Chigi subito, con la complicità dei grillini, oppure fra tre mesi, dopo il vero e proprio salto nel buio del ritorno al voto. In ogni caso, il paese è bloccato sul dilemma della sinistra: come cavare il massimo di potere, che avevano cominciato ad assaporare, con il minimo dei voti ottenuti. Sono condannati ad inseguire un movimento anti-sistema che parla di decrescita, perché prendere atto dei numeri usciti dalle urne e far prevalere la responsabilità di dar vita ad un governo "costituente" presupporrebbe scendere a patti con il nemico che continuano a demonizzare e che vorrebbero vedere in galera. Insomma, la sinistra gioca allo sfascio non solo quando è all'opposizione, quando per delegittimare l'avversario è pronta a offrire in pasto anche l'immagine del paese, ma anche quando è chiamata ad essere forza di governo.

E IN EUROPA - Se l'Italia è una maionese impazzita, l'Europa non è da meno. Ci riferiamo all'incredibile decisione di Ue, Bce e Fmi di rapinare, perché di questo si tratta, i correntisti ciprioti. Il piano di salvataggio di Cipro, infatti, sarebbe condizionato ad un prelievo forzoso sui conti correnti e di deposito. Noi italiani l'abbiamo sperimentato con Amato nel 1992 (lo 0,6%), ma in questo caso si parla di percentuali che variano dal 6 al 15% delle somme depositate. Dopo aver trasformato una crisi periferica come quella greca in una crisi sistemica capace di contagiare l'intero sistema finanziario europeo, e quindi di minacciare la tenuta stessa dell'euro, con Cipro si rischia di ripetere lo stesso errore. La Grecia sarà un "caso unico", si diceva, ma se i "casi unici" cominciano ad essere due, si rischia di non venire più creduti. Possibile che per 10 miliardi di euro a Cipro l'Europa sia pronta a rischiare una "corsa agli sportelli" stile 1929 in Spagna, Portogallo e Italia?

La peculiarità della realtà economica e finanziaria di Cipro (le vivaci proteste di Putin e Medvedev rivelano i cospicui interessi russi) non è un'attenuante per l'Ue. Il prelievo forzoso ai danni dei correntisti calpesta i principi su cui l'Europa dovrebbe essere fondata. E se è vero che non resta altra soluzione, la colpa dell'Ue è aver permesso a Cipro di continuare ad essere un centro finanziario offshore dentro l'Eurozona. Com'è stato possibile?

E' forte la sensazione che stiamo oltrepassando un punto di non ritorno sulla strada del fallimento del progetto europeo. Un fallimento politico-istituzionale, per l'incapacità a darsi istituzioni funzionanti, e democratiche, e persino a realizzare l'obiettivo minimo dell'integrazione monetaria ed economica. E un fallimento ideale, dal momento che la confisca di cui si parla è un furto legalizzato, degno di un impero medievale o di una Unione di repubbliche sovietiche. Era difficile, ma stiamo riuscendo a far rivivere l'Urss in Occidente.

Se poi a tutto questo aggiungiamo l'Alto rappresentante per la politica estera Ue che non prende posizione nella disputa legale tra l'Italia e l'India, le cui autorità hanno disposto il sequestro del nostro ambasciatore, allora la misura dell'inutilità europea è colma.

Siamo entrati in Europa, e nell'euro, per essere noi italiani, da sempre scapestrati, un po' più europei, ma vediamo che decennio dopo decennio è l'Unione europea che sta diventando più "italiana". Nel perseverare in un modello economico e sociale insostenibile; nell'elefantiasi burocratica; nella lontananza dei decisori pubblici dalla realtà dei cittadini; nello stallo politico-istituzionale; nella follia dei processi decisionali; nel calpestare i fondamenti dello stato diritto. E' la peste italiana a diffondersi in Europa, non le "best practice" europee ad essere importate in Italia.

Friday, March 15, 2013

"Smacchiato" il piano di Bersani

Anche su Notapolitica

Le ripetute fumate nere per l'elezione dei presidenti di Camera e Senato hanno "smacchiato" il piano di Bersani. Come previsto, i grillini si sono rivelati non integrabili: non sono disposti ad alcun accordo sui presidenti delle Camere, figuriamoci per una maggioranza di governo. Se ne restano seduti in aula a votare i propri candidati in un esercizio di autismo politico.

La carta di riserva che il Pd avrebbe in mente di giocare sarebbe quella di un accordo con Scelta Civica per eleggere un Franceschini alla Camera e un montiano al Senato. Ma è chiaro che senza coinvolgimento del Pdl, come premessa almeno di un tentativo di formare un governo di larghe intese e di una scelta condivisa per il successore di Napolitano al Colle, nemmeno Monti avrebbe alcuna convenienza (oltre alla poltrona, che già ha). I montiani infatti vogliono scongiurare il ritorno al voto e un accordo Pd-Scelta Civica per la presidenza delle due Camere che escludesse il Pdl, e non preludesse quindi alle larghe intese, non avrebbe i numeri per evitare elezioni già a giugno.

Il guaio è che il Pd sembra persistere in uno stato confusionale o di negazione del risultato elettorale, da cui non è uscito con i numeri sufficienti per poter escludere il Pdl da tutti i giochi. Ma piuttosto che rivedere il progetto di "conventio ad excludendum" ai danni del centrodestra, Bersani preferisce il voto a giugno e nessuno dei suoi ha ancora avuto il sussulto di dignità di chiamargli un'ambulanza.

Come ampiamente previsto, alla prima verifica la linea di coinvolgimento del M5S è naufragata ed è ovvio che, permanendo la totale preclusione del Pd nei confronti del Pdl, Bersani sta di fatto scegliendo il voto a giugno, probabilmente pensando in questo modo di evitare nuove primarie ed essere ancora lui il candidato del centrosinistra. Un azzardo totale, a conferma del rischiosissimo "all-in" di cui abbiamo parlato giorni fa su Notapolitica. Gli elettori, infatti, potrebbero farsi convincere dallo stallo che si è verificato ad abbandonare Grillo e tornare a votare Pd, ma potrebbero anche, dinanzi all'ostinazione e all'arroganza di Bersani, perseverare tentati dalla spallata finale ai vecchi e rissosi partiti. Un vero e proprio salto nel buio, a cui Bersani ci condannerebbe come paese solo perché non vuole nemmeno saperne di prendere atto dei numeri veri e di mollare la "ditta" a Renzi.

Thursday, March 14, 2013

Omertà di casta anche tra i giornalisti?

Anche su Notapolitica e L'Opinione

I cosiddetti retroscena - un genere letterario, più che giornalistico, tipico della stampa italiana in cui si mischiano maliziosamente fatti e opinioni - ricevono smentite più o meno credibili quasi tutti i giorni. E' capitato spesso anche che il Quirinale smentisse la Repubblica, ma il caso di oggi è particolarmente esemplare e merita una riflessione. Giorgio Napolitano, infatti, ha perso la pazienza e firmato personalmente una brutale smentita dell'ennesimo editoriale/retroscena di Massimo Giannini, il vicedirettore del Repubblica, quindi non proprio l'ultimo arrivato, non l'inesperto stagista.

Nella lettera il giornalista viene accusato di aver dato «una versione arbitraria e falsa dell'incontro» tra il presidente della Repubblica e il segretario e i capigruppo uscenti del Pdl tenutosi martedì al Quirinale. E' «falso - tuona Napolitano - che mi siano stati chiesti "provvedimenti punitivi contro la magistratura": nessuna richiesta di impropri interventi nei confronti del potere giudiziario mi è stata rivolta». «Né la delegazione del Pdl - aggiunge - mi ha "annunciato" o prospettato alcun "Aventino della destra"». Con l'aggravante che un comunicato ufficiale del giorno stesso aveva già chiarito tutti questi aspetti. «Comunicato che Giannini - rincara Napolitano - ha ritenuto di poter di fatto scorrettamente smentire sulla base di non si sa quale ascolto o resoconto surrettizio».

Il capo dello Stato imputa a Giannini, in una suprema sintesi dell'essenza dell'antiberlusconismo, una «tendenziosità tale da fare il giuoco di quanti egli intende colpire». E poi la chiusura della lettera, dalla quale ricaviamo l'impressione che per Napolitano i «sediziosi» di cui ha parlato il vicedirettore di Repubblica non militano solo nel campo berlusconiano ma anche in altri campi: nella magistratura, per esempio, nella stampa e nei partiti di sinistra. «Mi auguro che da parte di Giannini, anziché deplorare aggressivamente il Capo dello Stato per non avere manifestato lo "sdegno" e la "forza" che il bravo giornalista avrebbe potuto suggerirgli, ci siano in ogni occasione rigore e zelo nei confronti di tutti i sediziosi, dovunque collocati e comunque manifestatisi». Che Napolitano abbia voluto dare dei «sediziosi» anche ai "bravi" giornalisti di Repubblica è una lettura troppo maliziosa?

Nella sua controreplica Giannini ricorre al più classico rigirare la frittata: «Non dubitiamo», esordisce, che sia andata come dice il presidente, ma anziché dare spiegazioni nel merito della versione «arbitraria e falsa» da lui maliziosamente suggerita nel pezzo incriminato, risponde come se si fosse trattato di una sua semplice analisi politica sulla base di concetti «già espressi pubblicamente» dal Pdl, e che hanno fatto da «sfondo all'incontro», e di sue «impressioni» sul «comunicato dell'altroieri» del Quirinale. In realtà, come chiunque può verificare, nel suo editoriale/retroscena Giannini ha tratto il suo severo giudizio politico fondandolo su precise richieste e assicurazioni formulate tra il presidente e i vertici del Pdl durante l'incontro, da lui riportate come se ne fosse venuto a conoscenza: richieste e assicurazioni che Napolitano ha smentito di aver ricevuto e dato.

Il vicedirettore di Repubblica, colto in fallo, non può cavarsela come se le sue fossero solo deduzioni sulla base di un comunicato, mentre ha surrettiziamente lasciato intendere ai lettori una vera e propria versione dei fatti. Ora, delle due l'una: o Giannini cita una fonte, anche anonima, per confermare la sua versione, oppure bisogna concludere che si è inventato ciò che il Pdl avrebbe chiesto al presidente e ciò che questi avrebbe assicurato.

Cosa dicono i colleghi giornalisti? Se il vicedirettore di Repubblica non dà spiegazioni e resta al suo posto dopo una tale smentita da parte della più alta carica istituzionale del paese e nessuno dice niente, come si può, da quegli stessi pulpiti, fare la morale ai politici? E' così assurdo pensare che Giannini debba dimettersi? O forse inventarsi i pezzi fa parte del mestiere, tanto così fan tutti? Perché nessuno s'indigna e chiede le dimissioni di Giannini, sbugiardato niente meno che da Napolitano? Omertà tra colleghi di casta o semplice assuefazione alle peggiori pratiche della professione?

Wednesday, March 13, 2013

Napolitano offre al Pd la linea anti-Bersani

E' il vero leader dell'opposizione interna e persegue il "piano B" che il Pd non osa proporre

Anche su Notapolitica e L'Opinione

A qualcuno dalle parti del Pd, in certe redazioni e in certe procure, sarà andata di traverso la cena. Le più ampie «valutazioni» preannunciate dal presidente Napolitano al termine del suo incontro con il segretario e i capigruppo del Pdl sono andate al di là di quanto ci si potesse attendere, per la severità dei moniti non solo nei confronti del partito di Berlusconi ma anche della magistratura e del Pd.

Il capo dello Stato non si è limitato al solito richiamo al comune e generale senso di responsabilità affinché non si alimenti ulteriormente il conflitto tra politica e giustizia. Né si è limitato a riaffermare da una parte l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, dall'altra la libertà di espressione di ogni dissenso. Oltre al «rammarico» per la «manifestazione politica senza precedenti all'interno del palazzo di giustizia di Milano», ha ammonito che «il più severo controllo di legalità è un imperativo assoluto per la salute della Repubblica da cui nessuno può considerarsi esonerato in virtù dell'investitura popolare ricevuta». Ma «con eguale fermezza» ha esortato i magistrati a dimostrare «grande attenzione», nelle prossime settimane, in modo da evitare «interferenze tra vicende processuali e vicende politiche», e ha sollecitato «il rispetto di rigorose norme di comportamento da parte di quanti sono chiamati a indagare e giudicare, guardandosi dall'attribuirsi missioni improprie e osservando scrupolosamente i principi del giusto processo sanciti fin dal 1999 nell'art. 111 della Costituzione con particolare attenzione per le garanzie da riconoscere alla difesa».

Fin qui, dunque, richiami molto espliciti indirizzati a Berlusconi e ai magistrati sui rispettivi ruoli e responsabilità. Ma nelle sue valutazioni Napolitano si è spinto fino al cuore dell'impasse politico di questo momento.

Giudicando «comprensibile la preoccupazione dello schieramento che è risultato secondo, a breve distanza dal primo, nelle elezioni del 24 febbraio, di veder garantito che il suo leader possa partecipare adeguatamente alla complessa fase politico-istituzionale già in pieno svolgimento, che si proietterà fino alla seconda metà del prossimo mese di aprile», Napolitano sta dicendo chiaro e tondo che a Berlusconi dev'essere «garantita» la possibilità di «partecipare adeguatamente» sia alla fase delle consultazioni per la formazione del nuovo governo che al processo di elezione del nuovo presidente della Repubblica. Alla luce dell'esito incerto del voto, ma «soprattutto per l'estrema importanza e delicatezza degli adempimenti istituzionali che stanno venendo a scadenza, occorre evitare tensioni destabilizzanti per il nostro sistema democratico». Anche al presidente quella in atto da parte di certi pm sembra una corsa per mettere fuori gioco Berlusconi dalle trattative per il nuovo governo e il nuovo presidente. Ai magistrati, dunque, quasi un invito a soprassedere dal disporre misure eclatanti (condanne o richieste d'arresto) nei confronti di Berlusconi, o a rinviarle, e al Pd un messaggio: non pensi di escludere a priori qualsiasi dialogo con il Pdl in vista di «adempimenti» che «chiamano in causa ed esigono il contributo di tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento, e in particolar modo di quelle che hanno ottenuto i maggiori consensi».

E se per Napolitano «non è da prendersi nemmeno in considerazione l'aberrante ipotesi di manovre tendenti a mettere fuori giuoco - "per via giudiziaria", come con inammissibile sospetto si tende ad affermare - uno dei protagonisti del confronto democratico e parlamentare nazionale», il solo avervi accennato come ipotesi «aberrante» suona anche come monito nei confronti di coloro i cui comportamenti potrebbero avvalorare questo «inammissibile sospetto».

A giudicare dalle parole del coordinatore della segreteria Migliavacca, secondo cui il partito sarebbe pronto a votare a favore di una eventuale richiesta di arresto di Berlusconi, il Pd sarebbe esattamente agli antipodi rispetto alle raccomandazioni di Napolitano. Al di là del merito, è evidente infatti che si tratta proprio del tipo di dichiarazioni incendiarie che alimentano le «tensioni destabilizzanti» che il presidente aveva pregato di evitare e che presuppongono la volontà di escludere dai prossimi «adempimenti istituzionali» una delle forze politiche che ha ottenuto i maggiori consensi.

Preannunciare il sì del Pd all'arresto di Berlusconi, magari nell'illusione di compiacere Grillo, è doppiamente irresponsabile, dal momento che si tende a dare ormai per scontata una richiesta che ancora non c'è, dando quasi l'impressione di invocarla. E i media amplificano: il dibattito sul sì o no all'arresto lascia intendere all'opinione pubblica che già ci sia una richiesta dei pm in tal senso. E che il sì (preventivo, senza nemmeno aver visto le carte) all'arresto sia l'unico punto di accordo finora tra Pd e Grillo, non fa che rendere ammissibile quel sospetto che Napolitano vorrebbe resti «inammissibile», cioè «l'aberrante ipotesi» dell'eliminazione per via giudiziaria di Berlusconi.

Finora nel Pd restano tutti coperti e allineati dietro Bersani, la cui linea (prendersi il Quirinale grazie ad un premio di maggioranza che ha trasformato il 29% dei voti nel 55% dei seggi della Camera ed entrare a Palazzo Chigi senza maggioranza o tornare subito al voto) se fosse stata solo immaginata da Berlusconi si sarebbe già gridato al golpe e avremmo stampa, tv e piazze "democratiche" mobilitate. Ma probabilmente per conoscere le reali intenzioni del partito bisognerà aspettare che Bersani vada a sbattere: o contro il M5S in Senato, o contro il Quirinale. Potremmo allora scoprire che in questa fase di falso "unanimismo" nel Pd, Napolitano è di fatto il vero leader dell'opposizione interna a Bersani; che piuttosto che sfidare apertamente la linea avventurista del segretario, spaccando il partito, molti esponenti preferiscono lasciare al presidente l'onere, politicamente scomodo, di far uscire allo scoperto, quindi di tentare, l'unico "piano B" disponibile per uscire dal vicolo cieco in cui il Pd ha cacciato se stesso e il paese: coinvolgere Berlusconi e il Pdl negli «adempimenti istituzionali che stanno venendo a scadenza».

Monday, March 11, 2013

Lo spericolato all-in del Pd

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Se siamo di fronte ad uno spericolato azzardo sulla pelle del paese, o ad un patetico bluff, lo scopriremo solo tra qualche settimana. Sta di fatto che al momento il Pd sembra marciare senza esitazioni, temerario, sul sentiero indicato dal suo segretario e dal gruppo dirigente, almeno per ora compatto dietro di lui. Dalle urne non è uscita una mano vincente, le sue carte non sono buone, ma il Pd sembra deciso a rilanciare, ad andare in "all-in", ad ottenere l'intera posta in gioco nonostante una posizione precaria, se non di debolezza: Quirinale prima e Palazzo Chigi poi, passando per nuove elezioni, anche a giugno. Confidando che nel frattempo Berlusconi sia stato fatto fuori per via giudiziaria e che gli elettori di sinistra capiranno, e sanzioneranno l'ostinazione di Grillo.

Eccoli i passaggi della spericolata manovra di Bersani: ottenere da Napolitano l'incarico esplorativo per portare a termine il tentativo con il M5S. Se andrà a buon fine (il che ad oggi appare quasi fantapolitica), tanto meglio. Altrimenti, avrà comunque guadagnato tempo: più giorni passano, infatti, più ci si avvicina alla prima seduta del Parlamento per l'elezione del prossimo presidente della Repubblica (15 aprile). Napolitano quindi avrebbe tempi al quanto ristretti per imbastire un percorso alternativo per la formazione di un governo, che verrebbe ulteriormente ostacolato dalla vera e propria tempesta giudiziaria che si sta abbattendo su Silvio Berlusconi. Fallito il tentativo con Grillo, infatti, proprio il Cav dovrebbe tornare ad essere un interlocutore del Pd, a partire dalla scelta del nuovo inquilino del Colle. Il calcolo di Bersani è che ormai vicino alla scadenza del suo mandato, e con il leader del centrodestra sempre più fuori gioco, Napolitano non possa far altro che gettare la spugna, rinunciare a far dialogare Pd e Pdl - anche se per interposta figura tecnica e super partes - e passare la pratica al suo successore, che concederebbe facilmente, e rapidamente, il ritorno alle urne.

Ma nuove elezioni a giugno sarebbero un azzardo totale. E' possibile, infatti, e in ciò confidano Bersani e i suoi, che molti elettori abbiano votato Grillo solo per protesta, e quindi di fronte alla possibilità concreta che abbia i numeri per andare al governo, non riconfermino il loro voto. Ma è anche possibile che invece lo "tsunami" grillino non sia destinato a ritirarsi così presto e che, anzi, il successo di febbraio e l'arroganza del Pd convincano un numero ancora maggiore di elettori a voler dare la spallata finale al vecchio sistema dei partiti. Certo, molto dipenderebbe anche dal nome del candidato premier del centrosinistra, ma la partita non sarebbe priva di insidie nemmeno per Renzi. Se si vota a giugno, infatti, non è scontato che si facciano le primarie e, se si fanno, che siano una passeggiata per il giovane sindaco, che continua ad essere considerato poco meno di un cripto-berlusconiano da gran parte della base del suo partito.

Non è da escludere, tuttavia, l'ipotesi che quello di Bersani sia solo un patetico bluff, nel quale il segretario è l'unico o quasi del suo partito a credere. E che una volta andato a sbattere contro il muro di Grillo, possa iniziare una fase politica del tutto nuova. O che sia ancora una volta una fiammata dello spread a far naufragare tutti i sogni di autosufficienza del Pd.

Desta più di qualche perplessità che Bersani, che in campagna elettorale aveva assicurato di voler governare come se avesse il 49%, oggi si ostini a portare avanti un'operazione spregiudicata per prendersi tutto (Quirinale e Palazzo Chigi) con il 25% dei consensi sul 72% dei voti espressi, ossia poco più del 18% dell'elettorato. Ma nessuno sembra più fare caso all'effetto perverso di un premio di maggioranza che aveva senso, e non era affatto scandaloso, in un contesto fortemente bipolare (nel 2008 il centrodestra vinse con quasi il 47% e nel 2006 entrambe le coalizioni superarono il 49%), ma che oggi - nel silenzio generale - attribuisce il 55% dei seggi della Camera ad una coalizione che non ha raggiunto il 30% dei voti, producendo un esito pericolosamente vicino a quello della Legge Acerbo.

Se Berlusconi avesse prevalso di uno 0,34% e avesse solo considerato l'operazione che sta tentando oggi Bersani (prendersi il Quirinale, sciogliere le Camere e tornare al voto), avremmo stampa, tv e piazze democratiche mobilitate in difesa della democrazia minacciata dal Caimano.

Thursday, March 07, 2013

Ostaggi dello psicodramma della sinistra

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Il nostro paese, tutti noi, siamo ostaggi di uno psicodramma tutto interno alla sinistra e di una scissione latente nel Pd che è sul punto di esplodere. Attenzione: con questo non intendo affatto sostenere che il centrodestra, e il Pdl, godano di ottima salute. Anzi. Ma il loro problema rientra in qualche modo nella "normalità". Dopo un'esperienza di governo fallimentare, durante la quale hanno smarrito i punti cardinali della propria visione economica, dopo scandali e malversazioni, e nel pieno di una crisi della leadership (forse il centrodestra ancora non può fare a meno di Berlusconi, ma con lui può solo limitarsi a resistere, non può andare oltre il 29-30%), ci sta un risultato non esaltante, una sconfitta elettorale, seppur di misura, e un passaggio all'opposizione.

E' patologico, invece, che il centrosinistra abbia mancato di parecchi milioni di voti un risultato che le avrebbe permesso di governare il paese. Come si può facilmente constatare dai passaggi politici di questi giorni, lo stallo politico-istituzionale nel quale ci troviamo è dovuto essenzialmente ai due complessi storici della sinistra, e del suo principale partito: il Pd.

Il primo sta nell'incapacità di battere politicamente i suoi avversari, anzi di concepirne l'esistenza stessa, da cui seguono i continui tentativi di marginalizzarli o riassorbirli. In un paese "normale", in una tale situazione di impasse si darebbe vita ad una "grande coalizione", a un governo di unità nazionale o di scopo, per lo meno per il tempo necessario a realizzare 2/3 riforme volte a far funzionare meglio la nostra democrazia e, subito dopo, tornare al voto. E' evidente che uno scambio doppio turno-presidenzialismo tra Pd e Pdl potrebbe in pochi mesi ripristinare legittimazione democratica degli eletti e governabilità. La mancanza di stabilità politica, infatti, danneggia tutti gli italiani, senza distinzioni, rendendoci deboli al cospetto di democrazie europee più solide come Germania e Francia. Anche in presenza di un esito elettorale incerto come questo, infatti, se Bersani fosse stato eletto direttamente oggi potrebbe comunque varare un governo e cercare di volta in volta la maggioranza al Senato, come Crocetta all'Assemblea regionale siciliana.

Perché in Italia non è possibile ciò che in altri grandi paesi democratici sarebbe considerato "normale"? Massimo D'Alema in direzione ha parlato della necessità di «liberarci dal complesso, dall'ossessione, dalla malattia psicologica dell'inciucio», aggiungendo però che «l'impedimento» è Silvio Berlusconi, quindi ricadendo lui stesso nel "complesso". E' ovvio: se passi vent'anni a demonizzare Berlusconi, e a raccontare che la nostra è la Costituzione «più bella del mondo», poi è difficile spiegare ai tuoi militanti, ai tuoi elettori, che ora bisogna accordarsi con il "nemico" per cambiare regole del gioco che fino al giorno prima si presumevano perfette. Che si trovasse al governo o all'opposizione, ogni volta che si è presentata l'occasione di discutere di riforme costituzionali, la sinistra – politica e intellettuale – ha sempre respinto ogni ipotesi di rafforzamento dei poteri dell'esecutivo e di elezione diretta del presidente della Repubblica o del premier come una deriva "golpista", un disegno autoritario, erigendo sulla Costituzione un vero e proprio tabù, e denunciato come "inciucio" qualsiasi intesa con Berlusconi, anche solo sulle regole. E naturalmente il circuito mediatico-giudiziario ancora oggi non aiuta.

L'unica destra con la quale ci si potrebbe accordare per il Pd è una destra "deberlusconizzata". Ma Berlusconi è solo un alibi. In realtà, la sinistra demonizzerebbe qualsiasi leader in grado di coalizzare un centrodestra capace di batterla. Quindi l'unica destra "buona" per il Pd sarebbe una destra subalterna, sconfitta in partenza perché isolata e minoritaria. Ma a quel punto non ci sarebbe alcun bisogno di accordarsi con essa per le riforme, e men che meno per un governo di unità nazionale.

Anche in questa fase il Pd di Bersani si preoccupa più di marginalizzare il centrodestra che di approfittare di questo momento di stallo per garantire al paese istituzioni più forti e regole del gioco più efficaci attraverso riforme condivise. Il tentativo di Bersani con i grillini sembra soprattutto una manfrina per guadagnare tempo. Se va in porto, tanto meglio. Ma la sensazione è che il vero obiettivo sia un altro. Più tempo passa, infatti, più si avvicinano le sedute per eleggere il nuovo capo dello Stato, e quindi si riducono i margini di Napolitano per escogitare una soluzione che implichi una qualche forma di intesa tra Pd e Pdl, che per il Pd vorrebbe dire dialogare con il "giaguaro" innanzitutto sulla scelta del nuovo inquilino del Colle. Fallito il tentativo con Grillo, a Napolitano non resterebbe molto tempo per imbastire qualcosa e dovrebbe passare la palla al suo successore, che non avrebbe alcun impedimento a sciogliere subito le Camere. Il Pd intanto si assicurerebbe un altro "compagno" al Quirinale, con il 25% dei voti e isolando il Pdl, e potrebbe incolpare Grillo delle elezioni anticipate.

Anche alla propria sinistra il Pd è incapace di battere politicamente movimenti o partiti concorrenti, quindi tende a riassorbirli come "costole". E qui veniamo al secondo "complesso", che riguarda gli elettori di sinistra, i quali in gran parte non sono affatto interessati a governare il paese all'interno dei paletti della democrazia rappresentativa e delle regole minime di un'economia di mercato. Vengono quindi attratti da un'opposizione anti-sistema, dalla quale possono comodamente esercitarsi nella protesta permanente contro "l'ingiustizia sociale" e continuare a sognare il sovvertimento delle strutture economiche e sociali.

Il prevalere della linea identitaria rappresentata da Bersani-Vendola (al centro avrebbe provveduto la "stampella" Monti) doveva servire a tenere finalmente unita la sinistra. Ma qualcosa non ha funzionato, la malattia si è aggravata. E stavolta si è divisa non al governo, in Parlamento, come nel 1996 e nel 2006, ma già nelle urne. Di fronte alla prospettiva di un governo Bersani aiutato da Monti, molti elettori sono fuggiti verso Grillo. Una scissione latente, nell'elettorato prim'ancora che nella classe dirigente del Pd, che un'eventuale leadership di Renzi potrebbe a questo punto non bastare a scongiurare. Di sicuro il Pd si è presentato a quest'appuntamento non avendo ancora risolto il problema della sua identità. E' ancora intimamente lacerato tra un'idea di sinistra riformatrice e di governo, minoritaria, e un'idea, prevalente, di sinistra identitaria, che vorrebbe essere sia di lotta che di governo.

Le "macerie" in cui ci aggiriamo, per usare un termine caro a Grillo, non sono il prodotto di vent'anni di autoritarismo berlusconiano, né di "liberismo", come direbbe Vendola, ma dell'esatto contrario, cioè dell'incapacità della classe politica di prendere decisioni, soprattutto di completare dal punto di vista costituzionale il passaggio alla Seconda Repubblica. Dopo vent'anni di antiberlusconismo, quindi di mancate intese sull'aggiornamento delle regole del gioco, siamo arrivati al dunque: o la sinistra si sblocca, e accetta di parlare con i rappresentanti che gli elettori di centrodestra si sono scelti, per aggiustare la nostra democrazia, oppure rischiamo di avvitarci in una spirale di ingovernabilità da cui possono trarre forza solo movimenti anti-sistema.

Tuesday, March 05, 2013

Siamo i grillini e proponiamo cose un sacco belle

Il grillismo? Subculture sinistroidi 2.0

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La presentazione - innanzitutto tra di loro, dal momento che in pochi si conoscevano - degli eletti del Movimento 5 Stelle alla Camera e al Senato, ieri in un hotel romano (qui il video), è stata l'occasione per capire non tanto come sia stato possibile che 8,7 milioni di italiani li abbiano votati, ma la natura, l'identità politica del movimento, poiché forse mai come in questo caso tra eletti e militanti da una parte, ed elettori dall'altra, esiste una distanza abissale, a livello quasi antropologico. Dei candidati, infatti, prima di oggi non si sapeva nulla, totalmente oscurati dalle performance di Beppe Grillo. Presentazioni individuali brevi, va detto, poche parole per descrivere se stessi, la propria attività e i propri interessi, il settore di cui ci si vorrebbe occupare in Parlamento, il tutto in perfetto stile alcolisti anonimi ("Ciao, sono tizio, mi occupo di... potrei contribuire a...").

Premettiamo subito che il problema non è quanto siano apparsi ingenui ed inesperti i neo-parlamentari grillini. Probabilmente tutti i loro predecessori lo erano, la prima volta. A sorprendere in negativo è il modo in cui non sanno descrivere loro stessi, usando definizioni standardizzate da curricula scritti male. Per non parlare della quantità di banalità, di rimasticature ideologiche, presentate con le capacità espositive, le perifrasi e la mimica tipiche delle assemblee liceali, l'astrattezza di chi tanto non deve rendere conto a nessuno delle sue sparate, ma anche con la sicumera di chi è convinto di saperne più di tutti per il solo fatto di avere un pezzo di carta in tasca e di "occuparsi" - non si sa bene a che titolo, se per hobby o poco più - di quella tal materia.

"Parlo tre lingue, studio la quarta e quindi mi candido automaticamente alla commissione esteri"; "Vorrei portare la mia passione per il web e anche per la musica"; "Sono sommelier, quindi mi occuperò di agricoltura"; "Mi vorrei occupare di trasporti pubblici e come concetto la manutenzione attuarla per l'acqua pubblica"; "Oltre a lavorare sul lavoro mi piace molto il settore dei servizi sociali e se c'è bisogno anche la sanità"; "Mi piacerebbe occuparmi sia di sociale sia di giustizia"; "Vado in bici e vorrei che si potesse andare dall'aeroporto a Montecitorio in bicicletta"; "Sono vegano, 'disiscritto' dalla Chiesa cattolica". Sono solo alcune delle perle che ci è capitato di ascoltare.

"Mi occupo di" è la frase standard utilizzata per presentarsi. Sintomatica di una certa faciloneria: questi eletti grillini non lavorano, non fanno, non sono, ma si "occupano di...". Si "occupano" tutti di un sacco di cose buone e belle, ma in pochi dicono che lavoro fanno, di cosa campano, citando un impiego, una mansione, una posizione o un profilo professionale. Della serie, "vogliamo fare cose un sacco buone e un sacco genuine". Già, sembrava di assistere alla famosa scena del film di Verdone "Un sacco bello", in cui il giovane neo-hippy Ruggero, al cospetto del papà Mario (Mario Brega) e di padre Alfio, prova a spiegare l'attività della sua comune:
«Cioè, siamo un gruppo di ragazzi no, che stanno fondando una comunità agricola no, cioè come alternativa all'inquinamento urbano, cioè inteso non soltanto come scorie eccetera, no, cioè inteso anche come inquinamento morale capito in che senso? (...) Cioè allora, mentre le ragazze provvedono alla raccolta dei frutti naturali della terra no, tipo carciofi, ravanelli, insalata, piselli no, tutta robbba vegetale un sacco bbuona no, noi ragazzi invece provvediamo così alla dimensione artigggianale no, cioè tutti lavoretti così in ceramica, in cuoio no, così eccetera no, per sentirci in noi stessi in quanto entità fisico psichica a contatto con gli altri no, cioè in questo mondo cosmico pantistico naturalistico no, cioè un mondo in cui è l'amore che vince e il male che perde no, cioè un modo in cui veramente domina la fratellanza no».
Ovviamente un paragone spiritoso, da non prendere alla lettera, ma il miscuglio di subculture politiche, proposte e teorie strampalate tra l'ingenuo e il complottistico, espresso dall'assemblea grillina rimanda all'idea di un mondo pre-industriale e fortemente comunitario, in piena armonia con la natura, proprio come veniva descritto dal mitico personaggio di Verdone nei lontani anni '80.

L'ambientalismo ideologico (niente discariche né inceneritori, no alle centrali a biomassa), l'antimilitarismo, l'animalismo, le energie alternative, il "Nimby", ma anche i concetti-chiave della sinistra statalista e politicamente corretta: scuola pubblica, sanità pubblica, acqua pubblica, lotta alla precarietà, reddito di cittadinanza, "il sociale" e il "bene comune", la giustizia. E' proprio questa una delle più grandi contraddizioni di fondo del movimento di Grillo: voler spezzare le catene dell'ingiustizia, estirpare la corruzione, la mala politica, con più Stato, più "pubblico", quindi inevitabilmente più politica, come in una sorta di sindrome di Stoccolma.

C'è il problema dei rifiuti? Semplice, si risolve non producendoli, non consumando. C'è il problema del debito? Si può non ripagarlo, o rinegoziarlo, e al limite uscire dall'euro, perché no? C'è il problema di come far ripartire l'economia? Ecco che viene in soccorso la teoria della "decrescita felice". Non vorremmo ricorrere a paragoni sotto molti aspetti inappropriati e certamente esagerati - ce ne rendiamo conto - ma come nei movimenti totalitari della prima metà del '900, anche nel M5S convivono da una parte il rifiuto del progresso, economico e tecnologico, il mito di uno stile di vita pre-industriale, anti-consumistico e anti-materialista, persino l'eco di valori contadini, e dall'altra un approccio fideistico alle tecnologie di ultima generazione - legate al web, alle energie alternative e alla tutela dell'ambiente - con le quali l'umanità sarebbe in grado di auto-rigenerarsi.

Diversamente dai comizi in campagna elettorale, in cui Grillo ha astutamente toccato il tema dell'oppressione fiscale e della burocrazia statale, ieri nelle autopresentazioni dei grllini non abbiamo mai udito pronunciare le parole "tasse" e "spesa pubblica", e molto pochi sono stati persino gli accenni ai vizi della casta, per esempio all'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti.

In generale il M5S - guardando agli eletti, non agli elettori - sembra il frutto della cultura anti-capitalista, antagonista, altermondista e assemblearista, no global, che la sinistra italiana, politica e intellettuale, ha coltivato e diffuso per decenni, vezzeggiandone leader e movimenti. Vi si ritrovano tutte le subculture impugnate – in sostituzione dell'ideologia comunista, ormai uscita sconfitta dalla storia – per combattere il capitalismo e qualsiasi sua "sovrastruttura", democrazia rappresentativa compresa.

Negli eletti grillini (quasi tutti laureati) vediamo probabilmente arrivare a maturazione i decenni di sfascio e fallimento del sistema educativo-universitario italiano così come la sinistra l'ha voluto e difeso. Molti, infatti, i laureati in materie tecnico-scientifiche – ingegneri ambientali, informatici, fisici, biologi – ma anche umanistiche, come lettere antiche, scienze dell'educazione e della comunicazione, psicologia. Ma colpisce di questo esercito di laureati la loro incapacità ad esprimersi, quasi al livello di disadattati, il loro totale analfabetismo economico e costituzionale, la frustrazione, probabilmente insopportabile, nel riscontrare come il loro campo di studi sia poco spendibile nel mercato del lavoro.

Ascoltandoli, ieri, veniva quasi da chiedergli, come lo strepitoso Mario Brega di "Un sacco bello": «Vabbè ma che sete... 'na setta, 'na tribbù, i carbonari, i masoni, ma che sete aho!?». Ci vuole qualcuno che abbia il coraggio di sfidare il politicamente corretto e dire "no, grazie, ci teniamo i politici che abbiamo, Scilipoti compresi".