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Wednesday, September 04, 2013

In gioco il diritto alla guerra "giusta"

Anche su L'Opinione

E' stato l'agire incerto e maldestro di Obama, privo di un'idea precisa sul ruolo da giocare in Medio Oriente fin dall'inizio di questa delicata fase di transizione, ad esporre gli Stati Uniti al rischio di un clamoroso smacco politico e diplomatico nella crisi siriana. Ma paradossalmente, proprio quando è apparso chiaro che in gioco non c'erano più solo la sua faccia e l'intervento in Siria, bensì la credibilità degli Stati Uniti stessi, la loro capacità di deterrenza, Obama è riuscito ad uscire dall'angolo in cui si era infilato. Chiamando in causa il Congresso, con una mossa azzardata ma a quel punto obbligata, ha reso ancor più evidente la posta in gioco e i leader repubblicani non hanno potuto far altro che venire in soccorso del presidente, se non altro per amor di patria. Sulle questioni di sicurezza e di prestigio nazionale l'America si conferma unita. L'accordo raggiunto al Senato per una risoluzione bipartisan sull'intervento consente a Obama di presentarsi con maggiore forza di fronte al G20, e di fatto riapre uno spiraglio diplomatico per tentare di costruire una qualche forma di consenso internazionale sulla necessità di sanzionare con le bombe il regime siriano.

Anche il presidente russo Putin non ha potuto escludere l'approvazione di una risoluzione Onu sulla Siria, nel caso venissero mostrate prove "inconfutabili" dell'uso di armi chimiche da parte di Assad. Ma ovviamente la sua è un'apertura destinata a restare puramente teorica, persino se fosse il dittatore siriano in persona ad ammetterlo.

La posizione di Obama quindi resta molto critica. Anche perché le incertezze e i segni di debolezza mostrati fino ad oggi, così come l'ignavia dell'Europa, non l'aiuteranno a convincere Russia e Cina, che anzi già pregustano lo smacco, e l'ulteriore indebolimento di Washington. E John McCain nel frattempo si è dissociato dall'intesa bipartisan, annunciando che voterà contro la bozza preparata al Senato, la cui approvazione quindi è tutt'altro che scontata. L'anziano senatore, e fiero avversario di Obama nella campagna del 2008, ritiene tempi e modalità dell'intervento inefficaci a provocare un cambio di regime a Damasco, obiettivo che invece sosterrebbe.

In effetti, oltre ad essere tardivo e preparato in modo approssimativo a livello diplomatico, dell'intervento delineato dalla Casa Bianca è davvero difficile scorgere logica e obiettivi politici, il disegno di lungo termine. Somiglia più ad un fallo di frustrazione dell'amministrazione Obama per coprire l'ennesimo fallimento della sua non-strategia, il cosiddetto "leading from behind". Anche in caso di caduta di Assad, Washington sembra comunque intenzionata a restare defilata nella gestione post-conflitto, come già in Egitto e Libia. Se si tratta di un attacco dimostrativo, utile solo a Obama per salvare la faccia di fronte ai massacri di civili, e come contentino all'Arabia Saudita, allora le perplessità sono più che legittime. Se l'obiettivo invece è il regime change, l'intervento dovrebbe puntare almeno all'uccisione di Assad, o a farlo cadere, ma bisogna anche avere un piano per un impegno deciso e duraturo volto a favorire un nuovo ordine in Medio Oriente, non per defilarsi e delegare tutto ai sauditi non appena caduta l'ultima bomba.

Il fallimento di Obama è non avere una visione di politica estera, ma agire opportunisticamente, subendo gli eventi anziché cercando di influenzarli. Non ha un piano, ma solo potenziali problemi di immagine su cui mettere una frettolosa toppa. La sensazione è che questo attacco gli serva per rispondere a chi lo accusa di essere rimasto indifferente ai massacri, per far vedere di averci provato. Ma non affronta le sfide, fa "spin doctoring".

Bisogna tuttavia considerare che per quanto privo di un piano e di una visione strategica, a questo punto, dopo le parole del segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon («l'uso della forza è legale solo se autorizzato da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu») e quelle di Papa Francesco (a proposito, perché solo ora preghiere e digiuni, dopo due anni di guerra, massacri e innocenti gasati in Siria?), l'intervento avrebbe anche il valore politico non trascurabile di riaffermare che si può – e in alcuni casi si deve – agire anche unilateralmente, senza subire veti da Russia, Cina e Iran, né il ricatto morale del pacifismo ipocrita. Di riaffermare il diritto/dovere alla guerra "giusta", oggi contestato fin nel suo principio umanitario.

Mentre Obama pretende di presentare il suo "case for war" in Siria in modo molto diverso dal caso iracheno («io ero contrario alla guerra in Iraq e non voglio certo ripeterne gli errori»), non stupisce che i suoi argomenti siano così simili a quelli usati proprio da George W. Bush dieci anni fa, a cominciare dal possesso e l'uso delle famose armi di distruzione di massa. Obama esprime rispetto per il ruolo dell'Onu e degli ispettori, ma ribadisce di fidarsi delle informazioni raccolte e si riserva il diritto di agire anche da solo nell'interesse e per la sicurezza degli Stati Uniti. Mette in guardia, poi, dai costi del non agire: «La nostra sicurezza di lungo periodo è minacciata dall'ignorare situazioni come quella siriana». Ricorda che tutte le vie diplomatiche sono state esplorate e che, alla fine, contro i "bulli" servono azioni decise. «Possiamo cercare una nuova risoluzione Onu, ma non sempre il Consiglio potrà agire, e agire si deve – osserva – è in gioco la credibilità della comunità internazionale». «Amiamo la pace, ma bisogna fare i conti con un mondo pieno di violenza e a volte anche di male, e dobbiamo assumerci le nostre responsabilità».

Un déjà vu, insomma. Davanti agli stessi dilemmi – il possesso e l'uso di armi di distruzione di massa da parte dei dittatori; la paralisi del Consiglio di Sicurezza Onu, sotto il ricatto dei veti di Russia e Cina; il pantano mediorientale; la necessità di tutelare la credibilità e il potere di deterrenza, oltre che la sicurezza, degli Usa – ecco che nelle parole di Obama si avverte l'eco dell'odiato Bush.

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