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Thursday, April 05, 2012

La giornata: l'addio di Bossi e la non riforma che smaschera il Bluff-Italia

La notiziona del giorno sono senz'altro le dimissioni di Bossi (al suo posto il triumvirato Maroni-Calderoli-Dal Lago), che chiudono un'era politica, anche se quella che si apre non è detto abbia le caratteristiche del nuovo che avanza. Evito di riportare particolari che troverete su siti molto più autorevoli, e mi limito a un interrogativo e ad una considerazione. Mi e vi chiedo: come mai, se i beneficiari della truffa e dell'appropriazione indebita contestate al tesoriere della Lega Belsito sono Bossi e i suoi figli, non risultano ancora indagati? Una curiosa anomalia. La riflessione - amara - è che in Italia funziona così il ricambio delle classi dirigenti: tutti hanno scheletri negli armadi; quando è ora di sbarazzarsene, basta passare le chiavi alla magistratura. Chi sarà stato in questo caso? Ovvio che i sospetti si concentrino su Maroni, ex ministro degli interni. Nel caso di Bossi, inoltre, si ha la triste impressione che dopo la malattia qualcuno (anche in famiglia) se ne sia approfittato, ma questo sarà il processo a stabilirlo. Di certo non mi unisco allo sport nazionale: Piazzale Loreto.

Oscurati dallo tsunami in casa Lega lo spread, che torna a salire a livelli angoscianti, e le polemiche sulla riforma del lavoro. Monti non ha mai detto che la crisi è finita, ma come lui stesso ha precisato ieri in conferenza stampa, che la crisi dell'Eurozona era superata. Ecco, anche questa affermazione è stata in poche ore smentita, ma dai fatti. E' la febbre spagnola stavolta a tirare su lo spread (fino a 400), portandosi dietro Italia (369) e Francia (113). Ma non è escluso che il cedimento del governo sulla riforma del lavoro abbia potuto già influire sui mercati. Rispetto ai giorni scorsi, infatti, il differenziale tra i nostri btp e i bonos spagnoli si è ridotto da 40 a 30 punti, con minimi di giornata di 26.

Reintegro solo in casi «molto estremi e improbabili», assicura il premier sull'articolo 18. Ma è sempre stato così, non era (e non è) questo il punto. Il problema è l'incertezza, l'aumento dei ricorsi, la discrezionalità dei giudici. E a pensarlo non sono solo liberisti "selvaggi" come l'Istituto Bruno Leoni («rende solo più oneroso il lavoro flessibile, senza ridurre i costi del lavoro a tempo indeterminato») e Oscar Giannino («resta tutto il giro di vite alla flessibilità in entrata, mentre il giudice con la sua piena discrezionalità domina in ogni forma di licenziamento»), ma anche Tito Boeri («con le ultime correzioni la riforma dà ancora più poteri ai giudici. Aumenterà l'incertezza») e Linkiesta («i ricorsi ricominceranno a moltiplicarsi. E tanti saluti alla certezza e celerità del diritto, di cui investitori e lavoratori davvero avrebbero bisogno»), così come Pietro Ichino, di nuovo sconfitto nel suo partito («colpisce che il Pd abbia accettato di sacrificare gli interessi di un milione e mezzo di outsiders "collaboratori" pur di recuperare un pezzetto della job property degli insiders subordinati regolari»).

E scopriamo oggi che il ddl contiene anche una nuova stangata fiscale per finanziare la riforma (oltre 20 miliardi di euro preventivati per il periodo 2014-2021): 2 euro in più di diritti d'imbarco sugli aerei; dieci punti in più di aliquota per i proprietari di casa che non aderiscono alla cedolare secca sugli affitti; stretta sulla deducibilità delle auto aziendali.

Altro che punto d'equilibrio... l'esultanza di Bersani e dei sindacati (Cgil compresa) la dice lunga su chi sia uscito vincitore. E non illudiamoci che stampa e investitori esteri non abbiano colto il sostanziale cedimento del governo Monti alle forze della conservazione sociale. Il Financial Times già parla di «appeasement» e offre la propria homepage (in mondovisione) allo sfogo di Emma Marcegaglia. Che non più presidente di Confindustria bastona Monti non solo sulla riforma del lavoro. «Very bad», è la sua bocciatura senz'appello sul FT: «Il testo è pessimo. Non è quello che abbiamo concordato», «non è la riforma di cui il Paese ha bisogno». Le nuove norme sono giudicate così negativamente da ritenere che «sarebbe meglio che non ci fossero». Se restano così, avverte, «non solo le imprese non creano nuova occupazione, ma non rinnovano i contratti precari in essere». Giudizio negativo anche sul resto dell'operato del governo tecnico: «L'inizio è stato positivo. Eravamo così vicini all'abisso...». Ma per il resto tanta delusione: per la portata effettiva delle riforme, come le liberalizzazioni, e «sul fronte dei tagli alla spesa pubblica non abbiamo visto nulla». Poteva dirle prima queste cose, quando ancora guidava Confindustria.

Una reazione che ha quanto meno indotto Alfano a battere un colpo («sosteniamo Monti ma su lavoro e fisco serve un cambio di passo») e a impegnare il Pdl ad apportare modifiche e miglioramenti al testo in Parlamento, anche se ormai gli spazi di manovra saranno ridotti al minimo.

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