Pagine

Friday, April 06, 2012

Finita la melassa, WSJ molla Monti

Dopo il Financial Times, che ieri ha dato voce allo sfogo - colpevolmente tardivo ma nel merito ineccepibile, e non solo sulla riforma del lavoro - di Emma Marcegaglia, un altro schiaffone in mondovisione a Monti arriva dal quotidiano finanziario Usa, il Wall Street Journal, costretto a rimangiarsi in tutta fretta lo spericolato paragone di Monti alla Thatcher, azzardato solo pochi giorni fa. Dietrofront: la miglior analogia "britannica" può essere con Ted Heath, lo «sventurato» predecessore conservatore della Lady di ferro. Il che però ci sembra un tantino ottimistico riguardo il successore di Monti.

Ma il WSJ boccia anche la bozza originaria della riforma Monti-Fornero, che prevedeva «una modifica relativamente modesta all'articolo 18», addirittura una «small beer» (robetta da poco, insignificante) «per un Paese con i problemi economici dell'Italia» (tasso di disoccupazione al 9,3%; tasso di occupazione al 56.9%, contro il 64.5% del Portogallo e il 66,8 degli Usa). Ma almeno si muoveva nella «giusta direzione».

La conclusione del quotidiano Usa è lapidaria, e sarcastica: «Gli ottimisti in Italia - sì, ce ne sono alcuni - diranno che una piccola riforma è meglio di niente. Forse. Ma Monti fu chiamato a fare il primo ministro per salvare il proprio Paese dal ciglio dell'abisso greco. La riforma del lavoro è una resa a coloro che lo stanno portando in quell'abisso». La sensazione è che presto, molto presto, ci ritroveremo con il problema della caduta di credibilità di Monti e allora saranno guai, di "tecnici" savatori della patria non se ne vedono più.

Duro anche il direttore del giornale di Confindustria, il Sole24Ore, che accusa Monti di scorrettezze poco da tecnico e molto da politico:
«La regola aurea che il professor Mario Monti non può non conoscere è che un presidente del Consiglio in visita all'estero parla del suo Paese, vende il titolo Italia (lui lo sa fare benissimo, è giusto rendergliene merito), ma non si occupa delle vicende interne, non risponde alle polemiche domestiche, non scrive lettere ai giornali sui rapporti tra governo e partiti. Purtroppo, tutto ciò che non doveva avvenire è successo con la missione in Asia guidata da Monti e ha trovato la sua logica conclusione in un vertice notturno, a Roma, con i segretari dei partiti che lo sostengono».
E' stato Monti a dichiarare «chiuso» l'argomento articolo 18 e poi a rimangiarsi la sua parola. E nel modo peggiore:
«Si sono inventate coperture rozze (che cosa c'entrano i rincari su casa, auto aziendali, biglietti aerei?), si è indebolita la flessibilità in uscita e sono rimasti intatti oneri contributivi e rigidità sui contratti in entrata in una dimensione tale da rischiare di ridurre le occasioni di occupazione per i giovani e i tanti (troppi) quarantenni e cinquantenni che si sono ritrovati dalla sera alla mattina senza un reddito. Non ci resta che una speranza: si rifacciano di giorno i conti maldestramente impostati di notte».
Interessante anche il commento, nel merito della riforma, di Alesina e A. Ichino sul Corriere della Sera. Premessa sugli effetti dannosi dell'art. 18:
«L'aumento dei vincoli alla libertà di impresa, riguardo ai licenziamenti per motivo economico, si riflette in perdite retributive per i lavoratori che in Italia sono state stimate nell'ordine del 5-11%. Altrettanto dimostrato è l'effetto negativo sulle assunzioni (13-15% in meno, ad esempio, nelle piccole imprese in cui la protezione contro i licenziamenti è aumentata nel 1990). Insomma, il sistema basato sull'art. 18 dà sicurezza a chi ne può godere (ormai quasi solo i lavoratori anziani, in maggioranza uomini). Ma tiene in piedi posti di lavoro poco produttivi con una perdita generale di efficienza economica e lascia briciole di precariato ai giovani».
Qual è il rischio con una riforma che si ferma «in mezzo al guado?»
«Le imprese in crisi approfitteranno immediatamente di ogni spiraglio nella diga per liberarsi dei lavoratori improduttivi. Ma quelle che potrebbero espandersi non assumeranno perché non avranno sufficienti garanzie di poter ridurre in futuro l'occupazione se e quando questa eventualità si rendesse necessaria. Il peggio dei due sistemi quindi: licenziamenti senza assunzioni».
Il giudizio quindi è tranchant: «Ci sono riforme che anche se fatte a metà sono comunque un utile passo avanti. Ce ne sono altre che, invece, se fatte a metà peggiorano la situazione e sarebbe meglio non iniziarle nemmeno. La riforma del mercato del lavoro di cui si sta discutendo appartiene a questa seconda categoria».

1 comment:

Anonymous said...

Non ci voleva la riforma del lavoro per accorgersi delle "qualità" di Monti,come si può dare fiducia a un economista che in un momento critico riesce a partorire solo una classica,inutile e dannosa manovra "tassa e spendi"?Mistero.
Toni