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Thursday, May 05, 2011

Altro che foto, è il momento di battere il ferro

«E' importante per noi fare in modo che foto molto crude di qualcuno cui è stato sparato in testa non circolino incitando ad ulteriore violenza o come strumento di propaganda. Noi non siamo fatti così. Non tiriamo fuori queste cose come trofei. (...) Non c'è alcun dubbio che Bin Laden sia morto. Di certo non c'è dubbio tra i militanti di Al Qaeda. Quindi non riteniamo che una fotografia farebbe alcuna differenza».

Il presidente Obama ha così motivato, al programma "60 minutes" che andrà in onda domenica, la sua decisione: per ora non uscirà alcuna foto di Bin Laden morto. Una decisione saggia. Sui motivi non c'è molto altro da aggiungere. Semplice buon senso, almeno per chi è disposto a soppesare i pro e i contro con serenità di giudizio e obiettività.

Lo scrivevo ieri: la pubblicazione o meno della foto non ha nulla a che fare con l'esigenza di fornire una prova dell'uccisione di Bin Laden. La Casa Bianca ha giustamente deciso valutando gli effetti che avrebbe determinato nella guerra ancora in corso contro il terrorismo islamista - una guerra fatta molto anche di immagini e simboli. L'eventuale pubblicazione recherebbe più vantaggi o più svantaggi nel conflitto? Questo è il punto. E come ha spiegato il presidente della Commissione Intelligence della Camera la conclusione è stata che «i rischi della pubblicazione superano i benefici. Tanto i complottisti in giro per il mondo direbbero lo stesso che le foto sono manipolate, mentre c'è il rischio concreto che pubblicare le immagini serva soltanto a infiammare l'opinione pubblica in Medio Oriente».

Mentre da noi tv e giornali come al solito si attardano in questo stucchevole dibattito foto sì foto no, finendo per legittimare le più strampalate teorie della cospirazione, negli Stati Uniti ci si chiede quanto Obama debba ringraziare le controverse politiche antiterrorismo dei suoi predecessori (non solo G. W. Bush ma anche Clinton). Ieri John Yoo, ex consigliere giuridico di Bush, sul Wall Street Journal:
«The bin Laden mission benefited greatly from Bush administration interrogation policies, but President Obama still prefers to kill, rather than capture, terrorists. This costs valuable intelligence».
Oggi anche il liberal Washington Post avverte «l'eco degli anni di Bush»:
«As President Obama celebrates the signature national-security success of his tenure, he has a long list of people to thank. On the list: George W. Bush».
Ma adesso l'amministrazione Obama è intenta a massimizzare gli effetti del successo dell'operazione. Sul piano militare, cercando di decifrare nel più breve tempo possibile il materiale trovato nel covo di Bin Laden, sperando che possa portare alla cattura o all'uccisione di altri capi di al Qaeda, e a scoprire le cellule nascoste, quindi assestando un colpo mortale o quasi all'organizzazione anche sul piano operativo oltre che simbolico.

Sul piano politico, invece, l'occasione va sfruttata fino in fondo per costringere il Pakistan ad abbandonare le sue trentennali ambiguità. E in questa chiave vanno lette le dichiarazioni del direttore della Cia Leon Panetta, che ieri ha puntato l'indice su quel «network segreto» pachistano che ha protetto Bin Laden e che sta proteggendo Al Qaeda e i talebani. Osama nella sua villa era protetto da poche guardie perché evidentemente contava sulla protezione dei servizi di sicurezza pachistani, o di settori deviati si direbbe da noi, che l'avrebbero avvertito di un eventuale imminente blitz. Ecco perché gli Usa non si sono fidati ad avvertire le autorità pachistane dell'operazione. In nessun caso però gli Usa possono permettersi di lasciare in Afghanistan e in Pakistan un vuoto politico e militare che verrebbe subito colmato pericolosamente da altri (Cina e Iran), ma è questo il momento per spingere il più possibile i pachistani a diventare più affidabili. Anche assicurando loro la giusta influenza in Afghanistan, ma non attraverso l'estremismo islamico.

Sempre sul piano politico, il momento favorevole dev'essere sfruttato anche per favorire il processo rivoluzionario che sta investendo i regimi del mondo arabo. Far cadere Gheddafi e Assad, e correggere la deriva che sta prendendo l'Egitto, innanzitutto. Giocando con l'assonanza tra i termini «bullet» e «ballot», scrive Thomas Friedman sul New York Times:
«We did our part. We killed Bin Laden with a bullet. Now the Arab and Muslim people have a chance to do their part - kill Bin Ladenism with a ballot - that is, with real elections, with real constitutions, real political parties and real progressive politics».
Purtroppo potrebbe rivelarsi ancor più complicato che prendere Bin Laden vivo. Nelle sue prime settimane di vita il governo transitorio egiziano in mano ai militari ha fatto solo danni. Lungi dal rendere concreto e irreversibile il processo democratico, come si chiedeva a Mubarak, ha aperto a Teheran e ha favorito la riconciliazione tra Fatah e Hamas. Nonostante il loro ruolo marginale nelle rivolte che hanno portato alla caduta di Mubarak, sono i Fratelli musulmani (e gli ayatollah iraniani) a staccare i primi dividendi. L'Egitto, paventa lucidamente Il Foglio, rischia di trasformarsi in un «secondo Pakistan». Sia nei confronti dei militari pachistanti che di quelli egiziani l'arma del ricatto finanziario - i miliardi di dollari che ricevono da Washington - può tornare utile, senza scordare che probabilmente altri dollari sarebbero pronti a sostituire quelli americani.

Il giudizio su Obama è presto detto: non è Bush, e con la sua sterzata "realista", per così dire, in Medio Oriente ha sbagliato tutto: l'approccio nei confronti dell'Iran, dei Paesi arabi - alleati e non - e del processo di pace tra israeliani e palestinesi. Ha tentennato e infine si è smarcato sulla Libia, dando vita al più sconclusionato intervento militare della Nato che si sia mai visto. Le rivoluzioni popolari della primavera araba lo hanno riportato ad una realtà che Bush e i neocon avevano già intuito, e forse lo indurranno a ricredersi e a correggere rotta.

Ma Obama non è neanche quella specie di irenista che credevano i suoi più entusiasti sostenitori di sinistra, né quel traditore dell'"eccezionalismo" americano come lo dipingono i suoi avversari più beceri. Bisogna riconoscere che proprio il suo approccio più cinico e meno ideologico, più concentrato su obiettivi ristretti di antiterrorismo, gli ha permesso di cogliere alcuni successi. Si è mosso con cautela in Iraq e ha azzeccato tutto in Afghanistan e sul Pakistan. Interrompendo una prassi negativa che con Islamabad durava fin dagli anni '80 - quando i finanziamenti per i mujaheddin dovevano passare obbligatoriamente attraverso l'Isi - ha cominciato a non fidarsi dei pachistani, anzi a prendere sempre più l'iniziativa sul loro stesso territorio. Fino al successo di questa "benedetta domenica".

4 comments:

Jean Lafitte said...

si farfuglia, non solo tu, di conseguenze negative della pubblicazione delle foto. ma non si è capito quali potrebbero essere. per quale motivo la visione di queste fantomatiche foto dovrebbe scatenare i terroristi.

GG said...

sì però, dai: "ha staccare" no. Su. Quello che ti pare ma "ha staccare" no...

JimMomo said...

UH! Si vede che mi occorre un correttore di bozze.

Demata said...

La Associated Press, che non è un'associazione di comunisti o di integralisti, pretende che Obama fornisca le foto in base alle norme che regolano il diritto all'informazione in USA.
Più chiaro di così ...
http://www.repubblica.it/esteri/2011/05/06/news/foto_ap_contro_obama-15867438/