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Tuesday, March 08, 2011

Obama e il fantasma di Bush

Su taccuinopolitico.it

Dalle politiche anti-terrorismo alla crisi libica, Obama rischia di seguire la strada di Bush
Il "change", almeno in politica estera, è costretto a rimangiarselo a favore di un "dietrofront". Con il discorso del Cairo, poco dopo essersi insediato alla Casa Bianca, Obama aveva voluto dimostrare al mondo che l'America stava cambiando rotta: niente più regime change; basta ingerenze negli affari interni dei Paesi arabi; come interlocutori i regimi al potere e non i movimenti democratici (a quelli egiziani e iraniani furono decurtati gli aiuti). Dai leader arabi "moderati" il nuovo presidente Usa si aspettava in cambio un contributo concreto al rilancio dei negoziati di pace tra israeliani e palestinesi (per tutte le sinistre occidentali l'unica politica mediorientale degna di essere perseguita); dagli iraniani, che non sentendo più minacciato il loro potere si convincessero a fermare il programma nucleare.

Ha ricevuto invece uno schiaffo dietro l'altro. Il processo di pace non ha compiuto passi avanti (e come avrebbe potuto? Non essendo - almeno non più - il conflitto israelo-palestinese all'origine delle tensioni della regione, ma queste ultime ad impedirne la soluzione); Teheran ha rispedito al mittente le più generose offerte occidentali; e per di più, adesso, coloro i quali erano stati snobbati da Obama - le vere "piazze arabe" - calcano la scena da protagonisti, imponendosi come attori, o almeno fattori politici non più trascurabili in Medio Oriente, nemmeno dagli autocrati che li governano. Starebbe quindi emergendo tra gli analisti della Casa Bianca la consapevolezza che le rivolte che nessuno aveva previsto possano diventare «l'evento che segnerà l'amministrazione Obama».

Obama non vuole mancare all'appuntamento, ha capito dove spira il vento della storia e che lo status quo è inaccettabile, ma allo stesso tempo teme di dire e fare le stesse cose di George W. Bush, di venire trascinato dall'impetuosa corrente della realtà nelle stesse identiche situazioni che si trovò ad affrontare il presidente dell'11 settembre e che tanta impopolarità gli addussero. Nel caso, si tratterà di trovare i giusti espedienti retorici e comunicativi per liberarsi dall'ombra del suo predecessore, ma sarà molto, molto difficile non ammettere che per due anni ha sbagliato politica estera e che la Freedom Agenda, pur declinata con pragmatismo, è oggi la più sensata da perseguire.

L'altro ieri Obama ha firmato un decreto presidenziale per far ripartire i processi militari a Guantanamo, dopo due anni di riflessione e apportandovi modifiche solo cosmetiche, stabilendo inoltre che alcuni detenuti resteranno nel carcere a tempo indeterminato e senza processo. E' la conferma che per quanto imperfetto, l'impianto giuridico elaborato dall'amministrazione Bush resta il più ragionevole considerando che ci si trova di fronte ad un fenomeno giuridicamente inedito. «Nessuno - ha scritto beffardamente il Wall Street Journal - ha fatto di più per rinverdire la reputazione delle politiche anti-terrorismo dell'era Bush dell'amministrazione Obama». Avrete notato come sia sparita dai giornali e dai dibattiti televisivi qualsiasi preoccupazione su Guantanamo - che Obama non ha chiuso - e sullo status giuridico dei detenuti - che nella sostanza viene confermato.

In queste ore, con la crisi libica, Obama rischia di ripercorrere gli stessi passi di Bush anche sull'uso dell'hard power americano, anche se non sentirete nessuno rimproverarglielo. Ad un presidente di colore, alto, giovane e soprattutto progressista questo ed altro è concesso. Le analogie si moltiplicano con il passare dei giorni: anche oggi come allora lo status quo è inaccettabile. Gheddafi come Saddam è uno sterminatore del suo popolo e un pericolo per gli altri; i costi umanitari, economici e strategici dello stallo rendono urgente un intervento. Anche se certamente va ben ponderato e calibrato, con un occhio più che vigile a quanto accade nel frattempo nello strategico Bahrein e, quindi, ai riflessi sulla stabilità dell'Arabia saudita. Per la Libia, la Nato sta studiando «una vasta gamma di opzioni, tra cui eventuali opzioni militari». Francia e Regno Unito, con l'appoggio Usa, si preparano a chiedere alle Nazioni Unite una risoluzione che autorizzi l'istituzione di una no-fly zone, o comunque un qualche intervento militare in grado di rompere l'equilibrio di forze a favore dei ribelli. Obama rischia di entrare, dunque, in un nuovo calvario al Palazzo di vetro come ogni presidente americano che si rispetti. Anche oggi come allora si cerca una «seconda risoluzione» che autorizzi l'uso della forza. Anche oggi come allora qualcuno a Washington ritiene che già la prima risoluzione - la 1970, votata all'unanimità - sia sufficiente, sulla base del riferimento al capitolo VII che prevede l'adozione di misure per «restaurare pace e sicurezza».

Certo, Obama potrebbe essere più bravo e fortunato di Bush. Incontrerà le resistenze di russi e cinesi, ma almeno l'Europa è compatta (anche se bisognerà verificarne la tenuta se l'intervento non dovesse ottenere il via libera dell'Onu) e questa volta sarebbe sostenuto dalla Lega araba e dall'Unione africana. All'Eliseo non c'è più Chirac e a Berlino non c'è Schroeder, e soprattutto Francia e Germania hanno in Libia molti meno interessi di quanti ne avessero in Iraq; Saddam era (o sembrava) saldamente al potere, mentre Gheddafi sta combattendo un'incerta guerra civile. Insomma, in questo contesto non è da escludere che anche Russia e Cina si convincano.

In questo caso, Obama avrà salvato capra e cavoli: libertà da una parte e multilateralismo dall'altra, che non sempre - anzi quasi mai - vanno a braccetto. Ma se, come probabile, Russia e Cina si opporranno, e quindi un mandato dell'Onu non ci sarà, allora Obama dovrà scegliere tra il multilateralismo e l'intervento e si vedrà se è davvero cambiata la sua politica estera, o se si è fermato alle buone intenzioni. Se dovesse optare per il primo, avrà concesso a Russia e Cina, e potenzialmente anche all'Europa, un potere di veto su ciò che Washington ritiene giusto e opportuno fare, e avrà mandato un segnale di debolezza ai nemici dell'America. Se deciderà per l'intervento, "Anakin Obama" si sarà trasformato in "Darth Vader". Sarebbe infatti di nuovo una «coalizione di volenterosi». Forse più ampia di quella che riuscì a mettere in piedi Bush jr. contro Saddam, ma pur sempre "illegale" e odiosamente "unilaterale" secondo i parametri infausti dei fautori dell'Onu. Il fatto è che il "multilateralismo", lungi dall'essere un metodo per risolvere le crisi - il più possibile consensualmente ma risolverle - è diventato l'alibi dietro cui potenze al tramonto, o emergenti, con i loro "niet" cercano di accrescere il proprio status sulla scena internazionale a spese soprattutto degli Stati Uniti.

E l'Italia? C'è da sperare che il governo stia studiando e ponderando attentamente il da farsi, ma certo le parole del ministro Frattini destano preoccupazione. L’alibi secondo cui il nostro passato coloniale ci sconsiglierebbe di partecipare ad operazioni militari in Libia, è una clamorosa e infondata banalità da contrastare. Il ministro esclude che gli aerei italiani possano prendere parte all'istituzione di una no-fly zone o ad eventuali altre operazioni. L'Italia, spiega, offrirà «basi e supporto logistico», ma solo in presenza di un mandato del Consiglio di sicurezza dell'Onu, che ci imporrebbe quel «rispetto della legalità internazionale» cui fa riferimento l'articolo 4 del Trattato di amicizia italo-libico, e che ci esonererebbe dal divieto previsto nello stesso comma, cioè di usare o far usare contro la Libia basi esistenti sul nostro territorio. Ma se, come probabile, non ci sarà alcun mandato Onu, e gli alleati decideranno di agire comunque, e se nel frattempo non avremo revocato ufficialmente il trattato firmato con Gheddafi, accontentandoci di tenerlo in sospeso, non potremo offrire neanche le basi aeree per la no-fly zone. Certo non una bella figura.

P.S. Ieri Veltroni, intervistato dal Sole 24 Ore, si chiedeva dove siano finiti i pacifisti: sparito Bush, spariti anche loro. E noi ci chiediamo dove fosse lui durante la prima e la seconda guerra del Golfo, che ha liberato gli iracheni da un massacratore ancor più efferato: Saddam Hussein. Il passato è passato, non importa più che grandi Paesi europei ci abbiano fatto affari, che Stati Uniti e Gran Bretagna l'abbiano sdoganato, in politica se non si è in grado di avere una visione lungimirante, bisogna almeno - almeno - essere dotati della lucidità e della prontezza d'animo necessari ad adattarsi al nuovo corso degli eventi. Per questo, ha ragione Veltroni quando si chiede: «A questo punto, che interesse ha l'occidente a essere così timido e impacciato?»

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