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Wednesday, February 23, 2011

Un '48 arabo, tra insidie e opportunità/2

Il merito di questa analisi di George Friedman, direttore dell'istituto Stratfor, è di porre nei termini più sensati ed equilibrati la questione del pericolo islamista nell'ondata di rivolte che sta colpendo il Medio Oriente e di precisare quelle che nella scienza politica si chiamano condizioni rivoluzionarie. L'aspetto che accomuna le sollevazioni in Paesi così diversi è la collera nei confronti di regimi retti per moltissimo tempo da gruppi ristretti di individui e famiglie che gestiscono il potere arricchendo se stessi e privando il popolo di diritti politici e di prospettive economiche, e che come se non bastasse progettano di tramandare ai propri figli questo potere.

Ma la questione di maggiore importanza è capire chi trarrà vantaggio da queste "rivoluzioni", se di rivoluzioni si tratta. Dietro di esse Friedman non vede un complotto, una trama organica da parte degli islamisti, tale quindi da offrire all'Occidente un comodo alibi per preferire soluzioni autoritarie ai possibili sviluppi democratici, ma non nega che possano essere proprio loro ad avvantaggiarsi della situazione.
«Non vediamo in queste rivoluzioni una vasta cospirazione di islamisti per prendere il controllo della regione. Una cospirazione così estesa viene facilmente individuata, e i servizi di sicurezza dei singoli Paesi l'avrebbero velocemente distrutta».
Tuttavia, avverte, «non c'è dubbio che gli islamisti tenteranno di avvantaggiarsene e di assumerne il controllo. Se saranno in grado o meno, è una questione più complessa e importante, ma che lo vogliano e che ci stiano provando è ovvio...».
«Così come gli Stati Uniti e i Paesi occidentali stanno tentando di influenzare la direzione delle sollevazioni. Per entrambe le parti è una partita difficile da giocare, ma soprattutto per gli Stati Uniti rispetto agli islamisti, che conoscono i loro Paesi... Ma se non c'è dubbio che gli islamisti vorrebbero assumere il controllo della rivoluzione, ciò non significa che ci riusciranno, né che queste rivoluzioni avranno successo nel soppiantare i regimi esistenti».
Friedman quindi suggerisce di guardare all'«evento chiave» di una rivoluzione, senza il quale non si è in presenza di una fase rivoluzionaria, ma solo di manifestazioni dallo scarso significato rispetto alla tenuta del regime. I rivoluzionari, infatti, non possono nulla contro le armi. Ma se chi detiene la forza - polizia ed esercito - passa con loro, in tutto o in una parte significativa, allora «la vittoria è possibile». Se la spaccatura nelle forze armate crea una prevalenza di forze anti-regime, allora la rivoluzione può avere successo. Per questo non bisogna tanto guardare ai giovani che scendono in piazza, ma occorre valutare caso per caso il comportamento delle forze armate.

Dunque, tornando al ruolo degli islamisti, «l'aspetto più importante non è la loro presenza nella folla dei manifestanti, ma la loro penetrazione nell'esercito e nella polizia». Friedman ricorda dai precedenti del passato che «le persone che iniziano una rivoluzione raramente sono le stesse che la portano a termine»:
«Spesso non c'è nessuno tra i rivoluzionari attrezzato a prendere il potere. Il pericolo quindi non è l'Islam radicale in sé, ma il caos, seguito o da una guerra civile, o dall'esercito che assume il controllo semplicemente per stabilizzare la situazione, o dall'emergere di un partito radicale islamico che prende il potere solo perché gli islamisti sono gli unici nella calca con un piano e un'organizzazione. E' così che le minoranze assumono il controllo delle rivoluzioni».
Fra le tre tipologie rivoluzionarie prese come termini di paragone (i moti rivoluzionari del 1848 in Europa, che fallirono per mancanza di organizzazione e coerenza, ma la cui influenza si sarebbe fatta sentire per decenni; il '68, che non ha causato la caduta di alcun regime, neanche temporaneamente, e che ha lasciato «residui culturali» di scarsa rilevanza storica; e le rivoluzioni del 1989, che hanno sovvertito l'ordine di un'intera regione, persino mondiale, creandone uno nuovo), Friedman ipotizza che quelle cui stiamo assistendo in Medio Oriente possano essere simili ai moti del 1848:
«Come nel 1848, queste rivoluzioni non riusciranno a trasformare il mondo musulmano o anche solo il mondo arabo. Ma getteranno semi che germineranno nei decenni a venire. Penso che questi semi saranno democratici, ma non necessariamente liberali. In altre parole, le democrazie che eventualmente sorgeranno produrranno regimi che baseranno i loro comportamenti sulla propria cultura, cioè l'Islam. L'Occidente celebra la democrazia. Dovrebbe fare attenzione a ciò che auspica: potrebbe ottenerlo».

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