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Friday, January 14, 2011

Gli errori fatali di Walter

Riforma Gelmini e Mirafiori. Qui giacciono le velleità riformiste e le vocazioni maggioritarie del Pd. Senza riformismo e senza vocazione maggioritaria, infatti, il Pd non ha senso, perché non sarebbe che un triste Ulivo nella mesta condizione di tenere insieme una variopinta coalizione di partiti e partitini con nessuna o quasi cultura di governo. Un partito maggioritario, ma di fatto sotto ricatto e senza identità, esposto alle forze centrifughe esercitate da una parte dagli alleati di centro, e dall'altra alla sua sinistra, oltre che a perenne rimorchio della Cgil, dei magistrati e di Repubblica.

Se il Pd vuol essere in senso pieno maggioritario, non può pensare di appaltare la rappresentanza del centro dell'elettorato ad un polo centrista con il quale poi eventualmente allearsi, facendosi in ogni caso schiacciare e isolare a sinistra insieme ai manettari di Di Pietro e ai comunisti di Vendola. Dovrebbe puntare direttamente a conquistare l'elettorato di centro rinnovando i suoi contenuti e i suoi volti.

L'unico segretario tra quelli che si sono succeduti in questi tre anni che ha dimostrato di aver compreso tutto questo, e quindi di avere una concezione del Pd davvero innovativa rispetto ad una semplice operazione di cosmesi del Pci-Pds-Ds, e infatti predicava una «vocazione maggioritaria», è stato - bisogna dargliene atto - Veltroni. Il quale però ha commesso due errori fatali. Il primo, già prima delle elezioni del 2008, quando ha imbarcato Di Pietro annacquando lui per primo il suo progetto. Dal giorno dopo non solo l'Idv non ha aderito ai gruppi del Pd come promesso, ma come previsto ha trascinato il Pd nel vicolo cieco dell'antiberlusconismo e del giustizialismo.

Il secondo errore l'ha commesso subito dopo il voto. Quando non ha reagito alla prevedibile radicalizzazione, anzi l'ha in qualche modo assecondata, pensando di allontanare da sé il malcontento per la sconfitta. Avrebbe dovuto, invece, aprire subito un confronto costruttivo con Berlusconi sulle riforme, in modo da cristallizzare l'esito bipartitico uscito dalle urne, sulla base di un semplice e nobile compromesso: a Berlusconi permettere di governare senza gli assalti della magistratura; al Pd una legge elettorale, e regolamenti parlamentari, volti a consolidare l'assetto tendenzialmente bipartitico e il ruolo di partito unico dell'opposizione. Il tutto in una riforma costituzionale a prova di bomba referendaria: la diminuzione del numero dei parlamentari e il superamento del bicameralismo perfetto, nonché l'elezione diretta del presidente o del premier, incontrerebbero infatti nell'opinione pubblica un favore plebiscitario.

Il risultato di questi errori è che il Pd si trova non solo a mendicare alleanze al centro e a sinistra, che se anche dovessero concretizzarsi difficilmente apparirebbero credibili alternative di governo; ma si trova arroccato su posizioni fuori dalla storia su tutto: sul lavoro, sull'economia, sui servizi pubblici, sulla Costituzione. E solo l'antiberlusconismo come bussola che però punta inesorabilmente contro gli scogli.

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