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Friday, October 15, 2010

A carte sempre più scoperte/3

Dopo aver definito «ineccepibile» sotto il profilo istituzionale la risposta in cui Schifani conferma l'assegnazione in prima battuta al Senato della discussione sulla legge elettorale, gli basta un secondo et voilà, Fini sveste i panni di terza carica dello Stato per vestire quelli di capofazione, aggiungendo che «è altrettanto evidente che c'è una questione politica perché risulta difficile pensare che il Senato manderà avanti davvero la riforma elettorale». Ecco quello che si intende per incompatibilità del doppio ruolo di Fini. Un presidente della Camera dovrebbe fermarsi all'aspetto istituzionale «ineccepibile» e sulla «questione politica» far esprimere, semmai, qualcuno dei suoi.

Che la discussione sulle modifiche alla legge elettorale possa procedere speditamente, e procedere nella direzione gradita a Fli, Udc e Pd (il che al momento è numericamente possibile solo a Montecitorio), rappresenta per Fini il grimaldello da usare, in caso di crisi, per evitare un voto anticipato. E' ovvio, infatti, che trarrebbe un palese vantaggio, quanto meno in termini di potere di ricatto se non nel merito delle modifiche da apportare, dal profilarsi alla Camera di una maggioranza sulla legge elettorale diversa da quella che sostiene il governo, anche se poi non è affatto detto che si manifesti anche al Senato. Ma basta alla Camera per mettere sotto pressione Berlusconi. Che da presidente della Camera Fini spinga così tanto sfacciatamente in questa direzione, arrivando persino ad accusare il Senato (e la seconda carica dello Stato) di voler insabbiare l'iter parlamentare, dimostra il totale spregio per la terzietà e la neutralità politica della carica che ricopre.

Una manovra squisitamente politica, di bassa politica per altro, alla quale piega il corretto esercizio delle sue funzioni, disposto persino allo scontro non più solo con Berlusconi ma anche con Schifani. Non si spiega altrimenti questo accanimento, visto che se fosse il merito della riforma a stargli a cuore, la diatriba sarebbe del tutto senza senso, perché è ovvio che la proposta di riforma dovrà passare prima o poi sia per la Camera che per il Senato. Non si può non concordare con Bechis:
«È bene a tenersi a mente questo spettacolino teatrale messo in scena dalla terza istituzione della Repubblica, perché si ripeterà non una, ma mille volte nei prossimi mesi. Fini vuole restare incollato saldamente alla sua poltrona, perché quella gli assicura una statura e una dimensione politica che altrimenti non avrebbe alla guida di un piccolo manipolo di parlamentari. Ma rispetto per quella carica e per i suoi doveri non ne ha più. Come nel caso della legge elettorale ha esposto l'istituzione a una figuraccia (sapeva di chiedere quel che non si poteva chiedere) pur di piegarla ai piccoli interessi del suo gruppetto politico. Uno stile che fa apparire dei giganti delle istituzioni i suoi predecessori, anche quelli immediati come Fausto Bertinotti e Pierferdinando Casini. Ma è questione di uomini».
Sconcerto per questa condotta lo fa trasparire anche Stefano Folli, sul Sole 24 Ore, non certo un berlusconiano, il quale ricostruisce così la manovra:
«Il grosso dell'opposizione auspica la riforma della legge elettorale, ma intende quasi sempre riferirsi a un nuovo governo che, non potendo nascere da un patto politico e programmatico, si farebbe scudo della riforma per darsi un'impronta "tecnica". Tutti sanno che si tratta di uno scenario irrealistico e che il Capo dello Stato non favorirebbe mai una manovra ambigua. Tuttavia si continua a parlarne. Nella speranza che prima o poi il gruppo di "Futuro e Libertà", determinante a Montecitorio, si decida a provocare la caduta di Berlusconi. Ma è evidente che questa prospettiva, allo stato delle cose, è aleatoria. Forse prenderà forma più avanti, ma solo quando gli amici del presidente della Camera saranno sicuri di ottenere proprio quella nuova legge elettorale di cui essi hanno assoluto bisogno per rendere credibile la prospettiva dell'"altra destra" prima delle elezioni. Una sicurezza che al momento davvero non c'è. Per cui si resta nel circolo vizioso. Lo screzio istituzionale tra Fini e il suo collega del Senato, Schifani, suona conferma dell'intreccio. A Palazzo Madama, dove il centrodestra ha ancora una chiara maggioranza senza bisogno dei voti dei finiani, il dibattito sulla riforma elettorale rischia di esaurirsi in un nulla di fatto. Quindi Fini avrebbe voluto trasferirlo a Montecitorio, dove gli equilibri sono diversi. Avendo ricevuto un rifiuto ("formalmente ineccepibile") da Schifani, ha accusato il Senato di volontà insabbiatrice. Il che costituisce una novità senza precedenti».
Per Folli, «il progetto di un esecutivo dedicato solo alla riforma elettorale è mera utopia», e anche se fosse realistico, non ci sarebbe accordo, neanche all'interno del Pd, sul sistema da adottare, perché dipende «da quale politica delle alleanze si vuole seguire». Ciò non toglie che ognuno appaia «autorizzato a inseguire il proprio tornaconto», anche se «senza molto costrutto», ma ciò che è grave è che lo insegua Fini smaccatamente avvalendosi delle proprie funzioni istituzionali.

P.S.: Sia detto per inciso (ma mica tanto): non solo Fini e Casini questa legge elettorale l'hanno votata, ma l'hanno persino imposta a Berlusconi come condizione per tenere in vita l'alleanza per le elezioni del 2006.

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