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Friday, June 12, 2009

Una nuova gattopardesca "operazione Khatami"?

Ogni volta che si avvicinano le "elezioni" presidenziali in Iran si spendono fiumi di parole per illudersi che il regime degli ayatollah, che la rivoluzione islamica più radicale mai riuscita, possa essere riformabile dall'interno. Usando un po' di logica, e riconoscendo che queste illusioni derivano dalla nostra recondita speranza che siano gli ayatollah a toglierci dall'imbarazzo di decisioni difficili, capiremo che non ha senso aspettarsi dalle elezioni iraniane un leader davvero "riformista". Non lo fu Khatami. Non lo sarà, se dovesse vincere, Mousavi.

Non credo sia l'esito più probabile, ma non mi meraviglierei affatto se Khamenei ripetesse l'"operazione Khatami", se cioè avesse deciso di dare il ben servito ad Ahmadinejad. E' solo un'ipotesi tra le tante, ma la Guida suprema potrebbe aver deciso di servirsi gattopardescamente del volto apparentemente "nuovo" di Mousavi per dare sfogo a una popolazione esasperata da Ahmadinejad sul lato interno, e per illudere gli Stati Uniti e l'Occidente di una svolta moderata e riformista. L'elezione di Mousavi sarebbe interpretata a Washington e in Europa come un sì al dialogo offerto da Obama. Il tavolo sul nucleare in effetti conviene all'Iran qualsiasi siano le sue intenzioni ed è possibile che finirà per accettarlo. Un dialogo comunque utile a prendere tempo mentre il programma nucleare continua a fare progressi e Teheran ad avvicinarsi alla bomba. Quindi, il problema è come sempre capire se l'atomica è negoziabile o meno per Khamenei.

Ahmadinejad è ormai una figura del tutto screditata e odiata, sia all'interno che in Occidente, e difficilmente potrebbe essere lui il volto dialogante di cui in questa fase Khamenei potrebbe aver deciso di aver bisogno per attenuare le diffidenze e i sospetti dei suoi interlocutori. Anche il Guardian non nasconde le insidie di questa eventualità:
«La presunzione che sarà più facile per l'America negoziare con l'Iran sotto una presidenza moderata non è dimostrata. Potrebbe essere vero il contrario: una voce tranquillizzante potrebbe essere più efficace di una irrazionale nel coprire un programma atomico nascosto, se il potere reale in Iran risiede altrove».
Chi invece mostra ottimismo sulla figura di Mousavi è Michael Ledeen. Mir Hossein Mousavi fu «l'architerro degli aspetti più oppressivi della Repubblica islamica» quando fu premier mentre il paese era sotto la guida dell'ayatollah Khomeini, ma poi «è stato assente dalla vita pubblica per vent'anni». Un elemento che per Ledeen è la prova della sua conversione riformista, ma che nella nostra ipotesi potrebbe fare al caso giusto per Khamenei: chi meglio di un personaggio fedele dalla prima ora alla rivoluzione ma rimasto nell'ombra per così tanti anni potrebbe incarnare le speranze riformiste e il volto moderato e dialogante del regime, dissimulando le vere intenzioni della Guida Suprema?

Ledeen è come sempre molto attento alle manifestazioni popolari e osserva come in questi giorni, come documentato dal Times e dal Wall Street Journal, se ne siano svolte di imponenti contro il regime. E' «certamente significativo» e i reporter che definiscono tali dimostrazioni come «rivoluzionarie», o per lo meno «insurrezionali», «hanno ragione». Da tempo infatti Ledeen sostiene che «il popolo iraniano disprezza il regime, non vuole una Repubblica islamica, vuole essere parte del mondo occidentale e non di un regime fanatico».

Mousavi «può essere visto in modo simile al "riformista mancato" Khatami, che fu inaspettatamente eletto presidente nel 1997», concede Ledeen, il quale ricorda di aver scritto su Khatami che è stato «un vaso vuoto nel quale il popolo iraniano ha riversato il suo appassionato desiderio di libertà, ma che «non ha riformato quasi nulla», e finì per essere considerato un «sotterfugio per i duri e puri del regime».

Ma Ledeen è convinto che Mousavi sia «diverso» da Khatami. E che «la grande differenza» sia sua moglie e il ruolo di grande rilevanza e visibilità che ha stranamente potuto assumere in questa campagna elettorale. E' divenuta «una figura politica nazionale», niente di simile era mai accaduto nella storia della Repubblica islamica. «Il solo fatto del suo ruolo politico è esplosivo - spiega Ledeen - minaccia alle fondamenta il sistema, perché se viene garantita l'uguaglianza tra donne e uomini (e questo è un messaggio molto chiaro nella campagna di Mousavi, dimostrato dalla sua presenza al suo fianco, dalle parole che usa, e dall'entusiasmo che suscita), l'intera struttura del regime khomeinista può essere messa in dubbio».

Ma qualcosa non torna, sembrano troppe a Ledeen le stranezze di questa campagna. «Il vero mistero è perché le sia stato permesso di fare ciò. Per dirla chiaramente, il leader supremo Khamenei poteva fermare tutto ciò fin dall'inizio della campagna, ma non lo ha fatto. Perché?», si chiede Ledeen. Un'altra stranezza è che «di solito i dimostranti che gridano "Morte al regime delle bugie" verrebbero bastonati e picchiati immediatamente, ma in questi giorni non è accaduto». Potrebbe essere un «segnale della preferenza di Khamenei per Mousavi».

In effetti, le fonti iraniane di Ledeen confermano: Khamenei avrebbe «incoraggiato Mousavi a candidarsi, proprio perché la Guida suprema è intenzionata a concedere una più ampia libertà al popolo iraniano e a normalizzare le relazioni con l'Occidente», rendendosi conto dell'«impossibilità di continuare a governare con la repressione e che Ahmadinejhad, con la sua aggressiva politica estera e interna, costituisce una minaccia per tutto ciò che è stato costruito in questi trent'anni». C'è davvero da augurarsi che le fonti iraniane di Ledeen non si illudano.

In ogni caso, Ledeen si chiede cosa succederà all'indomani del voto: «Quelli che oggi gridano "Morte al dittatore" se ne andranno tranquillamente a casa se Mousavi uscirà sconfitto? E quelli che hanno investito le loro vite e le loro convinzioni religiose nell'odio verso l'Occidente, se ne andranno tranquillamente a casa se Mousavi sarà eletto? O l'Iran è destinato a un conflitto interno, chiunque dovesse vincere? E in tal caso, cosa dovrebbe fare l'Occidente?», si chiede Ledeen, ricordando che l'Iran ha una lunga «tradizione rivoluzionaria» e che «oggi è certamente in una condizione rivoluzionaria».

Emanuele Ottolenghi fa parte invece di coloro che nonostante la grande mobilitazione popolare di queste ore continuano a pensare che chiunque verrà eletto «le ambizioni nucleari iraniane erano precedenti ad Ahmadinejad e quindi indubbiamente continueranno anche con i suoi successori». Il problema secondo Ottolenghi è capire se «l'Iran insegue capacità nucleari solo come strumento di dissuasione nei confronti di quelli che vede come nemici potenti e minacciosi» o se invece considera la bomba come strumento per «soddisfare le sue ambizioni egemoniche in Medio Oriente». E in questo caso, «l'Iran sarebbe sensibile alla strategia della deterrenza, come lo fu l'Unione sovietica?»

Data la natura e il fanatismo dell'ideologia degli ayatollah, Ottolenghi è convinto che il regime iraniano voglia esportare la rivoluzione islamica in tutta la regione, e restituire agli sciiti la leadership sul mondo musulmano a danni dei sunniti. La bomba «permetterebbe a Teheran di raggiungere i suoi obiettivi senza usarla», solo grazie alla sua «proiezione di potenza» e all'effetto di deterrenza. Possedere la bomba è un «moltiplicatore di forza». Certo, «l'arsenale occidentale e un'esplicita minaccia di utilizzarlo può dissuadere l'Iran da un attacco nucleare». Tuttavia, avverte Ottolenghi, durante la Guerra Fredda il prezzo dell'equilibrio nucleare - mai definitivo, sempre fragile - fu il riconoscimento di sfere di influenza».

«Se l'Iran diventa una potenza nucleare - conclude Ottolneghi - il mondo occidentale dovrà negoziare una Yalta del Medio Oriente con Teheran» e «alla fine, potremmo persino non evitare un conflitto».

Infine, Jeffrey Goldberg, su The Atlantic, suggerisce che dalla minaccia iraniana potrebbe scaturire uno sviluppo positivo, di cui in alcuni post in passato avevo già parlato. «Con l'Iran sciita che diventa più forte, ebrei e arabi sunniti hanno improvvisamente solide basi per un'amicizia. Fare leva sulle paure dei sunniti per l'emergente potenza sciita potrebbe finalmente portare ad una soluzione del problema israelo-palesinese», attraverso una normalizzazione, se non una vera e propria «alleanza», tra Israele e stati arabi, con gli Stati Uniti come garante.

1 comment:

Anonymous said...

ieri sono andato a dormire abbastanza confortato e stamane, mi sveglio ed amadin è ancora la.

ma sto dormendo ancora o è tutto vero?

leggo di brogli probabili, di modalità arcaiche di voto, senza cabine, quasi in comune, leggo di penne che forse non sono copiative...

cosa è successo?


io ero tzunami