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Friday, June 19, 2009

Ritorno al regime change

Il commento di oggi di David Brooks, sul New York Times, merita di essere citato, non solo per la sua solita lucidità ma stavolta anche per quella che mi sembra una contraddizione. Ci sono alcuni momenti - pochi - nella storia, in cui il potere non risiede solo nei vertici, ma è «radicalmente disperso», scrive Brooks. «La vera trama si dipana nelle strade» e «il corso futuro degli eventi è al massimo grado di incertezza», tanto da poter essere determinato da semplici «sguardi» in un senso o nell'altro:
The fate of nations is determined by glances and chance encounters: by the looks policemen give one another as a protesting crowd approaches down a boulevard; by the presence of a spontaneous leader who sets off a chant or a song and with it an emotional contagion; by a captain who either decides to kill his countrymen or not; by a shy woman who emerges from a throng to throw herself on the thugs who are pummeling a kid prone on the sidewalk.
«I cambiamenti più importanti avvengono in modo invisibile nelle teste delle persone... piccoli gesti uniscono una folla e simboleggiano un futuro diverso, come il momento in cui Mousavi teneva le mani di sua moglie in pubblico». In momenti come questi, osserva Brooks, «i politici e i consiglieri nel governo degli Stati Uniti quasi sempre si ritirano nella passività e nella cautela», in parte per prudenza giustificata dall'incertezza, in parte per deformazione professionale. Agli analisti sfugge l'irrazionalità del momento e, quindi, quanto rapido e inaspettato può risultare un cambiamento: «A posteriori, tutte le rivoluzioni sembrano inevitabili. Prima, tutte sembrano impossibili» (Michael McFaul).

Detto questo, David Brooks approva il comportamento dell'amministrazione Obama, la quale sembra aver capito che «la lezione principale di questi eventi è che il regime iraniano è fragile... Gli iraniani nelle strade lo sanno. Il mondo lo sa». «D'ora in poi - continua Brooks - la questione centrale delle relazioni Iran-Occidente non sarà il programma nucleare. Il regime è più fragile del programma. E' più probabile che cada prima del programma. Il tema centrale sarà la sopravvivenza stessa del regime». I paesi occidentali dovranno quindi elaborare «politiche a più piste non solo per affrontare l'Iran su temi specifici, ma anche per provare a minare la sopravvivenza stessa del regime». Lo stesso approccio di Reagan nei confronti dell'Unione sovietica, che «non significa non parlare con il regime; Reagan parlava ai sovietici». Le elezioni iraniane «hanno azionato un vortice che porterà, un giorno, al collasso del regime. Avvicinare quel giorno è ora l'obiettivo centrale».

La stranezza dell'argomentazione di Brooks è che se davvero adesso, come lui dice, non è più il nucleare ma la caduta del regime, l'obiettivo su cui dovrebbero concentrarsi gli sforzi politici dell'Occidente, a maggior ragione l'amministrazione Obama appare fuori strada, più preoccupata com'è di non interferire per non compromettere la tenue speranza del dialogo sul nucleare.

Il problema è che, come Charles Krauthammer, sono personalmente convinto che ci siano «zero possibilità» (o quasi) di impedire all'Iran di dotarsi di armi nucleari con i negoziati e che «la sola speranza per risolvere la questione del nucleare è il regime change, che potrebbe porre fine al programma o renderlo gestibile e non minaccioso». Dato che il bombardamento sarebbe un mezzo probabilmente inefficace per neutralizzare il programma nucleare, e il regime change usando la forza non è praticabile, che cosa ci resta come arma se non il popolo iraniano?

2 comments:

Beppe said...

ma il nucleare civile non è affatto un problema.
Ci possono essere delle garanzie che consentono l'utilizzo dell'energia atomica senza la possibilità di costruire la bomba.

JimMomo said...

Il nucleare civile non è mai stato un problema, nemmeno sotto Bush. La richiesta è proprio quella di un nucleare civile sotto il controllo dell'Aiea. Questo l'hanno ripetuto sa sempre tutti.