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Friday, June 26, 2009

Mousavi come Lech Walesa o come Boris Yeltsin?

Quello che si è cercato di dire in questi giorni è che certo Khamenei e Ahmadinejad hanno il potere di reprimere spietatamente la piazza e forse anche di respingere le offensive dietro le quinte di Rafsanjani, ma che comunque la Repubblica islamica non sarà mai più la stessa. O perché avranno successo le manovre degli oppositori (tuttora improbabile), o perché il regime avrà perso la sua principale fonte di legittimazione, quella clericale, diventando una volgare dittatura militare che si regge solo sulla forza. E ciò a lungo andare non mancherebbe di produrre delle conseguenze.

La frattura tra «la vecchia guardia khomeinista e la generazione post-rivoluzionaria», che Molinari descrive bene oggi su La Stampa, appare insanabile anche perché nel medio e lungo periodo c'è «in palio ciò che più conta: la successione a Khamenei». La rielezione di Ahmadinejad sarebbe solo una fase intermedia dell'evoluzione del sistema khomeinista, che iniziata dalla sua prima vittoria nel 2005 verrebbe portata a compimento dalla Guida Suprema indicando come suo successore il figlio prediletto Mojtaba.
«La vecchia guarda khomenista nel 2005 perse lo scontro presidenziale con la fazione dei Khamenei quando Rafsanjani venne sconfitto a sorpresa dal quasi sconosciuto Ahmadinejad. Anche allora si parlò di brogli, con le voci su 8 milioni di schede a favore di Ahmadinejad fatte arrivare dall'estero proprio dai seguaci di Mojtaba, ma a prevalere fu poi una tregua che si è rotta quando il 12 giugno il khomeinista Mousavi si è visto strappare il risultato ancora una volta da Ahmadinejad».
La nomina di Mojtaba Khamenei a Guida Suprema, ottenuta scavalcando il Consiglio degli Esperti o imponendola - quindi al prezzo di minare la valenza e la credibilità religiosa dell'autorità posta al vertice della Repubblica - segnerebbe la definitiva «trasformazione dell'Iran in un sistema nepotista sul modello della Nord Corea - dove Kim Il Sung designò Kim Jong Il che ora indica il figlio 26enne Kim Jong Un». Un esito che naturalmente «non piace ai custodi del khomeinismo che, costituzione iraniana alla mano, ritengono che a designare il nuovo Leader Supremo debbano essere gli 86 esponenti del clero che siedono nel Consiglio degli Esperti».

Insomma, la Repubblica non sarà più la stessa anche, e soprattutto, se Khamenei dovesse trionfare e schiacciare l'opposizione interna al regime. Si trasformerebbe infatti in un sistema monocratico e nepotista, sul modello della Corea del Nord, sostenuto dalle forze di sicurezza e dalla generazione dei pasdaran, ancora più fanatica e millenarista degli ayatollah, mentre il clero di Qom verrebbe esautorato e relegato di fatto ad un ruolo essenzialmente cerimoniale, di legittimazione simbolico-religiosa, a conferma di ciò che dicevamo fin dalle prime ore della crisi: in gioco c'è la natura stessa della dittatura, se cioè debba essere una dittatura clericale o militare.

Semplificando al massimo si potrebbe affermare che in questa situazione i veri "rivoluzionari" sono Khamenei e Ahmadinejad, mentre i loro oppositori, da Mousavi a Rafsanjani, sono i "conservatori", che vogliono salvare il sistema khomeinista riformandolo. Un ruolo che li avvicina, come ha suggerito più di un analista (da Luttwak a R. D. Kaplan, fino a Gerecht), a quello svolto negli anni '80, suo malgrado, da Gorbacev, le cui riforme «molto caute, pensate per perpetuare il regime comunista, finirono per distruggerlo in meno di cinque anni». Che vincano i "rivoluzionari" o i "conservatori", dunque, la Repubblica islamica non sarà mai più la stessa e nonostante nelle intenzioni di entrambe le fazioni non ci sia un futuro democratico, non è detto che proprio la democrazia non sarà l'esito finale dei loro sforzi.

Mentre nelle strade va in scena la repressione, i tre principali leader del movimento di protesta (Mousavi, Karrubi e Rafsanjani) sono impegnati dietro le quinte in un dibattito su quale strategia perseguire per opporsi al disegno di Khamenei. Amir Taheri, sul New York Post, spiega che Mousavi «ha adottato un approccio minimalista», che somiglia alla strategia del leader sindacale polacco Lech Walesa negli anni '80 e che consiste nell'avanzare «una singola richiesta, all'interno dell'ordinamento, che se accolta potrebbe cambiare le regole del gioco».

Mousavi chiede nuove elezioni e questa chiara, semplice richiesta ha il pregio di non essere di per sé sovversiva e di raccogliere il più vasto consenso possibile lungo l'intero spettro politico. E' «importante», però, perché questa strategia abbia qualche chance di successo, «che le principali potenze straniere rifiutino di legittimare un secondo mandato di Ahmadinejad. La prospettiva di un maggiore isolamento internazionale potrebbe persuadere più personaggi dell'establishment ad unirsi alla richiesta di nuove elezioni». E qui già la comunità internazionale si dividerebbe, visto che Russia e Cina non avrebbero problemi a riconoscere la rielezione di Ahmadinejad.

Secondo Karrubi invece l'opposizione dovrebbe avanzare «un'agenda più ampia». Karrubi, spiega Taheri, «ha rotto forse il più grosso tabù politico del sistema khomeinista mettendo in discussione la nomina di Khamenei a Guida Suprema». Non vuole solo nuove elezioni, ma anche la «revisione» delle procedure di nomina di Khamenei, una «maggiore autonomia per le minoranze etniche», limitare l'intervento delle forze armate in politica, e altre modifiche costituzionali «per enfatizzare l'aspetto repubblicano del regime rispetto a quello religioso».

Rafsanjani, riferisce Amir Taheri, è «pazzo di rabbia contro Ahmadinejad e sta lavorando duramente per impedire al presidente rieletto di completare il suo secondo mandato di quattro anni». Rafsanjani e Mousavi sono stati «acerrimi nemici politici» negli anni '80. «Nel 1989, Rafsanjani, alleandosi con Khamenei, elaborò modifiche costituzionali che abolirono la carica di primo ministro, spedendo Mousavi in esilio politico per vent'anni. Ora si dice che siano amici per la pelle, determinati a ritornare al potere. Tuttavia, Rafsanjani crede che la strategia minimalista di Mousavi condurrà ad un impasse: il regime può ondeggiare da una parte all'altra, come ha fatto per dieci giorni, finché non riprende il controllo».

La strategia di Rafsanjani invece, spiega Taheri, «mira a formare un'autorità ad interim appoggiata dai grandi ayatollah di Qom. Una volta posta in essere, il Consiglio degli Esperti, che ha il potere di rimuovere la Guida Suprema, potrebbe essere usato come una minaccia per Khamenei, costringendolo a cooperare con il rischio di perdere il posto». Sarebbero 50 finora le figure religiose di spicco (tra Marja Taqlid e Ayatollah) della città santa di Qom ad aver assunto una posizione di forte critica nei confronti di Khamenei, e ad essersi schierati, quindi, con Rafsanjani, almeno secondo quanto riporta il giornale kuwaitiano al-Watan. «Rafsanjani - spiega una fonte iraniana al giornale arabo - è impegnato da diversi giorni in una visita a Qom e ha lavorato in tutto questo tempo per convincere i religiosi locali a dare vita a un nuovo organismo che sostituisca l'istituzione della Guida Suprema. La riforma chiesta da Rafsanjani trasformerebbe il cosiddetto Wali Faqih in un osservatore del regime e non più capo supremo».

«In breve - conclude Amir Taheri - Mousavi mira ad un accordo di condivisione del potere nel quale Khamenei e suoi rimarrebbero la parte maggioritaria nell'elite al potere. Karrubi e Rafsanjani ritengono invece che per conquistare il potere Khamenei debba essere marginalizzato o cacciato. Imprevedibile è l'atteggiamento del popolo iraniano. Nessuno sa quali di queste strategie siano in grado di mobilitare le sue energie, sempre che ce ne sia una».

Se Taheri ha paragonato Mousavi al leader sindacale polacco Lech Walesa, secondo Charles Krauthammer «la rivoluzione iraniana è alla ricerca del suo Yeltsin». «Senza leadership, i manifestanti scenderanno in strada per prendersi gas lacrimogeno, bastonate e pallottole. Hanno bisogno di un leader come Boris Yeltsin: una ex figura dell'establishment con nuove credenziali e legittimità rivoluzionarie, che salga su un carro armato e che indichi la direzione chiedendo l'impensabile - l'abolizione del vecchio ordine politico». Krauthammer vede ormai il movimento «sulla difensiva, in ritirata». «Per riprendersi, ha bisogno della massa, perché ogni dittatura teme il momento in cui dà l'ordine ai suoi uomini armati di sparare sulla folla. Se lo fanno (Tienanmen), il regime sopravvive; se non lo fanno (la Romania di Ceausescu), i dittatori muoiono come cani. L'opposizione ha anche bisogno di uno sciopero generale e di grandi cortei nelle città principali - ma stavolta con qualcuno che si alzi in piedi e che indichi la via da percorrere».

Ora c'è da chiedersi se Mousavi possa diventare lo Yeltsin iraniano. «Finché Mousavi rimane in sospeso tra Gorbacev e Yeltsin, tra il riformatore e il rivoluzionario, tra la figura simbolo e il leader, la rivoluzione è in bilico... Ma ora deve scegliere, e velocemente. Questo è il suo momento, e svanirà presto. Se Mousavi non lo coglie, o qualcun altro non lo coglie al suo posto, la rivolta democratica in Iran finirà non come in Russia nel 1991, ma come in Cina nel 1989», conclude Krauthammer.

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