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Friday, June 26, 2009

L'idea del contagio democratico riprende quota

Se il "regime change" in Iraq non era poi un'idea così scema

Il movimento democratico iraniano potrebbe trasformare l'intera regione. Alla luce di quanto sta accadendo in questi giorni a Teheran, la questione del nucleare iraniano potrebbe rientrare a far parte del più ampio tema della democrazia in Iran e in Medio Oriente. La lotta per la democrazia in Iran ha oggi (o dovrebbe avere) la stessa centralità per la politica estera americana che aveva negli anni '80 la lotta per la democrazia in Europa orientale. Ne è convinto Robert D. Kaplan, realista "muscolare" del Center for a New American Security e corrispondente del The Atlantic. Kaplan non è un neocon, né un sognatore democratico. Eppure, sul Washington Post, ha spinto la sua analisi ben oltre l'Iran: «Le manifestazioni a Teheran e in altre città hanno la capacità di preludere a una nuova era politica in Medio Oriente e in Asia centrale».

Kaplan ricorda la storica capacità dell'Iran (che fu della Persia) di influenzare tutta la regione, dal Mediterraneo all'India. Una capacità di proiettare la propria influenza che risale indietro nei secoli, a molto prima della rivoluzione khomeinista. Inoltre, per molti aspetti la società iraniana è più evoluta di quelle dei suoi vicini arabi e le istituzioni sono più solide.
«Il movimento democratico in Iran è sorprendentemente occidentale nella sua organizzazione e nel sofisticato uso della tecnologia. In termini di sviluppo, l'Iran è più vicino alla Turchia che non alla Siria o all'Iraq. Mentre questi ultimi vivono nella possibilità dell'implosione, l'Iran ha una coerenza interna che gli permette di esercitare forti pressioni sui suoi vicini. Nel futuro, un Iran democratico potrebbe esercitare su Baghdad un'influenza tanto positiva quanto è stata negativa quella delle squadracce assassine dell'Iran teocratico».
Dunque, osserva Kaplan, «l'Iran è così centrale per le sorti del Medio Oriente che anche un cambiamento parziale nel comportamento del regime - e un maggior grado di sfumature nel suo approccio nei confronti dell'Iraq, del Libano, di Israele e degli Stati Uniti - potrebbe influire in modo determinante sulla regione. Proprio come un leader radicale iraniano può fomentare le Arab streets, un riformatore può stimolare l'emergente, ma stranamente opaca, borghesia araba». Per questo Kaplan non è d'accordo con Obama quando dice che tra Mousavi e Ahmadinejad in fondo non c'è tutta questa gran differenza. Questa «rappresentazione» di Mousavi come di «un radicale, sebbene all'apparenza più gentile e affabile di Ahmadinejad, non coglie il punto». Come nella ex Unione sovietica, spiega Kaplan, anche in Iran «il cambiamento può arrivare solo dall'interno» e solo per opera di «un insider, sia un Mousavi o un Gorbacev».

Kaplan non solo conclude che «la lotta iraniana per la democrazia è oggi così centrale per la nostra politica estera come lo fu la lotta per la democrazia in Europa orientale negli anni '80», ma ritiene addirittura che ciò che sta avvenendo in Iran è il frutto intenzionale del regime change in Iraq, suggerendo quindi che non era del tutto campata in aria l'idea dei neocon, fatta propria dalla prima presidenza Bush, secondo cui la caduta del regime baathista in Iraq avrebbe provocato un effetto domino sui regimi dittatoriali confinanti.

Tutti coloro che hanno sostenuto la guerra in Iraq sapevano bene che la caduta del sunnita Saddam «avrebbe rafforzato la componente sciita nella regione», ma il punto è che «ciò non era visto necessariamente come un effetto negativo». I terroristi dell'11 settembre, spiega Kaplan, erano originari di dittature sunnite come l'Egitto e l'Arabia Saudita, «la cui arroganza e avversione per le riforme doveva essere placata riaggiustando l'equilibrio di potere regionale in favore dell'Iran sciita». In tutto ciò, «si sperava che l'Iran avrebbe vissuto la propria rivoluzione, se l'Iraq fosse cambiato. Se l'occupazione dell'Iraq fosse stata gestita in modo più competente, questo scenario avrebbe potuto svilupparsi più rapidamente e in modo più trasparente. Nonostante ciò, si sta verificando. E non solo l'Iran è alle prese con una sollevazione democratica, ma anche Egitto e Arabia Saudita si stanno silenziosamente riformando».

«Il Medio Oriente - conclude Kaplan - è entrato in un periodo di profonda fluidità, destinata ad essere accentuata dalle elezioni in Iraq alla fine di quest'anno e dall'insediamento di un governo filo-occidentale in Libano». Per la sua posizione centrale nella regione, sia dal punto di vista geografico che demografico - per non parlare della forza attrattiva della cultura persiana che giunge fino all'Asia centrale - «l'Iran, ironicamente, ha più possibilità di dominare la regione sotto un dinamico regime democratico di quante ne abbia mai avute sotto la sua elite oscurantista. E potrebbe essere un'ottima notizia per gli Stati Uniti».

L'idea del possibile, anche se lento e non lineare, contagio democratico in Medio Oriente riprende quota. «Se lo sviluppo della democrazia in Medio Oriente non è lineare - scrive Michael Gerson sul Washington Post - non è neanche casuale. Si muove a piccoli passi, ma va avanti. Preso nel suo insieme - una democrazia costituzionale irachena, un potente movimento di riforma in Iran, piccole conquiste democratiche dagli sceiccati del Golfo al Libano - questo è il più grande periodo di progresso democratico nella storia della regione». Sembra evidente che il Grande Medio Oriente «non è immune al contagio democratico e ci sono motivi di credere che l'agenda democratica rimarrà centrale per la politica estera americana, a prescindere dagli umori del momento».

L'avanzamento della libertà in Medio Oriente è «la speranza migliore per l'America», innanzitutto da un punto di vista realista e non solo idealista. «I regimi che opprimono il loro popolo sono con maggiore probabilità quelli che minacciano i loro vicini, che sostengono i gruppi terroristici, che alimentano antiamericanismo e antisemitismo, e che cercano di dotarsi di armi di distruzione di massa». La promozione della democrazia d'altra parte ha sempre contraddistinto la politica estera dei presidenti americani. «Il loro idealismo democratico non gli ha impedito di trattare con il "demonio", ma solo di credere che il futuro appartenga ai "demoni"». La promozione della democrazia è «difficile e reversibile», ma «non è nuova, né un optional».

1 comment:

Anonymous said...

sì, sì, le parole sono tante e belle ma a me risulta che amadin abbia messo mani in ogni aspetto dell'apparato statale.

sarà difficile che cambi qualcosa senza...sangue.

voglio essere smentito...

io ero tzunami