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Tuesday, June 30, 2009

La repressione funziona, ma l'Iran non sarà mai più come prima

Solo chi si aspettava come esito della crisi post-elettorale in Iran una "rivoluzione di velluto" (impossibile in regimi le cui forze armate e di sicurezza sono disposte a sparare e a massacrare il proprio popolo), o comunque da un giorno all'altro il rovesciamento del regime, può sorprendersi della cruda e amara realtà che sta emergendo in queste ore e che ben conosce chi non per la prima volta si interessa di regime change e di promozione della democrazia: le repressioni funzionano.

E la repressione attuata dal regime iraniano nei giorni scorsi è andata ben oltre il sangue versato in grandi quantità sulle strade, che nonostante le censure è arrivato sotto i nostri sguardi. Ci sono gli arresti, le detenzioni segrete, le violenze fino dentro le case private, l'intimidazione dei già timidi oppositori "leali" alla rivoluzione islamica. Insomma, in una parola, un terrore generalizzato che non lascia via di scampo. Decisiva è stata la capacità delle forze di polizia, dei pasdaran e dei bassiji, di impedire ai manifestanti di occupare in massa una piazza, ergendola a simbolo della protesta, come fecero gli studenti cinesi a Tienanmen o gli ucraini della rivoluzione "arancione".

Il sequestro dei nove dipendenti iraniani dell'ambasciata britannica e l'appello a «giustiziare i rivoltosi» lanciato dall'ayatollah Khatami (da non confondere con il Khatami "riformista", che ha confermato il suo appoggio a Mousavi) preludono a un secondo atto della repressione. Domata la piazza "riformista", la lotta potrebbe spostarsi dietro le quinte, oppure potrebbe essere la volta dell'epurazione interna all'establishment per blindare il nuovo assetto di potere voluto da Khamenei, che si poggia più sulla casta dei militari, sulla coercizione e sul nazionalismo, che sulla casta clericale e sulla religione.

Una purga che potrebbe non lasciare alcuno scampo ai Mousavi e ai Rafsanjani, i quali in queste ore dovranno decidere una volta per tutte la loro posizione. Rafsanjani sembra aver perso (almeno per ora) la partita per portare dalla sua parte - e contro Khamenei - la maggioranza del clero che conta nella città santa di Qom e nella sua prima uscita pubblica dall'inizio della crisi sembra aver afferrato la mano tesa di Khamenei. Venerdì scorso, rispetto al suo discorso del venerdì precedente, Khamenei ha ammorbidito i toni, «invitando entrambe le parti a non fomentare gli animi dei giovani e a trattanersi dal mettere gli iraniani gli uni contro gli altri. Questa nazione unita non deve essere divisa e i gruppi non devono essere spinti a muoversi l'uno contro l'altro. Ci sono vie legali per risolvere i problemi». Ieri Rafsanjani ha finalmente rotto il suo silenzio e le sue parole sono sembrate fin troppo in sintonia con quelle di Khamenei. Elogiando la decisione della Guida Suprema di prolungare i termini dell'indagine del Consiglio dei Guardiani sulle irregolarità del voto, ha auspicato che le contestazioni siano esaminate con accuratezza, onestà e correttezza, invitando però i candidati sconfitti a «rimuovere gli ostacoli per superare le divergenze», avvertendoli che «un atteggiamento sbagliato potrebbe portare a ulteriore odio e divisione tra i cittadini».

Un invito che Mousavi e Karroubi sembrano non intenzionati a raccogliere, ma che lascia intendere che la fronda interna tentata da Rafsanjani è fallita (per ora). Bisognerà vedere ora se Rafsanjani raggiungerà un compromesso stabile e soddisfacente con Khamenei, o se la sua è solo una ritirata tattica per giocare al meglio le sue carte in un altro momento, in una seconda occasione che però potrebbe anche non arrivare mai.

L'impressione è che comunque, nonostante il successo della repressione, nulla sarà più come prima. Sia perché il regime ha cambiato natura; sia perché potrebbe comunque essersi messo in moto un processo a suo modo rivoluzionario. La frattura interna è difficilmente ricomponibile e il potere accentrato nelle mani di un gruppo ancora più ristretto di ayatollah e militari, non lasciando agli altri che le briciole o la strada della cospirazione.

Secondo Reza Aslan, «la trasparente brutalità della repressione ha polarizzato la politica iraniana a tutti i livelli, obbligando le elite politiche e religiose a prendere posizione», e «la sorte dell'Iran dipende da che parte si schiera l'establishment clericale». Se si convinceranno che l'ascesa delle Guardie rivoluzionarie rappresenta una minaccia al loro ruolo di custodi e amministratori della Repubblica islamica, «allora si schiereranno dalla parte dei "riformisti" al fianco di Rafsanjani e Mousavi», se non altro per contare di più. In questo caso, l'Iran potrebbe intraprendere una strada simile a quella della Cina, di riforme interne e apertura alla comunità internazionale. Se invece il clero si schiera con Khamenei, «che ogni giorno che passa sembra sempre di più un vecchio idiota delle Guardie rivoluzionarie», allora diventerà probabilmente una dittatura militare «simile alla Corea del Nord o al Myanmar».

Anche per Amir Taheri l'elite dominante è divisa e «la frattura riguarda tutti i settori che costituiscono l'establishment khomeinista»: il clero sciita politicamente attivo, con Montazeri e altri mullah dalla parte dell'opposizione, e Yazdi e Ahmad Khatami con Khamenei, ma anche le forze armate e i tecnocrati. Sarà «interessante» vedere cosa accadrà quando si riuniranno gli «organi chiave del regime», come l'Alto Consiglio per la Difesa nazionale, «di cui sia Ahmadinejad che Mousavi sono membri d'ufficio, insieme agli ex presidenti Rafsanjani e Khatami. Metà potrebbe schierarsi con Mousavi e l'altra con Ahmadinejad». Poi c'è il Consiglio per il Discernimento dell'Interesse supremo del regime, «del quale Rafsanjani è a capo, con Rezai, uno dei tre candidati alla presidenza sconfitti, segretario generale. Ma almeno metà dei suoi membri ha espresso sostegno ad Ahmadinejad». «Simile» la situazione nel Consiglio degli Esperti. «Rafsanjani presiede l'assemblea, ma (almeno per ora) non ha la maggioranza dei due terzi necessaria per rimuovere Khamenei». La divisione in Parlamento è «ancor più evidente». Secondo alcune stime, un terzo tenderebbe verso Mousavi, un altro terzo verso Ahmadinejad, e il rimanente terzo sarebbe incline a orientarsi verso il vincitore.

«La frattura - conclude Amir Taheri - potrebbe portare a una sanguinosa resa dei conti, al termine della quale il vincitore lancerebbe una massiccia purga». Secondo Taheri, infatti, «nel sistema khomeinista non c'è spazio per il compromesso, sia all'interno che in politica estera». Che la Repubblica islamica non sarà mai più la stessa è convinzione anche di analisti molto cauti e "realisti". Come Fareed Zakaria, secondo cui «per ora il regime sarà probabilmente in grado di usare armi e denaro per consolidare il suo potere», ma la sua «legittimità», osserva, è «compromessa», una «ferita fatale nel lungo termine».

Pepe Escobar, su Asia Times, scrive che «il muro di Teheran non è caduto» e che «il mondo, e in particolare l'Occidente, dovranno ancora convivere e avere a che fare con Khamenei, Ahmadinejad e l'ala dura delle Guardie rivoluzionarie per gli anni futuri». Questi vogliono liquidare la vecchia generazione dei leader della rivoluzione, come l'ex presidente Rafsanjani. «In tutto questo - osserva Escobar - ci sono degli echi dell'ex Unione sovietica, ma ciò che è accaduto nelle strade somiglia più a una Praga 1968» che al 1989. Eppure, anche per l'analista di Asia Times la Repubblica islamica non sarà mai più la stessa. Schierandosi con Ahmadinejad, Khamenei si è trasformato da arbitro a capo-fazione. «Il contratto sociale tra milioni di iraniani e la rivoluzione si è rotto. Nel lungo termine, ci sarà del sangue, certo, e resistenza. Quella iraniana è una società molto complessa. Non può esserci alcuna marcia indietro. Ma sarà una strada lunga e tortuosa».

Nonostante abbia indurito i toni della sua condanna nei confronti della repressione e abbia schierato l'America dalla parte dei manifestanti, il presidente Obama è rimasto inamovibile nella sua politica di engagement con il regime iraniano, chiunque ne sia nominalmente la Guida. Eppure, alla luce di quanto accaduto e dei pochi punti fermi che abbiamo individuato, quella politica appare oggi superata e poco "realistica". Il colpo di mano autorizzato da Khamenei ha minato alle fondamenta l'autorità della Guida Suprema, che da arbitro e supremo garante di un sistema teocratico è diventato il capo-fazione di una dittatura militare; le leve del comando reale si stanno sempre più spostando dalla casta clericale (con o senza il consenso di tutto il clero sciita non ha importanza) alla casta militare. Ciò significa che il fattore religioso è destinato ad assumere un ruolo di mera legittimazione simbolica, e che il regime si regge sui pilastri del militarismo e del nazionalismo; e che, quindi, l'antiamericanismo e il ricorso alla paranoia del nemico esterno saranno d'ora in avanti ancor più indispensabili come collante ideologico per giustificare la repressione della piazza e l'epurazione tra le file dell'establishment.

Ancor più di prima, dotarsi dell'atomica e non giungere ad alcun compromesso con il "Grande Satana" saranno elementi irrinunciabili per conservare il potere. Per questo le già esigue possibilità di successo della strategia del dialogo sul nucleare perseguita da Obama appaiono oggi prossime allo zero. Non potendo sperare né in un completo isolamento internazionale, né in un embargo efficace sulle esportazioni delle risorse energetiche - essendo note le posizioni di Russia e Cina in merito - gli unici punti deboli del regime sono la sua impopolarità e la frattura che si è creata al suo interno. L'unica speranza, oltre a tentare la rischiosa "opzione Osirak", e a prepararsi a una costosa e fragile deterrenza, è il regime change.

3 comments:

1972 said...

Con tutta la stima, Federico, e lo sai... Io credo che tu stia dando troppe cose per scontate. L'evoluzione del regime, se ci sarà, è tutta da misurare e al momento quelle degli esperti che citi sono solo una serie di speculazioni di cui francamente è difficile vedere un'attinenza con la realtà.
Sono d'accordo con la tua conclusione ma, anche qui, non riesco proprio a capire cosa c'entri il regime change con Mousavi. Né cosa c'entri Mousavi con Walesa o perfino con Eltsin (che comunque è ancora un'altra storia). Hai provato a pensare a cosa avreste detto se Mousavi avesse vinto le elezioni?
Guarda, che le repressioni funzionino lo sappiamo tutti. Ma qui il problema politico non è la repressione (prevedibile), ma la natura della protesta. Solo che questa nessuno ha voglia di analizzarla.

Saluti.

Enzo

Anonymous said...

la piccola "rivoluzione" è finita...

game over.

io ero tzunami

JimMomo said...

Enzo, le cose in Iran non cambieranno da un giorno a una notte, né con una rivoluzione *solo* di piazza. Ma dovrà essere per forza di cose *anche* una lotta di palazzo che divida l'establishment e le forze armate. D'altra parte, le rivoluzioni hanno sempre portato con sé aspettative e obiettivi anche molto diversi tra loro, ma la fase rivoluzionaria è di per sé caos e instabilità il cui esito non è scontato. Un processo è un processo e non dev'essere per forza legato a un solo personaggio, che finora ha dato prova di debolezza e incertezza. Se siamo d'accordo su questo, non c'è che sperare che si sia messo in moto un processo. Per ora e finché il potere sarà saldamente nelle mani di Khamenei e Ahmadinejad l'evoluzione non può che essere in peggio, come ho scritto. Però mi pare che la base di consenso del regime sia ancora più ristretta e che al suo interno sia diviso. Queste sono delle buone notizie. In fondo non abbiamo visto altro che la conferma di ciò che per anni ha sostenuto Ledeen. Sì, io credo che insieme ai sostenitori di Mousavi e Khatami nelle strade di Teheran vi fossero soprattutto (e certamente c'erano tra quelli ammazzati o che hanno rischiato la vita) una protesta anti-sistema e istanze di libertà.

Se hai letto i miei post dovresti sapere che non mi sono illuso su Mousavi, che non è ancora un Walesa né tantomeno un Eltsin (erano auspici di Taheri e Krauthammer), ma sarebbe sbagliato ridurre a Mousavi le manifestazioni così di massa in cui la gente ha sfidato l'autorità della Guida Suprema ben prima e ben più del suo candidato. Sulla radicalità della protesta non ho letto analisi riduttive se non quelle "iper-realiste" che sostenevano plausibile la vittoria di Ahmadinejad al primo turno con quelle percentuali.
ciao