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Thursday, May 14, 2009

Aung San Suu Kyi e lo strano "ospite" americano

E' stata prelevata dalla polizia questa mattina alle 7 ora locale Aung San Suu Kyi, e rinchiusa nel carcere di Insein, a nord di Yangon. Premio Nobel per la pace nel 1991, la leader democratica che si batte contro la dittatura militare al potere in Birmania dal 1962 ha trascorso 13 degli ultimi 19 anni agli arresti domiciliari nella sua casa-prigione al numero 54 di University Avenue, a Yangon. I capi d'accusa nei suoi confronti si basano sulla sezione 22/109 del codice penale, la legge sulla sicurezza nazionale. Sarà processata il 18 maggio prossimo e se giudicata colpevole rischia dai 3 ai 5 anni di reclusione.

Il nuovo arresto è legato a una vicenda ancora molto oscura, su cui è già intervenuto 1972. In breve, è accusata di aver violato i domiciliari per aver ospitato nella sua abitazione, per due giorni, un 53enne americano, John William Yettaw. Ma l'uomo si era introdotto nella casa di nascosto, attraversando a nuoto il lago Inya, sulla cui riva si affaccia la villa dove è rinchiusa la dissidente, ed è stato arrestato la mattina del 6 maggio mentre cercava di allontanarsene, sempre a nuoto.

La strana coincidenza è che il 27 maggio sarebbero ufficialmente scaduti i termini degli arresti domiciliari, già prorogati arbitrariamente dai militari lo scorso anno. Quindi, c'è chi pensa che il regime abbia cercato, e infine trovato, il pretesto per mantenere la leader dell'opposizione birmana agli arresti anche per i prossimi anni. Nei giorni scorsi alcune fonti in Myanmar avevano riferito all'agenzia Asianews di «accuse montate ad arte» dal regime per «mantenere agli arresti domiciliari la "Cara signora"». Il governo stava cercando «ogni pretesto o espediente per giustificare una proroga del provvedimento», incurante delle condizioni di salute della donna, che «non sono buone: è molto debole e fatica a mangiare». Soffre di disidratazione e pressione molto bassa. Avrebbe persino bisogno di flebo per nutrirsi.

Secondo Kyi Win, il suo avvocato, il cittadino americano che si è introdotto nella sua abitazione sarebbe un «avventuriero» che avrebbe agito «di sua iniziativa». L'ambasciata americana ha più volte avanzato la richiesta di incontrare l'uomo, sempre respinta però dai vertici militari. Quindi gli interrogativi sulla vicenda si moltiplicano. Chi è John William Yettaw? Quali i motivi della sua azione? Com'è riuscito a violare uno dei luoghi più controllati del paese? Conosceva già Aung San Suu Kyi?

Gli esponenti della Lega nazionale per la democrazia sospettano una trappola organizzata dalla giunta stessa per incastrare la loro leader. Ma è più probabile, come ipotizza la rivista on line Irrawaddy, che Yettaw sia solo un mitomane ignaro delle conseguenze del suo gesto. In ogni caso, il regime ha preso la palla al balzo e ha prontamente utilizzato l'accaduto come prova della pericolosità della dissidente e dei suoi rapporti con potenze straniere. In questo modo la giunta militare cerca di fornire una cornice legale al prolungamento della detenzione di Aung San Suu Kyi: per la legge birmana, infatti, qualsiasi presenza notturna in un domicilio privato estranea al nucleo famigliare deve essere comunicata in anticipo alle autorità. Tre anni di detenzione la pena prevista per la mancanza di preavviso.

Unanime la condanna da parte di Stati Uniti e Paesi europei. L'ambasciatore birmano a Roma è stato convocato dal Ministero degli Esteri per una protesta ufficiale dell'Italia. Dov'erano però i governi occidentali in tutti questi mesi? Cosa hanno fatto per indurre la giunta militare birmana a liberare Aung San Suu Kyi e gli altri detenuti politici? La realtà è che Stati Uniti e Ue sanno indignarsi velocemente ma non sanno far seguire alle parole i fatti. Si sono ben presto dimenticati della Birmania, sia dopo la brutale repressione della rivolta dei monaci buddisti nel 2007, sia dopo il trattamento disumano riservato dalle autorità birmane alle proprie popolazioni colpite dal ciclone Nargis giusto un anno fa. La solita inutile missione dell'Onu è intervenuta a posteriori a sancire di fatto la "normalizzazione" del regime (spalleggiato dalla Cina).

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