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Thursday, January 31, 2008

Peccato per Giuliani, ora con MacCain

Le Primarie per le presidenziali Usa stanno riservando parecchie sorprese e oggi ne parlano, con approcci diversi ma entrambi interessanti, Christian Rocca, su Il Foglio, e Alberto Alesina, su Il Sole 24 Ore.

Una di queste sorprese mi ha provocato una profonda delusione. Rudy Giuliani ha perso in Florida, stato da cui aveva deciso di far partire la sua corsa verso la Casa Bianca, e si è ritirato. «Aveva il Paese in mano», secondo tutti i sondaggi prima che iniziassero le primarie, ma l'ha perso adottando una strategia suicida, che l'ha portato a snobbare la campagna nei primi piccoli stati, come Iowa e New Hampshire, puntando tutto sulla Florida come trampolino di lancio.

Scommetteva sul fatto che nessuno degli altri candidati repubblicani si sarebbe aggiudicato tutti gli staterelli insidiando la sua "pole position" e divenendo così il suo antagonista. Ciò in parte è avvenuto, ma è successo anche che Huckabee si è dimostrato più debole del previsto, Romney si è mantenuto competitivo, seppure a fatica, e McCain, dato per spacciato, è praticamente risorto dal nulla. Così, in Florida, Giuliani si è trovato di fronte due candidati già rodati che l'hanno sorpassato di slancio.

Una grave perdita per i Repubblicani, perché Giuliani, il Sindaco d'America, pur non essendo molto amato nel partito e palesemente odiato dai social conservative e dalla destra religiosa, perché troppo liberal e newyorchese, con il suo seguito negli stati dell'Est sembrava il candidato più adatto a contendere la presidenza a Hillary o ad Obama, sospinti dal vento democratico che spira negli Usa.

La lezione che si può trarre dalla sua sconfitta è che negli Stati Uniti nulla si deve mai dare per scontato. Si può venire sconfitti pur partendo da favoriti, per cui bisogna sempre giocarsela, dall'inizio, senza supponenza, e fino in fondo.

Annunciando il suo ritiro Giuliani ha subito espresso il suo appoggio a John MacCain: «Dio ti benedica John». Adesso speriamo che John ricambi e gli offra la vicepresidenza, ma un ticket del genere rischierebbe di alienargli le già tiepide simpatie dei social conservative. Un altro endorsement che potrebbe rivelarsi chiave per il senatore dell'Arizona è quello giunto dal governatore della California, Schwarzenegger, che forse avrebbe appoggiato Giuliani se non fosse uscito sconfitto dalle primarie in Florida.

Ancor di più di Giuliani McCain è odiato dall'establishment del partito per il suo spirito indipendente e bipartisan, anche se rispetto all'ex sindaco gode di una maggiore indulgenza da parte di social conservative e destra religiosa. I libertari come Ed Crane, del Cato Institute, e gli "anti-tasse" come Grover Norquist si fidano poco e lo considerano piuttosto un avversario. Anche McCain però, come Giuliani, è capace di esercitare una certa attrazione sugli elettori indipendenti e i democratici moderati, come il suo amico Lieberman, e quindi potrebbe avere qualche chance contro Hillary e soprattutto Obama.

Ecco il ritratto che ne fa Christian Rocca: «E' accusato di non essere un vero repubblicano, ma dall'aborto alla sicurezza nazionale, dalla politica fiscale alla limitazione della spesa pubblica è quanto di più repubblicano possa esistere. A differenza dei colleghi di partito, però, McCain crede che il surriscaldamento terrestre sia un vero problema, che la raccolta dei fondi elettorali debba essere regolata, che l'America debba restare un paese aperto all'immigrazione, che i giudici federali non possano essere ideologi, che i bilanci debbano tendere al pareggio e che spesso i leader della destra religiosa si comportino da "agenti di intolleranza"».

A poco a poco McCain sta conquistando la fiducia di «pezzi dell'establishment» e, sul fronte intellettuale, lo sostengono i neoconservatori del Weekly Standard, a cominciare da Bill Kristol che lo aveva sostenuto anche nel 2000 contro Bush. Bush, appunto, «il suo antico avversario». Il rapporto tra i due, ci informa Rocca, «ora è buono»: «McCain è stato l'unico alleato di Bush, quando il presidente ha deciso di mandare Petraeus in Iraq per cambiare rotta. Alle primarie Bush non si schiera, ma il suo ultimo discorso sullo Stato dell'Unione, pronunciato lunedì sera al Congresso e centrato su tutti i temi cari al senatore dell'Arizona (Iraq, veterani, spesa pubblica e immigrazione), a leggerlo bene è stato un semi endorsement per McCain».

Seppure a malincuore per l'uscita di scena di Giuliani, anche il mio irrilevante sostegno va ora a McCain.

Wednesday, January 30, 2008

Dietro Marini, trappolone "tedesco" anche per Veltroni

Dunque, incarico a Marini, più un "mandato esplorativo". Com'era prevedibile il Capo dello Stato ha voluto comunque tentare l'ultima carta. Ma il rischio, per Napolitano, è di esporsi a una figuraccia istituzionale.

Già, perché forse qualche margine c'è ancora per il presidente del Senato, ma si tratta di due-tre senatori, non certo delle nobili e larghe intese. Come ha spiegato bene oggi Stefano Folli, «non si tratterebbe di un "governo istituzionale" nel senso che si dà di solito a questa espressione: vale a dire un esecutivo di larga coalizione (dal Pd a Forza Italia) che si raccoglie, in casi eccezionali, sotto una bandiera istituzionale e non politica. La realtà è un'altra. Marini avrà contatti con tutti, ma si troverà ben presto di fronte alla sostanza delle cose: non esistono margini per una grande intesa perché almeno il 50 per cento del Parlamento è proteso verso le elezioni. Un dato di fatto che nemmeno D'Alema, vero regista di questa vicenda, può cambiare. Quello che forse è possibile realizzare sulla carta - è un debole governo di transizione, destinato a non avere la fiducia del Senato oppure a ottenerla per uno o due voti. Un governo Prodi-bis, ma senza Prodi. Rinchiuso dentro gli stessi limiti di una maggioranza di centrosinistra resa inesistente dalle ultime defezioni. Condannato, nella migliore delle ipotesi, alla stessa vita stenta del governo Prodi. Ma, a differenza di quest'ultimo, privo di legittimazione popolare... È tutto da dimostrare che un governo di questo tipo sarebbe di giovamento nella crisi di sistema in cui siamo immersi, nonché di aiuto alla stessa sinistra in affanno. Forse sposterebbe in avanti di qualche mese le elezioni. Ma a che prezzo?»

Di sicuro, l'unico scopo che giustifica la sua nascita - la riforma elettorale - non verrebbe raggiunto ed è probabile che neanche ottenga mai la fiducia del Parlamento. L'unico risultato di questa «machiavellica operazione», conclude Folli, sarebbe quello di «celebrare le elezioni anticipate con Romano Prodi fuori da Palazzo Chigi». Non proprio uno spot esaltante per la credibilità delle istituzioni, Quirinale compreso.

Dal punto di vista politico, incaricando comunque Marini il tentativo è di mettere l'Udc di Casini di fronte al fatto compiuto, sperando come minimo in una «scissione» pro-Marini. Si ritarderebbe il voto e la ricostituzione della CdL, e si avrebbe qualche settimana in più per tentare l'Udc con la carota della legge elettorale "alla tedesca".

Sarebbe più onesto, se davvero la preoccupazione principale fosse la riforma elettorale, che il Pd si presentasse a Berlusconi, Fini e Casini con un testo e su quello chiedesse di convergere. Tra Berlusconi (se fosse proposto il vassallum) e Casini (se fosse proposto il "modello tedesco"), uno dei due potrebbe decidersi a farlo.

Ma sono sempre le due idee diverse che i leader del Pd nutrono per il loro partito ad impedire quello sblocco sulla legge elettorale che potrebbe favorire la nascita di un governo istituzionale per le riforme. Se, per esempio, Veltroni cedesse e desse assicurazioni a Casini sul "modello tedesco", allora l'Udc potrebbe pensare di appoggiare il governo Marini. Tuttavia, Casini si è ritratto, perché con il Pd così diviso rischia solo di salvare ciò che rimane dell'Unione, esponendosi a un danno d'immagine enorme agli occhi dell'elettorato di centrodestra, senza avere garanzie neanche sulla riforma elettorale tedesca che desidera: sarebbe davvero un suicidio. Sempre ammesso che una volta ottenuto il tedesco trovi ancora qualcuno disposto a votare l'Udc dopo aver salvato il centrosinistra dalla debàcle elettorale.

Le sorti politiche del Paese sono quindi legate alla guerra intestina tra D'Alema e Veltroni per il controllo del Partito democratico. Il primo vuole evitare che si voti subito e con l'attuale legge elettorale a "lista bloccata", condizioni che consentirebbero al rivale, pur perdendo il governo, di vincere il partito, ridisegnando a proprio favore gli equilibri interni. Il secondo ovviamente preferisce almeno consolidare la sua leadership nel partito piuttosto che farsi logorare per un altro anno, magari ritrovandosi imprigionato in una linea che lo costringerebbe alla fine a proporre una legge elettorale su quel "modello tedesco" che ha sempre contrastato.

Dietro l'incarico a Marini e il «pressing disperato» su Casini, sotto gli auspici di D'Alema e della Cei, come anticipavamo giorni fa, trovando oggi sempre più conferme, c'è il disegno "tedesco" del quadrilatero Pd-Udc-Colle-Montezemolo, per far fuori Berlusconi (e Veltroni).

Dunque, oggi chi pensa ad una legge elettorale sul "modello tedesco" che favorisca la nascita di una "Cosa bianca" e una "Cosa rossa", alle quali il Pd dovrebbe allearsi dopo il voto, alternativamente a seconda delle congiunture e delle convenienze, chiede un governo istituzionale per portare a termine questo schema; chi invece, ha in mente un assetto tendenzialmente bipartitico, in cui due partiti (PdL e Pd) si contendano il centro dell'elettorato senza paludi di mezzo, preferisce "elezioni subito", perché o per via parlamentare (nel Pd la linea prevalente sarebbe quella di Veltroni), o referendaria, aumenterebbero le probabilità di approvare una legge elettorale che favorisca tale schema.

L'ultimo delirio

«Guardi, la questione è molto semplice. Tutte le persone di buon senso - da Montezemolo a Epifani, dai vescovi a Pannella!...». Così, al Corriere della Sera di oggi, Franco Bassanini riassumeva i confini di quel partito del non-voto che comprende, non c'è da stupirsi, tutti, ma proprio tutti, i cosiddetti "poteri forti", ma inaspettatamente anche Marco Pannella. Ieri ci chiedevamo se al leader radicale fosse sorto qualche dubbio su quella "bella" ma per lui inedita compagnia.

Al partito del non-voto si sono iscritti tutti i poteri corporativi, una «Grande coalizione» sociale che va da Confindustria alla Cei, dai sindacati a Confcommercio, uno straordinario blocco sociale, si sarebbe detto qualche tempo fa, per definizione conservatore, di cui proprio Pannella ci ha insegnato a diffidare in quanto espressione dei poteri oligarchici del regime. Lui ce li ha sempre indicati come tali. Oggi, caro Marco, per ragioni che ignoro ma che temo di intuire, tu stai con questi qui. Con tutti questi qui. Ed hai la spudoretezza, o piuttosto l'insensatezza, di ravvisare in questa crisi «un assedio, non dirò a quale Colle, che gran parte del ceto dirigente della oligarchia sta cercando di concludere» con le elezioni anticipate.

Ora, che il campo berlusconiano chieda di tornare subito alle urne per interesse di parte è certo; se tale esito rappresenti o meno un danno per il Paese, piuttosto che mandare avanti questa legislatura, è discutibile; ma per quanto "sfascisti", individuare in Berlusconi, Fini e Casini «gran parte del ceto dirigente della oligarchia», mentre dall'altra parte troviamo tutte le Conf, i sindacati, persino la Cei... No, non regge proprio, è ridicolo.

Dunque, o Pannella si è sempre sbagliato, la sua lettura è sempre stata fuorviante, e quindi quella è la parte "sana" del Paese, la più responsabile, e dall'altra parte solo gli "sfascisti", oppure oggi a Pannella conviene arruolarsi nel partito del non-voto semplicemente perché si trova in un vicolo cieco. Si arruoli, ma almeno lo faccia con discrezione, mestamente, senza sbraitare e delirare, ché tanto non convince più nessuno.

Tuesday, January 29, 2008

I redditi soffocati da euro e tasse

Quante volte ci è capitato di non riconoscere la nostra quotidiana esperienza di consumatori nelle statistiche ufficiali sull'inflazione? Ebbene, per una volta la percezione comune dei cittadini sembra trovare una corrispondenza statistica e una spiegazione logica nel rapporto diffuso ieri dalla Banca d'Italia sui bilanci delle famiglie.

Già da un'indagine di qualche giorno fa risultavano in Italia i redditi più bassi tra quelli percepiti nei Paesi Ue. Ora la Banca d'Italia avverte che nel periodo 2000-2006 il reddito delle famiglie con capofamiglia lavoratore dipendente è rimasto sostanzialmente fermo, con un aumento impercettibile dello 0,96%, mentre nello stesso periodo ha fatto registrare una crescita sostanziosa, del 13,86%, il reddito delle famiglie con capofamiglia lavoratore autonomo.

A fronte di un aumento di reddito solo dello 0,96% in un arco di tempo così lungo, è ovvio che anche i dati più ottimistici e confortanti sull'inflazione rappresentino un'oggettiva sofferenza per le famiglie con capofamiglia lavoratore dipendente e si prestino quindi ad essere percepiti come falsi. Basta osservare i dati Istat sull'inflazione nello stesso periodo, 2000-2006: +2,5% nel 2000; +2,7% nel 2001; +2,5% nel 2002; +2,7% nel 2003; +2,2% nel 2004; +1,9% nel 2005; +2,1% nel 2006. L'intero aumento di reddito che le famiglie con capofamiglia lavoratore dipendente hanno percepito nell'arco di sei anni non è sufficiente a recuperare il potere d'acquisto eroso dall'inflazione durante uno solo di questi anni.

Tra le interpretazioni che abbiamo letto oggi sui giornali, quella di Fabrizio Galimberti, su Il Sole 24 Ore, ci è parsa la più convincente, anche perché fa riferimento all'introduzione dell'euro (gennaio 2002). «Gli effetti sui prezzi, e soprattutto la differenza fra inflazione effettiva e inflazione percepita, hanno dato origine a molti studi, che hanno sostanzialmente confermato la correttezza delle rilevazioni dei prezzi e avanzato altre spiegazioni di quella discrasia. Ma non vi è dubbio che il change-over ha permesso a molte categorie, che hanno il controllo sui prezzi dei propri servizi (prezzi che non fanno parte necessariamente delle rilevazioni dell'Istat) di "approfittare" del nuovo metro monetario per appropriarsi di altre fette di reddito. Insomma, l'euro non ha influito sull'inflazione ma sulla distribuzione dei redditi».

Proprio in concomitanza con il passaggio dalla lira all'euro, mentre gli uni ritoccavano verso l'alto i prezzi di merci, beni e servizi - rincari che il mercato ha assorbito, visto che la gente ha continuato ad acquistarli - gli altri hanno visto il livello delle loro retribuzioni rimanere inviariato per anni, acutizzando in questo modo la percezione di un'elevata inflazione e determinando un reale impoverimento.

Ciò non autorizza a criminalizzare i lavoratori autonomi, che hanno lecitamente "approfittato" di un aumento dei prezzi reso possibile e indotto dal nuovo metro monetario e dalle conseguenti difficoltà di orientamento nella spesa da parte dei consumatori. Probabilmente hanno solo sfruttato la prima occasione buona per recuperare parti di reddito che gli erano precluse a causa di una tassazione troppo elevata e di una burocrazia asfissiante.

Rimane il problema: come permettere alle famiglie con capofamiglia lavoratore dipendente di recuperare il potere d'acquisto perduto in questi anni? Certa sinistra vetero-marxista, e purtroppo anche il Pd, potrebbero essere tentati di massacrare di tasse e studi di settore i lavoratori autonomi nel tentativo di redistribuire il reddito, in parte trasformandolo in servizi pubblici.

Non solo le famiglie, anche le imprese e lo Stato percepiscono redditi. Mentre dal 2000 il reddito disponibile delle famiglie è aumentato di poco, il Pil (che comprende il reddito disponibile delle imprese) è cresciuto di più, ma ancor più nettamente è cresciuto il reddito disponibile della Pubblica Amministrazione, quella parte della pressione fiscale che serve ai servizi pubblici. Insomma, concludeva ironicamente Galimberti, «in teoria le famiglie si possono consolare pensando che hanno ricevuto maggiori redditi virtuali attraverso i servizi pubblici. Ma non è affatto sicuro che ritrovino nella quotidiana esperienza questi benefici...» Infatti, quel reddito di cui i cittadini avrebbero dovuto usufruire tramite servizi pubblici efficienti è rimasto a dir poco virtuale.

Sarebbe un errore far leva sull'invidia sociale, scatenare nuove e fuorvianti lotte di classe tra lavoratori autonomi e dipendenti. L'unica soluzione, a nostro avviso, è tagliare radicalmente le tasse: detassare subito e completamente i nuovi aumenti salariali, gli straordinari e i premi di produttività, e magari introdurre una flat tax al 20% in 5 anni, che costringerebbe anche a ridurre la spesa pubblica. In ogni caso, tagliando in modo coraggioso le aliquote, si restituisce subito reddito nelle buste paga e si rimettono in moto i meccanismi della crescita economica in grado di produrre ulteriore reddito.

La Cei si schiera. E Pannella con tutti i "poteri forti"

«Auspichiamo un accordo fra le parti» e «che tutte le forze politiche mettano da parte gli interessi particolari e lavorino per il bene comune». E ancora: «Abbiamo grande fiducia nel giudizio e nelle capacità del presidente Napolitano». Dopo Montezemolo nei giorni scorsi, e i sindacati ieri, anche la Cei, tramite le parole del segretario generale, mons. Giuseppe Betori, offre implicitamente il proprio appoggio ai tentativi di Napolitano per una soluzione alla crisi di governo che non porti subito al voto.

Aspettiamo di vedere quante e quali voci si leveranno contro l'ennesima ingerenza del Vaticano, questa volta non su temi che riguardano la dottrina morale o sociale della Chiesa, ma direttamente su un delicatissimo snodo politico e istituzionale della Repubblica. E' evidente che il tempismo con il quale giunge la dichiarazione di Betori (proprio mentre Berlusconi e Veltroni salivano al Colle) dimostra da parte della Cei la volontà di far pesare la propria posizione in merito alla crisi nell'opinione pubblica e nelle valutazioni di Napolitano (e dell'Udc?). Un intervento che equivale a una consultazione al Quirinale. Chissà se i sedicenti laici che non volevano che il Papa parlasse all'Università La Sapienza se ne accorgeranno.

E così il cerchio dei cosiddetti "poteri forti" (anche se ci è sempre sembrata semplicistica questa lettura) si chiude: Confindustria, Sindacati, Vaticano, grandi giornali, oltre a ciò che rimane dell'Unione e al Pd, seppure con le diverse sfumature al suo interno, si schierano per un governo istituzionale e contro elezioni anticipate. A Pannella non viene alcun dubbio? E' in "buona" compagnia, nel non volere "elezioni subito" e nel demonizzare Berlusconi, ma non gli dice nulla quella compagnia? Non vede il fronte compatto che si prepara? Non si accorge che si sta intruppando da ultimo tra gli ultimi e disperati nei fasci oligarchici che da sempre hanno in mano questo Paese e al cui cospetto vedere nelle iniziative berlusconiane «una nuova marcia su Roma» è semplicemente ridicolo?

Delle due l'una: o i poteri forti sono in realtà anche i più responsabili (Vaticano compreso); oppure, quei poteri hanno bisogno di più tempo per "accomodare" i propri interessi in vista del nuovo corso, e allora le "minacce" di Berlusconi appaiono ben poca cosa di fronte a scelte poco trasparenti e certamente meno democratiche del ritorno alle urne.

Per Rudy la prima che potrebbe essere l'ultima

Mentre Obama incassa gli endorsement convinti ed entusiasti di Ted Kennedy e di mezza famiglia Kennedy, che potrebbero aiutarlo nelle Primarie ma rischiano di essergli letali nella eventuale corsa alla Casa Bianca, per Rudy Giuliani si avvicina il momento del debutto - e forse anche dell'addio - nelle Primarie repubblicane.

La rischiosa strategia di snobbare i primi Stati e concentrarsi sul voto in Florida (oggi dalle 13 all'una, ore italiane) e poi sul Big Tuesday del 5 febbraio ha permesso a due rivali ostici come McCain e Romney di prendersi la scena, i sondaggi e, forse, anche i voti.

Il paradosso per Rudy è che la prima spiaggia potrebbe in realtà rivelarsi anche l'ultima. Sarebbe un peccato, perché Giuliani rappresenta forse anche l'ultima spiaggia per i Repubblicani. Senza di lui in corsa aumentano le probabilità del ritorno dei Democratici alla Casa Bianca. Forse solo contro Obama McCain e Romney avrebbero qualche speranza. Tutti gli aspetti in questo punto della situazione di Andrea Mancia.

Monday, January 28, 2008

La vera vittoria sarà di chi si rinnova

Prodi o elezioni, era la minaccia che fino a qualche settimana fa veniva sbandierata ai quattro venti da tutti i principali maggiorenti del Pd, come prova della lealtà nei confronti del premier in carica. Un'ora dopo la caduta di Prodi, per gli stessi tornare subito alle urne diventava una sciagura, la «cosa peggiore» che si potesse pensare.

Ci vuole una nuova legge elettorale. Su questo ci sono pochi dubbi, ma su quale legge nessuno si espone. Sembra quasi che qualsiasi vada bene e che ci si divida tra sostenitori dell'attuale e promotori di una riforma, quale che sia. Se ci fosse un accordo di massima sull'assetto politico che questa nuova legge elettorale dovrebbe determinare, ci vorrebbero un paio di settimane per approvarla. Peccato che proprio il Pd sia diviso tra le correnti ad oggi più rappresentate in Parlamento (dalemiani, Popolari, rutelliani), per la bozza Bianco (sul modello tedesco), e il segretario e i suoi fedelissimi, per una versione più maggioritaria, come il vassallum. Ciascuna delle parti è spinta da un'idea diversa di Pd: per gli uni, un partito maggioritario che si allei dopo il voto, a seconda delle congiunture e delle convenienze, con la sinistra o con un "grande centro"; per gli altri, un partito maggioritario che corra e governi da solo.

Riconoscere la necessità di una nuova legge elettorale non vuol dire che vada bene una qualunque. Il modello tedesco consoliderebbe il ritorno a un sistema dagli esiti proporzionali. Dunque, se non fosse possibile approvare una legge maggioritaria e tendenzialmente bipartitica, a mio avviso sarebbe preferibile rimandare la discussione alla nuova legislatura, quando nel Pd la linea prevalente sarà quella bipartitica di Veltroni.

L'attuale legge elettorale ha accentuato l'instabilità connaturata nella coalizione prodiana, ma a ben vedere il suo effetto distorsivo ha giocato a favore di Prodi, e non contro. Non siamo partiti da una situazione in cui a fronte di una vittoria nelle urne, la legge ha prodotto una maggioranza numericamente striminzita in Senato, come erroneamente si pensa. Al contrario, l'Unione ha perso le elezioni per il Senato, ciononostante vedendosi attribuire una maggioranza, seppure risicatissima, di seggi. Dunque, Prodi e i suoi ministri dovrebbero esser grati a questa legge, che gli ha concesso di rimanere per venti mesi al governo, perché se il premio di maggioranza fosse stato assegnato a livello nazionale (come volevano Calderoli e la CdL) e non regionale (come ha voluto Ciampi), da subito il centrodestra si sarebbe trovato in maggioranza al Senato.

L'altro argomento per cui tornare subito al voto sarebbe la «cosa peggiore» è che bisogna affrontare le emergenze (le molte) che affliggono il nostro Paese, tra l'altro in un contesto economico internazionale di possibile recessione. Semmai, questo sembra un argomento a favore delle "elezioni subito", proprio per dare al Paese un governo politicamente responsabile, forte del sostegno e della legittimazione popolare per effettuare le scelte necessarie.

E tra i grandi giornali il Corriere della Sera è l'unico che si è sfilato dal coro che in questi giorni invoca un "governo per le riforme". Sergio Romano, motivando perché non si dovrebbe perdere altro tempo, ha ricordato come lo stesso Prodi abbia voluto determinare, facendosi sfiduciare dal Senato, le condizioni per una soluzione della crisi «conforme» agli interessi dell'opposizione, cioè le elezioni, mettendo così i bastoni tra le ruote a colui che ha individuato quale maggiore responsabile della sua caduta: il Pd di Veltroni.

Dal "retroscena" di Francesco Verderami, oggi sul Corriere, pare che Berlusconi e il Pd dovranno infine piegarsi dinanzi alla volontà del Quirinale di fare un tentativo, incaricando Marini o Amato per un governo "di scopo" (una nuova legge elettorale) e a termine. Aspettare un altro paio di mesi e votare a giugno sarebbe la mediazione tra le due posizioni - le elezioni subito, invocate da Berlusconi, e tra 8/12 mesi, come propone Veltroni. Certo, se Berlusconi si rifiutasse di appoggiarlo, tale governo sarebbe tutto fuorché quello che il presidente della Repubblica desidera per il Paese.

Veltroni anche oggi è tornato a chiedere all'opposizione di pazientare ancora 8/12 mesi. Un modo per ricordare che se anche le forze politiche non trovassero un accordo, entro il 15 giugno verrebbe comunque votato il referendum, vero obiettivo del segretario del Pd in merito alla legge elettorale.

Al di là delle apparenze, non c'è accordo nel Pd, neanche sul proseguimento della legislatura, e confermo che mi pare di vedere la posizione di Veltroni più compatibile con quella di Berlusconi. D'Alema, Marini e Rutelli sanno che votando subito sarebbe sconfitta certa ma, quel che è peggio, gruppi parlamentari e partito "veltroniani". Per questo vogliono innanzitutto buttare la palla avanti e, prima o poi, se sarà possibile, arruolando l'Udc far approvare una legge elettorale il più possibile ricalcata sul modello tedesco. Viceversa, Veltroni vorrebbe sì, innanzitutto, arrivare al referendum, ma si prepara ben volentieri alle elezioni anticipate, perché sa che votando entro l'estate si risparmierebbe la lunga guerra di logoramento che i suoi avversari gli stanno preparando nel partito e potrebbe plasmare il partito e i gruppi parlamentari.

Probabilmente solo chi avrà la forza e il coraggio di rinnovarsi davvero e per primo, avrà l'occasione di una vittoria vera e duratura, non solo elettorale, ma anche di governo. Così oggi il Berlusconi che vediamo correre verso le urne ripresentando il centrodestra tale e quale al 2006 - se non più deteriorato di allora nei rapporti, personali e politici, tra i leader e i partiti - si offre di tenere in mano quel cerino con il quale Prodi si è già bruciato.

Le vittorie, quella vere, solide, sono di chi sa prepararle rinnovandosi durante il tempo trascorso all'opposizione. Ds e Margherita non seppero o non vollero rinnovare il centrosinistra durante il Governo Berlusconi, ripresentandosi nel 2006 con Prodi e la sinistra comunista; non ha saputo o voluto farlo il Cav. durante questi due anni. Sembrava ben intenzionato con "l'annuncio del predellino", finito però in un nulla di fatto. Adesso si prepara sì a tornare al governo, ma in un quadro instabile, sorretto da una maggioranza probabilmente meno ampia di quella della scorsa legislatura (30 senatori di margine, se va bene, invece di 50), una coalizione ancor più litigiosa, due alleati il cui obiettivo manifesto è quello di logorarlo personalmente. E se nell'arco di un paio d'anni facesse la fine di Prodi e si tornasse a votare, «noi saremmo pronti per una vittoria vera e duratura, gli unici ad esserci rinnovati», scommette Veltroni...

Lo sosteniamo da tempo: la probabilissima sconfitta elettorale equivarrebbe ad un disastro, se il Pd si ripresentasse più o meno nella stessa formula prodiana, ma addirittura palingenetica se invece corresse da solo. Fuori dell'Unione, infatti, il Pd potenzialmente può «pescare» 10 punti percentuali in più, pur perdendo le elezioni. Anche a Berlusconi, quindi, converrebbe il referendum per lanciare il PdL e correre da solo.

Friday, January 25, 2008

Verso il voto. Berlusconi per il governo, Veltroni per il Pd

Pericolo "tedesco". Quadrilatero Pd-Udc-Colle-Montezemolo per far fuori Berlusconi (e Veltroni)

Ecco perché, al di là delle apparenze, la posizione di Veltroni è molto più vicina a quella di Berlusconi che a quella degli altri big del Pd. Dal vertice di questo pomeriggio il Pd è uscito con una posizione solo apparentemente unitaria: un governo per le riforme. Un governo istituzionale che per D'Alema, i Popolari e Rutelli deve evitare le elezioni anticipate entro l'estate, possibilmente spostando il ritorno alle urne alla primavera del 2009, e far approvare una legge elettorale sul modello tedesco, unico modo per ottenere il sostegno anche di Rifondazione e Udc. Anche D'Alema, i Popolari e Rutelli non vogliono che il Pd si allei più con la sinistra massimalista, ma vorrebbero favorire la formazione di un centro con il quale allearsi. Non a caso vengono citati Montezemolo e Casini e viene evocato un governo di "responsabilità nazionale".

Veltroni, invece, pur desiderando anch'egli una nuova legge elettorale prima del voto, la vuole maggioritaria, per far correre da solo il Pd e rendere impossibile l'operazione di un "grande centro". Ma non può permettersi di far passare l'estate, perché all'interno del partito si sta per scatenare una guerra di tutti, compreso Prodi, contro di lui. In ultima istanza, dunque, Veltroni sarebbe portato a preferire addirittura l'opzione berlusconiana "elezioni subito", così da approfittare di questa legge elettorale per far almeno eleggere i suoi fedelissimi nelle file del Pd e blindare la sua leadership.

Infatti, ciò che sembra rendere improbabile che un governo per le riforme possa oggi spianare la strada a una legge elettorale di tipo maggioritario e non "tedesco", è proprio il fatto che attualmente tra i parlamentari del Pd sono più forti le correnti dalemiane, mariniane e rutelliane. Dunque, Veltroni confida in Berlusconi per far saltare il tavolo e andare al voto comunque prima dell'estate.

Alla fine, anche a causa dell'insistenza del presidente Napolitano (che crediamo sia più favorevole al modello tedesco), è probabile che ci sia non lo scioglimento delle Camere ma un incarico, almeno sotto la forma di un mandato esplorativo, per la legge elettorale. Siccome Napolitano è determinatissimo, Berlusconi sa che alla fine dovrà concedere un tentativo. Quindi adesso, per garantirsi almeno tempi brevissimi, invoca "elezioni subito", anche con la legge attuale, che "va benissimo".

Il Pd proporrà Marini per tentare di coinvolgere l'Udc e arrivare al sistema tedesco. Ma Berlusconi (sapendo di far piacere anche a Veltroni) proporrà Letta, per garantirsi sul voto anticipato, sulle nomine pubbliche e su un sistema elettorale più maggioritario. Se poi, in breve tempo (circa due settimane), non dovesse arrivare luce verde per un sistema maggioritario, come purtroppo è probabile che sia, Berlusconi - e Veltroni, per quanto da dietro le quinte - sarebbero pronti a far saltare il tavolo e ad andare a votare ad aprile con l'attuale legge, rinviando al prossimo Parlamento un dialogo sulle riforme al quale il segretario del Pd parteciperebbe con i "suoi" parlamentari.

D'altra parte, a tutti piacerebbe una nuova legge elettorale per assecondare gli assetti politici che si hanno in mente. «Non ho fatto nessuna data. Ho solo detto che bisogna ridare la parola al voto il più presto possibile», precisava Berlusconi ieri a Porta a Porta, mandando un segnale di apertura; aggiungendo però che l'unica riforma fattibile sarebbe una piccola modifica alla legge attuale al Senato («ma una cosa rapida, da fare in un mese»), in modo da garantire a chiunque (?) dovesse vincere le elezioni un premio di maggioranza omogeneo in entrambe le Camere, che gli permetta di governare senza subire continui ricatti.

E oggi a Napoli ha detto che avrebbe «tutto l'interesse a tornare alla prima bozza Bianco», anzi al vassallum, «ma dall'altra parte non c'è coesione. Dio volesse, che ci fossero i voti per tornare a quella prima stesura». Anche Berlusconi è sinceramente preoccupato di succedere a Prodi portando con sé al governo una compagine forse più conflittuale di quando l'ha lasciato, nel 2006. I sondaggi cui il Cav. fa riferimento gli danno un margine di 30 senatori al Senato. Basti pensare che la volta scorsa Berlusconi aveva 50 senatori di vantaggio... eppure non è che abbia combinato molto. Ma di fronte all'eventualità di un governo istituzionale ambiguo rispetto alla sua durata, e troppo "tedesco" rispetto alla riforma elettorale, meglio cautelarsi invocando "elezioni subito" e alzando i toni dello scontro per creare un clima da campagna elettorale.

Siccome a noi non va bene qualsiasi legge elettorale, ma riteniamo che il Paese abbia bisogno di un sistema maggioritario e tendenzialmente bipartitico, se l'alternativa è il consolidamento del proporzionale con il modello tedesco, allora meglio votare subito con la legge attuale, che quanto meno favorirebbe in entrambe le parti attori politici interessati a un assetto bipartitico.

E Prodi? Non sono neanche trascorse 24 ore dalla sberla ricevuta ieri in Senato, che già parla da leader del Partito democratico. «Non posso essere io la persona che può adempiere al ruolo di guidare un governo per le riforme». Così si chiamava fuori dall'ipotesi di un reincarico a tempo e cominciava a dichiarare a nome del Pd, anticipando le conclusioni del vertice che era ancora in corso nel pomeriggio. «La riunione sta andando bene e soprattutto c'è un accordo crescente nel non volere elezioni anticipate e, quindi, trovare una linea sulla legge elettorale e un governo che faccia la riforma». Un segnale inquietante per Veltroni: "Tu hai distrutto la mia leadership nel Paese, ora io distruggo la tua nel Pd".

L'annunciata fine dell'utopia prodiana

Non è per correttezza istituzionale che Prodi ha voluto parlamentarizzare la sua agonia fino all'ultimo, ma per spirito vendicativo, per lasciare dietro di sé le macerie politiche del diluvio. Correttezza istituzionale vuole senz'altro che una crisi politica di governo sia affrontata e discussa dalle forze politiche nelle sedi istituzionali appropriate e a alla luce del sole, al cospetto dei cittadini. Ma il presidente Napolitano stesso, in quanto garante delle istituzioni, aveva suggerito a Prodi le dimissioni perché nella correttezza istituzionale rientra anche la tutela della legislatura, con la conseguente possibilità di dotare il Paese di una nuova legge elettorale che assicurasse una maggiore governabilità. Di questa esigenza, degna anch'essa di tutela dal punto di vista istituzionale, Prodi si è totalmente fregato e ha voluto assestare il suo ennesimo sfregio, che prelude ad altri atti vendicativi che avranno come sede e oggetto il Partito democratico e Veltroni, individuato - al pari di D'Alema nel '98 - come reale responsabile della sua caduta. Ma Veltroni oggi, come D'Alema allora, hanno semplicemente agito di fronte a una manifesta incapacità di governo. Che fare, se nessuno è al timone della nave?

Non sappiamo dire, in un Paese in cui neanche le sconfitte più atroci e clamorose segnano la fine delle carriere politiche, se ieri sera abbiamo assistito alla morte politica di Prodi. Magari resusciterà, come avversario di Veltroni nel Pd, come capocorrente scissionista, o come promotore di una lista in miniatura dell'Unione, che raccolga ulivisti di ferro e cuspuglietti prodizzati, come socialisti, radicali, dipietristi, verdi, comunisti italiani, sinistra democratica, con questi ultimi tre che dovrebbero comunque preferirgli la "Cosa rossa".

Ogni crisi politica, e ogni sconfitta, ha una causa di fondo e una scatenante. Quella scatenante è senz'altro l'attacco giustizialista che ha colpito Mastella, che per quanto infastidito da referendum, Pd e quant'altro, non crediamo avrebbe mai mollato la sua prestigiosa poltrona governativa. Settori giustizialisti della maggioranza e della magistratura, gelosa dei propri privilegi corporativi, arrembante e avida di potere moralizzatore sulla politica, avevano deciso da tempo di "purificare" la maggioranza di governo individuando in Mastella e nel suo partito l'unico capro espiatorio. A costoro deve innanzitutto dire grazie Prodi.

Ma, come dicevamo, esiste anche una causa di fondo. Ed è riguardo ad essa che entrano in gioco il Pd e Veltroni, ma non nel senso complottista che si intende comunemente. L'accelerazione della nascita del Pd e della discesa in campo di Veltroni come leader si devono a una presa d'atto da parte dei riformisti del centrosinistra - Ds e Margherita - del fallimento del governo e dell'idea di centrosinistra su cui poggiava: il prodismo, la cui fine avevamo decretato con molto anticipo, guarda caso poco prima che fosse avviata la costruzione del Partito democratico, progettato per sostituirsi ad esso. Persino alla luce dei risultati elettorali dell'aprile 2006, con quegli otto punti di vantaggio persi in poche settimane (e dodici in pochi mesi), era possibile preconizzare che il prodismo potesse tramontare ancor prima del berlusconismo.

In questo senso sì, Prodi può "prendersela" con il Pd veltroniano, anche se la sua caduta, più che dei ristretti margini numerici della maggioranza in Senato, è la conseguenza del crollo, del fallimento alla prova dei fatti, di quella che avevamo definito "utopia prodiana", l'idea cioè che l'Ulivo, alleandosi con la sinistra comunista e massimalista, potesse non solo "cacciare" Berlusconi e vincere le elezioni, ma anche governare il paese. "Senza l'ala radicale non si vince, ma con l'ala radicale non si governa". L'impegno dei vertici del centrosinistra negli ultimi dodici anni è stato sempre volto a smentire la seconda di queste due proposizioni. Mai si era tentato di smentire la prima, ma proprio per questo è nato il Pd. Questo «schema tattico ha dominato il bipolarismo italiano in questa lunga transizione», ammetteva mesi fa Veltroni, riferendosi alla eterogenea Unione prodiana, afflitta da paralisi decisionale.

Per dodici anni Prodi è stato l'unico possibile interprete e collante dell'eterogeneità della coalizione. Il prezzo pagato nell'arco di questo lungo periodo è stato l'incapacità della sinistra di fare i conti con se stessa, di accorgersi di quanto fosse ingombrante il suo passato, seppure oggi nella veste di uno statalismo e di un antagonismo post-ideologici, e quindi di diventare forza di governo.

Se in nessun paese europeo la sinistra democratica e liberale governa insieme a quella neocomunista ci deve pur essere un motivo. Il superamento di questa anomalia solo italiana, era ovvio, passava per il fallimento dell'"utopia prodiana".

Il Partito democratico avviava la sua missione storica, una nuova e alternativa idea di partito di centrosinistra, "di governo", a "vocazione maggioritaria", l'ha definito Veltroni, con l'imbarazzo di chi non poteva sbarazzarsi di un disastroso presente che aveva contribuito a realizzare, dovendo tuttavia obbligatoriamente preparare un futuro diverso. Le contraddizioni prima o poi non potevano che esplodere, ma non per una sleale concorrenza da parte di Veltroni nei confronti di Prodi, quanto per il fallimento manifesto di quest'ultimo.

Thursday, January 24, 2008

Prodi, ultimo atto. Liveblogging

Mentre Prodi sta pronunciando, come un disco rotto che gira sempre più lentamente, lo stesso discorso da tre giorni, apriamo questo breve liveblogging delle dichiarazioni di voto dal Senato. Le previsioni danno sfiduciato Prodi con almeno tre voti di differenza.

Previsione al termine delle dichiarazioni di voto: 156 sì, 161 no, 1 astenuto su 318 votanti

(Andreotti non ancora rientrato in aula e Fisichella incerto, ma probabile no*)

Finocchiaro (PD-ULIVO): sì

Schifani (FI): no

Matteoli (AN): no

Caprili (RC-SE): sì

D'Onofrio (UDC): no

Castelli (LNP): no

Salvi (SDSE): sì

Ripamonti (Verdi-Com.it): sì

Andreotti (senatore a vita) potrebbe non partecipare al voto

Peterlini (Autonomie): sì

Cutrufo (DCA-PRI-MPA): no

Formisano (Misto-Italia dei Valori): sì

Mastella e Barbato (Misto-Popolari-Udeur): no

Cossiga (senatore a vita): sì

Angius (Misto-PS): sì

Storace (La Destra): no

Scalera (Misto-LD): si astiene

Dini (Misto-LD): no

Manzione e Bordon (Misto-UD): sì

Fisichella (Misto): * non parteciperà al voto se anche gli altri senatori dimissionari (Franca Rame e Willer Bordon) non parteciperanno

Turigliatto (Misto-Sinistra Critica): no

De Gregorio (Misto-Italiani nel mondo): no

Rossi (Misto-Movimento politico dei cittadini): sì

Prodi contro tutti

Ciò che nutre ancora la speranza di Prodi di potercela fare ad ottenere la fiducia anche al Senato è il fatto che gli incerti, come Fisichella, i diniani e gli Ud Bordon e Manzione, e persino l'Udeur, che ha provocato la crisi, non vogliono quella fine traumatica della legislatura, quelle "elezioni subito", che uno scontro all'ultimo sangue in Senato provocherebbe, ma un governo di "tregua", istituzionale, innanzitutto per approvare una nuova legge elettorale, ciascuno con le idee diverse nel merito. Insomma, quelli da cui dipende la sua caduta, allo stesso tempo non vorrebbero tornare subito alle urne.

Così Prodi li sfida: se mi fate cadere avrete ciò che non volete. Poi ci sono le 600 nomine pubbliche con le quali può sempre "comprare" qualche assenza nel campo avversario, o qualche voto tra gli "incerti": i vertici di Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, Terna, Tirrenia non sono poca cosa.

Proprio per favorire uno scenario meno conflittuale, che rendesse possibile il proseguimento della legislatura con un governo di "tregua", istituzionale, soprattutto Napolitano e D'Alema si sono adoperati nelle ultime ore per convincere il professore a dare le dimissioni: "Se ti bocciano in Senato ti precludi la possibilità di un altro incarico". Un reincarico, un Prodi-bis di breve durata, a tempo, è stata l'esca con la quale hanno cercato di tentare Prodi, che però non si è fidato. Innanzitutto, crede possibile un reincarico anche venendo bocciato dal Senato mentre teme, a ragione, che da dimissionario verrebbe messo da parte in fretta. Inoltre, ciò che vuole evitare a tutti i costi è che la legislatura prosegua senza di lui. Dunque, non ha alcun interesse a svelenire il clima per permettere accordi sopra la sua testa. Prodi accarezza l'idea di essere di nuovo lui il candidato premier del centrosinistra se si andasse a elezioni anticipate, o comunque di mettere i bastoni tra le ruote di Veltroni presentando una sua lista salva-nanetti.

L'idea di D'Alema sarebbe stata quella di riagganciare Udeur e Udc promettendogli un governo di "tregua", di breve durata, per varare una nuova legge elettorale sul modello tedesco, con Veltroni emarginato nel ruolo dello spettatore. «L'operazione - ha spiegato ieri il sottosegretario Naccarato - è denominata "due piccioni con una fava". Cioè un modo per far fuori insieme Prodi e Berlusconi. Io ci aggiungerei anche un terzo piccione, Veltroni. L'idea è quella di portare in Parlamento un governo con un unico punto programmatico: una legge elettorale sul modello tedesco. Gli ideatori? Napolitano e D'Alema». Che l'operazione sia stata in campo è quasi certo. Che potesse riuscire, improbabile.

Casini chiedeva che Prodi rinunciasse ad andare in Senato e comunque avrebbe avuto molto da perdere in termini di immagine e voti, senza avere la certezza che il modello tedesco avesse potuto trovare i numeri in Parlamento. Era uno scenario ovviamente guardato con sospetto da Veltroni, cui non dispiacerebbe arrivare alle elezioni senza Prodi, ma non con il modello tedesco. Allora meglio l'offerta di Berlusconi, che il forzista Crosetto ha spiegato così: «Riforme tutti insieme dopo le elezioni. E intanto Walter va alle urne con questa legge che gli consente di scegliere lui chi mettere in lista e chi fare fuori».

Sull'altro lato, Berlusconi sembra consapevole infatti che tornare al governo con l'attuale legge elettorale, pur vincendo in modo schiacciante le elezioni, non lo metterebbe nelle migliori condizioni per governare. Fini e Casini tornerebbero da subito a perseguire l'obiettivo di logorarlo e l'Udc ha già preannunciato che all'indomani del voto lavorerebbe a un governo di "larghe intese".

«Io sono stanco, la macchina non c'è e soprattutto non ho la bacchetta magica. E invece ora tocca correre davvero e chissà come faremo...», riporta sul Corriere di oggi Marco Galluzzo, che spiega: Berlusconi «ha la consapevolezza che se tornasse al governo sarebbe comunque una via crucis». Al Senato avrebbe sì 30 o 40 senatori in più della sinistra, un'ampia maggioranza, eppure Berlusconi confida: «Sono preoccupato». Il margine al Senato potrebbe anche essere molto più largo di quello risibile di cui ha goduto Prodi, ma la pluralità di apparati da soddisfare renderebbe Berlusconi di nuovo ricattabile da An e Udc.

A questo punto le soluzioni a disposizione del Cavaliere sarebbero due. Una volta caduto Prodi, potrebbe rilanciare l'accordo con Veltroni per una nuova legge elettorale maggioritaria e tendenzialmente bipartitica - che però troverebbe difficoltà a trovare i voti in Parlamento, dove nel Pd sono più forti le correnti dalemiana, mariniana e rutelliana, favorevoli al modello tedesco - oppure per andare al referendum. E potrebbe, dopo la probabile vittoria, allargare comunque la sfera del consenso, coinvolgere in qualche modo il Pd o come minimo promuovere una "pacificazione nazionale" su alcune tematiche, con una formula ancora tutta da trovare: si va dalla "Grossa Coalizione" per la quale spinge l'Udc al "modello Sarkozy", su cui sarebbe d'accordo An, prendendo il meglio della sinistra, da Amato a Ranieri.

A Gaza torna in scena il cinismo arabo

Ciò che sta avvenendo nella Striscia di Gaza in questi giorni è un paradigma dell'ambiguità e del cinismo arabo nello sfruttare le sofferenze della popolazione palestinese, usata come vero e proprio "scudo umanitario". Un territorio già devastato da mal governo e corruzione, trasformato in un avamposto terroristico da cui far partire migliaia di missili contro Israele: negli ultimi due anni e mezzo, dopo il ritiro da Gaza, circa 9300. Ma Israele si trova costretto, per ragioni "umanitarie", a sostenere i suoi stessi nemici. Il paradosso infatti è che Gaza dipende in tutto e per tutto da Israele, il quale però, se non vuole essere denunciato al pubblico ludibrio internazionale, non può permettersi di negare neanche i rifornimenti di elettricità e carburante a chi poi lo ricambia del favore bombardando senza sosta le sue città.

Ad un certo punto, il governo israeliano ha detto basta e proclamato il blocco totale di Gaza, pur continuando a fornire energia agli ospedali e a garantire assistenza nei propri ai malati palestinesi. A seguito delle prime scandalizzate denunce di "emergenza umanitaria" e delle dure critiche nei confronti della reazione israeliana, definita «incomprensibile» anche dal nostro ministro degli Esteri D'Alema, le forniture sono riprese e i primi camion hanno ricominciato ad attraversare il confine. Ma subito sono ripresi anche i lanci di razzi Qassam (ieri una ventina sono caduti in territorio israeliano). Agli ospedali di Gaza provvede Israele, ma non manca mai l'energia per le officine in cui si costruiscono i missili da lanciargli contro per riconoscenza.

Israele non è l'unico stato ad aver posto ai propri confini un "muro" per impedire ai terroristi di attraversare i suoi confini. Ieri mattina Hamas ha fatto saltare la barriera di metallo che per 14 km separa la Striscia di Gaza dall'Egitto. Decine di migliaia di palestinesi si sono recati nei vicini centri abitati egiziani per procurarsi merci divenute introvabili a causa del blocco israeliano.

Dopo aver caricato, martedì scorso, donne e uomini che tentavano di oltrepassare il valico di Rafah, ieri i militari egiziani che lo presidiano non hanno reagito. Sotto pressioni anche interne, il governo egiziano ha dovuto chiudere un occhio. Il presidente Mubarak ha spiegato di aver autorizzato l'ingresso dei palestinesi «perché avevano fame», ma di aver ordinato alle guardie di confine «di farli poi rientrare, purché senza armi». Una decisione giudicata «pericolosa» da Tel Aviv: «La responsabilità del corretto funzionamento della frontiera è dell'Egitto, come dicono gli accordi siglati», e Israele «si aspetta che gli egiziani risolvano il problema». «L'Egitto intende rispettare gli accordi di confine», ha assicurato un portavoce del Ministero degli Esteri del Cairo. Il rischio è che attraverso il valico di Rafah riprenda il contrabbando di armi ed esplosivi e il transito di terroristi.

Sarebbero questi i veri motivi per cui Hamas ha provocato lo sfondamento della frontiera. La tattica dei terroristi è sempre la stessa: provocare "crisi umanitarie" per gettare discredito su Israele, trarre profitto dal senso di colpa occidentale e, insieme agli aiuti, che immancabilmente non allevieranno le sofferenze della popolazione, riprendere i propri traffici destinati ad alimentare altri attacchi.

E infatti il leader di Hamas, Haniyeh, ha subito rivolto all'Anp e all'Egitto la richiesta di un incontro per discutere «accordi sull'apertura del valico di Rafah, così come degli altri valichi». Prima che Hamas prendesse violentemente il controllo della Striscia lo scorso giugno, il valico era gestito da guardie dell'Anp e dell'Egitto, con l'assistenza di osservatori europei. Dopo il golpe di Hamas, il confine è stato chiuso e la missione degli osservatori sospesa.

E' evidente come Hamas abbia bisogno dell'apertura di quel valico per continuare la sua guerra, ma anche per motivi politici: sta tentando di "regionalizzare" la crisi di Gaza, ricattando e minacciando apertamente tutti i leader arabi, ma in particolare Mubarak, con l'obiettivo di rompere l'isolamento politico.

Wednesday, January 23, 2008

Dopo Prodi, chi e che cosa?

Una volta caduto Prodi, se i nostri conti si dimostrassero esatti, cosa accadrà? Berlusconi chiede elezioni subito e definisce quella attuale una buona legge elettorale, che darebbe al centrodestra una maggioranza solida. Veltroni risponde che votare ora sarebbe la «cosa peggiore» per il Paese.

Dunque, dobbiamo concludere che la crisi di governo abbia infranto le premesse e le basi di massima dell'accordo tra i due leader? E' presto per dirlo. Probabilmente dovremo aspettare l'avvio delle consultazioni al Quirinale, quando esporranno al presidente della Repubblica i loro reali punti di vista, oggi inevitabilmente condizionati dal gioco delle parti che la situazione richiede nei due campi finché Prodi rimarrà in sella.

Certamente, come ho già osservato più volte, a Veltroni conviene che tra l'esperienza disastrosa del Governo Prodi e le elezioni si frappongano un governo cuscinetto di circa un anno e una legge elettorale che favorisca la scelta del Pd di correre da solo. Berlusconi non ha queste necessità, ma non dovrebbe sottovalutare le profonde divisioni che ormai si sono aperte anche nel centrodestra fin dagli ultimi mesi della scorsa legislatura.

La richiesta di Berlusconi di andare a votare subito, anche con l'attuale legge elettorale, potrebbe rivelarsi un tentativo di alzare la posta, di esercitare una pressione in vista di una trattativa sui tempi di un governo di transizione che abbia come unico obiettivo l'approvazione di una nuova legge elettorale o lo svolgimento del referendum. Tra elezioni subito, come reclama Berlusconi, e nella primavera del 2009, come forse vorrebbe Veltroni, i due potrebbero raggiungere un compromesso per un governo di transizione dalla durata certa, e breve. Berlusconi invoca elezioni subito, ma in realtà non chiuderebbe le porte a un accordo per una nuova legge elettorale in senso maggioritario, purché comprenda l'indicazione di un termine temporale preciso, e molto breve, entro cui tornare alle urne.

Ci auguriamo davvero che Berlusconi non s'illuda che possa essere genuina la ritrovata unità del centrodestra nella prospettiva di un voto imminente con l'attuale legge elettorale. Una simile illusione sarebbe disastrosa. Fini, Casini e Berlusconi si ritroverebbero insieme per convenienza ma non per convinzione, mentre i dissapori personali e le divergenze programmatiche in questi anni e mesi sono andate approfondendosi. Ultimo esempio, proprio sul "caso Mastella", sulla giustizia: mai come questa volta, su questo tema, An aveva così nettamente contraddistinto la sua posizione da quella di Forza Italia.

Anche a Berlusconi è assolutamente necessaria una legge elettorale che gli consenta di correre da solo e farebbe bene a mettere da parte la sua fretta. Potrebbe non importare infatti la portata della vittoria sul Pd, se comunque in una delle Camere dipendesse da An e Udc, che proseguirebbero l'opera di logoramento del leader già avviata negli ultimi mesi della scorsa legislatura e ancora in atto.

Tuesday, January 22, 2008

Prodi kamikaze, ma Berlusconi non abbia fretta

Corretta dal punto di vista istituzionale la decisione di Prodi di parlamentarizzare la crisi. Il Parlamento dà e toglie la fiducia ai governi ed è giusto che le motivazioni politiche della nascita, o della caduta, di un governo vengano espresse in quella sede e che le forze politiche si assumano davanti al Paese le proprie responsabilità in modo trasparente.

Dubitiamo tuttavia che quella di Prodi sia fino in fondo una scelta di trasparenza e non, piuttosto, dietro la retorica dell'"istituzionalmente corretto", il tentativo di prendere tempo (da lunedì a giovedì) per delle disperate quanto opache manovre.

Visti i numeri in Senato, le ultime spericolate carte che rimangono in mano a Prodi sarebbero le 600 nomine negli enti pubblici previste nelle prossime settimane, con le quali potrebbe ancora tentare gli incerti, a suon di denaro pubblico, come ha già fatto per far approvare la Legge Finanziaria. In teoria, disporrebbe di monete di scambio per "comprarsi" due Senati, la forza d'urto di un Mastella moltiplicato per 600. In pratica, è tutto molto più complicato per il professore.

In questo momento, alla luce delle dichiarazioni di oggi, la situazione numerica al Senato è sfavorevole a Prodi.

Considerando che Marini, in quanto presidente del Senato, non voterà e che uno dei senatori a vita, Pininfarina, sarà assente per motivi di salute, i votanti saranno presumibilmente 320 e il quorum per la fiducia di 161 voti.

Ai 156 senatori dei partiti della CdL si aggiungono quelli del dissidente di estrema sinistra Turigliatto e dei tre senatori dell'Udeur (compreso Mastella), che saranno regolarmente in aula, come hanno ribadito oggi, ad esprimere il loro no. Totale: 160. Numero che potrebbe bastare, perché in caso di parità Prodi non otterrebbe la fiducia.

I tre senatori diniani e i due dell'Unione democratica, Bordon e Manzione, non hanno ancora sciolto la riserva ma hanno chiesto a Prodi di recarsi immediatamente al Quirinale per rassegnare le dimissioni, qualora domani l'Udeur, come pare praticamente certo, votasse contro la fiducia alla Camera. Tra gli "incerti" anche Fisichella, che però aveva assicurato che quello per la Finanziaria era l'ultimo voto di fiducia che concedeva a Prodi.

A meno di eclatanti, quanto devastanti per la credibilità di Berlusconi, defezioni nel centrodestra, per salvarsi Prodi dovrebbe convincere tutti questi sei incerti attualmente orientati per il "no" e ottenere il voto compatto di tutti i 7 senatori a vita (compresi Pininfarina e Ciampi, spesso assenti, e Cossiga, orientato verso il "no").

E in ogni caso, Prodi si salverebbe solo con l'aiuto dei senatori a vita. Anche se dal punto di vista costituzionale il loro voto vale esattamente come quello dei senatori eletti, il presidente Napolitano, rinviando Prodi alle Camere al termine della precedente crisi, aveva esplicitamente chiesto che ottenesse una «maggioranza politica», cioè la maggioranza dei senatori eletti. Si rimangerà queste parole?

In queste ore Berlusconi e Fini ricordano quelle parole del Capo dello Stato, proprio perché i conti sui quali Prodi basa il suo ottimismo comprendono anche i voti dei senatori a vita.

Ma una volta caduto Prodi, cosa accadrà? Berlusconi chiede elezioni subito e definisce quella attuale una buona legge elettorale, che darebbe al centrodestra una maggioranza solida. Veltroni risponde che votare ora sarebbe la «cosa peggiore» per il Paese.

Dunque, dobbiamo concludere che la crisi di governo abbia infranto le premesse e le basi di massima dell'accordo tra i due leader? E' presto per dirlo. Probabilmente dovremo aspettare l'avvio delle consultazioni al Quirinale, quando esporranno al presidente della Repubblica i loro reali punti di vista, oggi inevitabilmente condizionati dal gioco delle parti che la situazione richiede nei due campi finché Prodi rimarrà in sella.

Certamente, come ho già osservato più volte, a Veltroni conviene che tra l'esperienza disastrosa del Governo Prodi e le elezioni si frappongano un governo cuscinetto di circa un anno e una legge elettorale che favorisca la scelta del Pd di correre da solo. Berlusconi non ha queste necessità, ma non dovrebbe sottovalutare le profonde divisioni che ormai si sono aperte anche nel centrodestra fin dagli ultimi mesi della scorsa legislatura.

La richiesta di Berlusconi di andare a votare subito, anche con l'attuale legge elettorale, potrebbe rivelarsi un tentativo di alzare la posta, di esercitare una pressione in vista di una trattativa sui tempi di un governo di transizione che abbia come unico obiettivo l'approvazione di una nuova legge elettorale o lo svolgimento del referendum. Tra elezioni subito, come reclama Berlusconi, e nella primavera del 2009, come forse vorrebbe Veltroni, i due potrebbero raggiungere un compromesso per un governo di transizione dalla durata certa, e breve. Berlusconi invoca elezioni subito, ma in realtà non chiuderebbe le porte a un accordo per una nuova legge elettorale in senso maggioritario, purché comprenda l'indicazione di un termine temporale preciso, e molto breve, entro cui tornare alle urne.

Ci auguriamo davvero che Berlusconi non s'illuda che possa essere genuina la ritrovata unità del centrodestra nella prospettiva di un voto imminente con l'attuale legge elettorale. Una simile illusione sarebbe disastrosa. Fini, Casini e Berlusconi si ritroverebbero insieme per convenienza ma non per convinzione, mentre i dissapori personali e le divergenze programmatiche in questi anni e mesi sono andate approfondendosi. Ultimo esempio, proprio sul "caso Mastella", sulla giustizia: mai come questa volta, su questo tema, An aveva così nettamente contraddistinto la sua posizione da quella di Forza Italia.

Anche a Berlusconi è assolutamente necessaria una legge elettorale che gli consenta di correre da solo e farebbe bene a mettere da parte la sua fretta. Potrebbe non importare infatti la portata della vittoria sul Pd, se comunque in una delle Camere dipendesse da An e Udc, che proseguirebbero l'opera di logoramento del leader già avviata negli ultimi mesi della scorsa legislatura e ancora in atto.

Festival di ipocriti e strane manovre

Pare che Prodi non sia intenzionato a dimettersi e voglia invece chiedere un voto alla Camera. E al Senato, come pensa di ottenere la fiducia? Davvero non comprendiamo, ma ancora di più temiamo le manovre di questa notte, delle prossime ore. A quali ricatti e promesse a suon di denaro pubblico il premier pensa di ricorrere per ricomprarsi i senatori che ha già "pagato" a suon di milioni di euro per far approvare l'ultima Legge Finanziaria?

Destano preoccupazione, inoltre, le reazioni di alcuni giornali e giornalisti, che pur scrivendo peste e corna di questo governo, nell'ora della crisi che sembra decisiva sembrano temere che non sia però il momento "giusto". Chissà perché...

E ieri sera, a Porta a Porta, di fronte a Mastella, persino uno come Folli fingeva di non capire il filo - tutto politico - che lega la vicenda giudiziaria in cui è stata coinvolta la famiglia dell'ex ministro all'apertura della crisi.

I giornalisti, esattamente come aveva fatto Prodi in aula alla Camera, fingevano di non ricordare che Mastella si è dimesso non ritirandosi nel privato, ma sollevando una gravissima questione politica e istituzionale. E in queste ore si è deciso a far cadere il governo perché la maggioranza ha dimostrato di non voler neppure prendere in considerazione quella questione. Non potevano pensare di liberarsi di Mastella senza occuparsi della deriva eversiva di certa magistratura e facendo ricadere sull'Udeur l'intera vergogna per il diffuso malcostume della politica.

Non si può, soprattutto da giornalisti, derubricare a faccenda privata il caso Mastella, cadendo dalle nuvole se poi finisce per provocare una crisi di governo. Non possono permettersi di fare i finti babbei. Con l'arresto "ad orologeria" della moglie di Mastella, del tutto immotivato, si è voluto tentare di influenzare il giudizio del Csm su De Magistris; colpire il ministro artefice della riforma dell'ordinamento giudiziario, che pone un ragionevole limite di otto anni al mandato dei procuratori capo; il ministro che voleva porre un limite allo scempio delle intercettazioni, con le quali i magistrati tengono sotto ricatto la politica, a volte per favorire alcune fazioni, altre volte per protagonismo o per accrescere il potere della propria corporazione; si è voluta cavalcare l'ondata di anti-politica dando in pasto all'opinione pubblica un capro espiatorio mentre si tenevano al riparo i pezzi più pregiati della "casta".

In Italia sono intercettati ogni anno dai 70 mila ai 100 mila cittadini, per una spesa che in cinque anni ha toccato quota un miliardo e 150 milioni di euro. Gli italiani sono i più intercettati al mondo. Pensate che negli Stati Uniti di Bush, della guerra al terrorismo, del Patriot Act, non si superano ogni anno le 10 mila autorizzazioni dei magistrati ad intercettare. E da noi c'è anche qualcuno che ha il coraggio di parlare di "Grande Fratello" e di diritti civili...

Se un ministro della Giustizia dimettendosi denuncia alla maggioranza che lo sostiene un'«emergenza democratica», questa non dovrebbe per lo meno interrogarsi sulla questione? Il fatto che invece la ignori costituisce o no un problema politico?

Innanzitutto, va detto che sul piano giudiziario l'arresto della moglie di Mastella è un fatto aberrante e gravissimo, senza alcun fondamento giuridico, che ha portato alla crisi di governo perché ha fatto esplodere in modo non ricomponibile nella maggioranza le due incompatibili visioni della giustizia: quella giustizialista e giacobina di Di Pietro, dei comunisti e di frange del Pd e quella di Mastella.

Poi, certo, ma su tutt'altro piano, si può aprire la discussione sulla mala-politica italiana, di cui l'Udeur e i Mastella sono soci all'1,4%, o forse anche di più, considerando il loro peso politico effettivo, ma sempre con una quota minoritaria rispetto a partiti, reti di clientele, assetti di potere ben più solidi che operano in altre realtà del Paese.

E allora, mi spiace, ma per fare prediche contro la pratica della lottizzazione, contro l'invadenza della politica nelle nomine pubbliche, bisogna mostrare valida patente di liberisti. Laddove ci sia una Asl o un'azienda municipalizzata, la Rai o l'Eni, bisognerebbe indicare quali poteri, e in che modo, dovrebbero effettuare le nomine di quei vertici e di quei CdA. E non ci si venga a raccontare che basterebbe una legge che imponesse criteri stringenti, o il solito "passo indietro" da parte della politica. Sarebbe come gettare fumo negli occhi dei cittadini.

Finché un'azienda resta di proprietà pubblica - statale, regionale, o comunale - (e persino se vive e prospera di finanziamenti pubblici) l'affiliazione politica conterà sempre più dei curricula e del merito. Pretendere che così non sia, parlare di meritocrazia senza affidarsi completamente al mercato, vuol dire ingannare la gente. Anzi, laddove c'è la mano statale, regionale, o degli enti locali, dev'essere trasparente la responsabilità politica e partitica delle nomine, in modo che almeno i cittadini ne siano messi al corrente e possano sanzionare politicamente chi è causa di inefficienze.

Se davvero si ritiene questa invadenza, questa penetrazione, un'aberrazione della politica - e sono tra coloro che la ritengono tale - bisognerebbe avere il coraggio di dire che lo Stato, gli enti locali, i poteri pubblici in generale, devono restare fuori dall'economia e gestire il minimo indispensabile dei servizi.

Stato e Chiesa, qualcuno mente

Passerà in secondo piano rispetto alla crisi di governo aperta da Mastella, ma sembra che il "caso Sapienza" non sia ancora chiuso. Ieri la Cei ha rilanciato provocando le autorità italiane. Non sappiamo dire se Bagnasco sia tornato sulla vicenda sentendosi escluso, trascurato dalle telecamere e dalle prime pagine dei giornali, o se l'intera gestione del caso da parte della Santa Sede abbia a che fare con la disputa tutta interna alle gerarchie tra il segretario di Stato Bertone e l'ex capo della Cei Ruini. Ma Bagnasco, affermando che il Papa, rinunciando ad andare all'università La Sapienza, «si è fatto necessariamente carico dei suggerimenti dell'autorità italiana», ha apertamente messo in dubbio la ricostruzione dell'accaduto fornita dal governo italiano.

Palazzo Chigi ha smentito seccamente, ribadendo che «sia il Presidente del Consiglio dei Ministri che il Ministro dell'Interno, dopo la riunione del Comitato provinciale per la sicurezza e l'ordine pubblico alla quale erano presenti anche i responsabili della gendarmeria vaticana, hanno infatti comunicato alle autorità vaticane che lo Stato italiano garantiva assolutamente la sicurezza e l'ordinato svolgimento della visita del Santo Padre».

Qualcuno mente, e lo fa spudoratamente e ripetutamente. Non sapremo mai chi, forse, ma sappiamo con certezza che qualcuno mente. E purtroppo, non possiamo mettere la mano sul fuoco per nessuna delle due voci. D'altra parte, se è vero, come risulta da un'indagine dell'Eurispes, che sempre meno italiani hanno fiducia nelle istituzioni, non la ripongono più neanche nella Chiesa, della quale si fidano dieci italiani in meno su cento (il 49,7%) rispetto al 2007 (60,7%).

Monday, January 21, 2008

Mastella ha staccato la spina. E' finita... quasi

Sono le 18:37 quando il medico legale accerta la morte di un governo già in stato di coma vegetativo. Certo, di proclami in questi mesi ce ne sono stati parecchi, a cominciare dai diniani, tutti disattesi. Ma questa volta sembra proprio finita. La data del decesso l'ha scritta Mastella nero su bianco e non crediamo che Prodi abbia la spudoratezza di presentarsi alle Camere per un voto, che a questo punto sarebbe di sfiducia.

Prodi dica grazie al protagonismo corporativo della magistratura e a quei settori del centrosinistra che spinti da un impeto giustizialista l'hanno spalleggiato, individuando Mastella come capro espiatorio di una mala-politica generalizzata, da cui nessun partito si può chiamare fuori, e avendo deciso già da mesi di farlo fuori. "Dato in pasto lui al diffuso sentimento di anti-politica, ci salveremo noi", erano convinti. Non avendo altre alternative che riparare, prima o poi, nel centrodestra, vuoi da Berlusconi vuoi da Casini, Mastella non aveva nulla di meglio da portare in dote che la caduta di Prodi.

Certo, l'ammissione dei referendum elettorali da parte della Consulta; lo scandalo rifiuti e la sfiducia pendente sul ministro Pecoraro Scanio; una spintarella anche dal Vaticano, dopo il "caso Sapienza" (indicativo l'ultimo affondo del presidente della Cei Bagnasco). Ma per quanto sia leale ai suggerimenti di oltretevere, mai Mastella avrebbe lasciato un governo in cui occupava, seppure scomodamente, la poltrona prestigiosa di ministro della Giustizia.

La sua vicenda giudiziaria, lo spregiudicato e ingiustificato arresto della moglie Sandra, sono stati la causa scatenante di una crisi finale che prima o poi sarebbe comunque sopraggiunta. Per l'esile maggioranza numerica al Senato e per la scandalosa prova di un governo senz'altro tra i peggiori che si ricordino nella storia repubblicana.

E ora? I piccoli partiti (Udeur compreso) vorranno tornare alle urne scongiurando così il referendum, ma presumiamo che il presidente Napolitano non sia affatto intenzionato a far votare senza una nuova legge elettorale. Veltroni avrebbe bisogno di quella legge elettorale che gli permetta di far correre il Pd da solo e di un governo cuscinetto di minimo un anno che faccia sbiadire nella mente degli italiani il ricordo di Prodi (sarà comunque difficile!). Anche a Berlusconi, tolto di mezzo di Prodi, a questo punto converrebbe una nuova legge elettorale, meglio quella che uscirebbe dal referendum.

Insomma, l'accordo implicito tra Veltroni e Berlusconi dovrebbe reggere. Unica incognita, la data delle prossime elezioni politiche: si va da maggio/giugno 2008 a inizio primavera del 2009. Non oltre. Piuttosto che pasticci sulla legge elettorale e un governicchio che annacqui responsabilità politiche, individuali e collettive, meglio votare il referendum il 20 aprile e le politiche il 18 maggio, anche se al momento non sappiamo dire se i tempi tecnici permettano una soluzione simile.

Prima giù le tasse. Il resto verrà

In genere gli economisti liberali di sinistra sono favorevoli ad un livello non troppo alto di tassazione ma sembra non essere mai il momento giusto per abbassare le tasse. Prima bisogna abbattere il debito pubblico; prima occorre diminuire la spesa corrente; prima la crescita. E così via. Oggi Francesco Giavazzi, a cui va il merito di insistere da mesi sulla necessità delle liberalizzazioni come motore di crescita economica a costo zero per lo Stato, infrange questa tradizione e per una volta invoca «Giù le tasse». Non dopo qualcosa, ma subito, prima di tutto il resto.

La differenza tra i governi Berlusconi e Prodi sul piano dei conti pubblici è tutta in un 2%. Berlusconi ha lasciato il livello della pressione fiscale al 41%, aumentando però la spesa del 2%. Prodi ha coperto quel 2% con altre tasse, per cui il livello del prelievo è salito dal 41 al 43%. Il Governatore della Banca d'Italia Draghi ha chiarito, se ancora ci fossero dubbi, che la relativa stabilità dei conti pubblici oggi è dovuta all'aumento delle tasse e non a riforme strutturali della spesa.

Anche Draghi ha definito «auspicabile» una riduzione del carico fiscale. Ma, ha aggiunto, non si può fare se prima non si riducono le spese. Ed è qui che è intervenuto Giavazzi: «Io penso invece che sia venuto il momento di diminuire comunque le tasse: se non lo si fa ora, non se ne riparlerà più prima della prossima legislatura... Se si agisce oggi la pressione sulla spesa aumenterà: stretto fra i vincoli europei e l'impossibilità politica di aumentare di nuovo le tasse, dopo averle appena ridotte, forse il governo qualche taglio lo farà».

Ma c'è un altro luogo comune da rimuovere. Quando si propone di abbassare le tasse, si specifica sempre che bisogna partire dal lavoro dipendente e dalle famiglie con i redditi più bassi. Certamente, per motivi di equità, qualsiasi diminuzione del carico fiscale dovrebbe senz'altro sempre riguardare in modo cospicuo queste categorie. Ma un taglio del prelievo fiscale a vantaggio di quelle famiglie «che fanno più fatica ad arrivare alla fine del mese» aiuterebbe i consumi in modo impercettibile. Molte famiglie potrebbero certamente rifiatare, ma è lecito presumere che non si lancerebbero in un consumismo sfrenato.

Un taglio limitato ai redditi più bassi non basterebbe ad attenuare il rallentamento dell'economia. Se si vogliono davvero liberare risorse per ridare slancio alla crescita economica occorrono tagli consistenti e certi anche per i redditi medio-alti e per le imprese. Le famiglie dal reddito medio-alto potrebbero espandere i loro consumi e le imprese riprendere a investire in ricerca e sviluppo.

Finalmente, infine, Giavazzi introduce sulla prima pagina del più autorevole quotidiano italiano il tema esplosivo delle trattenute alla fonte, di cui i radicali chiesero l'abolizione con un referendum mai ammesso dalla Corte costituzionale.
«Una democrazia esige che i cittadini possano rendersi conto di quanto l'imposizione fiscale incida sulla loro busta paga e sui loro redditi. Ciò che il lavoratore riceve non è lo stipendio cui ha diritto ma solo ciò che gli rimane dopo aver pagato tasse e contributi, salvo i conguagli di fine anno. Se egli si rendesse conto di quanto lo Stato gli sottrae, pretenderebbe un buon uso di quel denaro e chiederebbe conto con maggior forza a chi governa dei disservizi, degli sprechi e del pessimo funzionamento di molti pubblici uffici».
L'abolizione del sostituto d'imposta restituirebbe ai cittadini la consapevolezza del costo dello Stato, strumento cognitivo essenziale per esercitare una forma minima di controllo democratico sull'attività principale dei governo: la spesa pubblica. A quel punto, l'evasione fiscale non riguarderebbe più solo i lavoratori autonomi. Vorrei proprio vedere se qualcuno osasse criminalizzare il metalmeccanico evasore con un netto in busta paga di poco più di mille euro. Fino ad oggi si è fatto credere che da una parte ci fossero i cittadini onesti e dall'altra i delinquenti. Abolendo il sostituto d'imposta potremmo quantificare quanto l'evasione fiscale sia avvertita come necessità per sopravvivere e quanto sia dovuta alla mancanza di civismo.

Anche a Berlusconi conviene correre da solo

Suonano come un epitaffio per L'Unione le parole pronunciate sabato da Veltroni: «Quale che sia il sistema elettorale, o il testo Bianco o il referendum, o l'attuale legge elettorale, voglio dire con chiarezza che il Pd si presenterà con le liste del Partito democratico. E se Forza Italia avesse il coraggio di fare altrettanto sarebbe un'enorme conquista per la democrazia italiana».

Il Pd, dunque, come da tempo evocato dal suo segretario, si presenterà da solo alle prossime elezioni, senza allearsi con tutto ciò che c'è alla sua sinistra. Identico impegno viene richiesto al maggiore partito dell'opposizione, guidato da Berlusconi, per favorire, quale che sia il sistema elettorale, un clima, se non un sistema, bipartitico.

«Quale che sia il sistema elettorale», assicura Veltroni. Eppure, la scelta di correre da soli da parte dei due maggiori partiti, Pd e PdL, si presta ad esiti molto diversi, a seconda del sistema elettorale usato. Se il partito che prevarrà non sarà in grado di governare da solo, allora si troverà costretto - dopo le elezioni anziché prima - a negoziare compromessi con le forze politiche con cui non si era voluto alleare, le quali si mostreranno comprensibilmente irrigidite.

Se è vero, però, come appare a questo punto sempre più probabile (e da noi auspicato), che o con la carota del vassallum, o con il bastone del referendum, i due leader sono già d'accordo per una legge elettorale maggioritaria e tendenzialmente bipartitica, il "gentlemen's agreement" di correre da soli alle prossime elezioni sarebbe l'inevitabile e indispensabile presupposto, o corollario, di quell'accordo. Infatti, se uno dei due dovesse sospettare che l'altro sia pronto ad aggirare la legge che uscirebbe dal referendum, presentando non una lista di partito, ma un listone contenente tutti i partiti della vecchia coalizione, costui non troverebbe più alcun interesse nell'accordo sulla legge elettorale.

Come è stato fatto notare, far correre il Pd da solo per Veltroni è una necessità. Perdere ripresentando la stessa coalizione che ha dato vita al fallimentare Governo Prodi sarebbe un disastro. Perdere presentando il Pd da solo avrebbe almeno il valore di una svolta politica, di una scommessa di lungo periodo, dell'inizio di una "nuova stagione".

Il centrodestra, è stato anche detto, appare meno diviso del centrosinistra, non ha al proprio interno l'equivalente di una sinistra comunista e antagonista, i partiti che ne fanno parte condividono una «comunione di valori». Non solo questa ci pare una lettura superficiale, ma anche smentita dalla precedente esperienza di governo della CdL, che pur non toccando il fondo come il Governo Prodi, si è comunque rivelata inadeguata ad affrontare le sfide urgenti del paese e inadempiente rispetto alla promessa di "rivoluzione liberale".

Ma al di là delle divergenze programmatiche, delle resistenze stataliste e dei riflessi corporativi di An e Udc, che forse non raggiungono i livelli di allarme degli eventuali alleati del Pd, identico è il fattore di blocco espresso dalle stesse oligarchie e burocrazie partitiche, interessate alla propria visibilità e alla propria sopravvivenza molto più che alle riforme e al governo del Paese. L'eterogeneità degli apparati è il problema, oltre che dei programmi.

Sarebbe un errore imperdonabile, l'ennesimo, da parte di Berlusconi, se sottovalutasse questo elemento, che lo rende, esattamente come Veltroni, vulnerabile al potere di ricatto degli alleati.

Sunday, January 20, 2008

Il gregge in piazza. Pastori politicamente impeccabili

C'è da augurarsi che il "caso La Sapienza" si sia chiuso con l'adunata di questa mattina all'Angelus, dove Ruini ha astutamente convocato fedeli e opportunisti per manifestare la loro solidarietà al Pontefice, sommandosi alle migliaia di persone che avrebbero comunque, in una bella giornata di sole, affollato piazza San Pietro.

Dimostrando che all'interno delle proprie mura dimorano politici ben più abili di quelli della controparte laica, il Vaticano ha lucrato politicamente tutto quanto ci fosse da lucrare dalla stupida e intollerante protesta vetero-marxista contro la presenza del Papa all'inaugurazione dell'anno accademico all'università La Sapienza.

Da una parte ci si condanna al velleitarismo e al marginalismo, ci si accontenta di recitare da macchiette del "laicismo", fingendo di non capire che un conto è dimostrare il proprio dissenso dalle posizioni del Papa, tutt'altro è protestare con lo scopo dichiarato di ottenere l'annullamento dell'«incongruo» evento. E' la differenza che passa tra il diritto alla critica - e quindi tra la libertà d'espressione - e l'intolleranza, che ha fornito al Papa un valido argomento per trarre un grande vantaggio politico da una scomoda contestazione. Si è contestata - e malamente - la presenza stessa del Papa, prima che le sue posizioni e le sue idee. Questo è stato l'errore. Fingono di non capirla la differenza, alcuni sedicenti laici, ma finiscono per ingannare solo se stessi.

Dall'altra parte, invece, il rischio è di apparire un poco ridicoli quando si grida alla censura. E' palesemente falso che in Italia, o in Europa, lo spazio pubblico sia precluso al Papa, alla religione e alla cultura cattolica. Le tradizioni, le processioni, gli eventi, le presenze televisive, le programmazioni culturali non solo trovano aperti in Italia, come da nessun'altra parte nel mondo, gli spazi e i poteri pubblici, ma anche enorme risonanza sui media. E non c'è bisogno di sofisticate indagini e statistiche per accorgersi che nei tg le presenze del Papa e di altri esponenti delle gerarchie vaticane superano quelle del presidente del Consiglio e del presidente della Repubblica.

E l'episodio di intolleranza avvenuto a La Sapienza? Episodi purtroppo sempre più frequenti - e sempre troppo sottovalutati quando riguardano "vittime" meno illustri - all'interno delle nostre università, dove gruppi minoritari, ideologizzati, organizzati e disposti a creare un clima di minaccia e di violenza, riescono a condizionare, a volte ad impedire, lo svolgimento di eventi pubblici di dibattito. Le "vittime" sono di volta in volta altri studenti dalle diverse idee politiche, ministri, intellettuali, ambasciatori o esponenti del governo israeliano. Un'intolleranza che non ha colpito solo il Papa.

E' falso che in Italia la religione sia relegata nello spazio privato delle coscienze. Nelle strade, nelle piazze, in tv, in Parlamento e in politica, sappiamo tutti che non è così. Piuttosto, ci si dovrebbe chiedere - e dovrebbero chiederselo per primi i credenti - da chi e come viene fruito questo spazio pubblico. Sempre più monopolizzato dalle gerarchie, che ne fanno un uso politico sempre più in senso stretto, muovendosi come partito, lobby, Stato nello Stato che si vorrebbe etico.

P.S. Sorprendono positivamente, oggi, le parole del cardinale Tettamanzi, che in una lettera a divorziati e separati scrive: «Anche la Chiesa sa che in certi casi non solo è lecito ma può essere addirittura inevitabile prendere la decisione di una separazione: per difendere la dignità delle persone, per evitare traumi più profondi, per custodire la grandezza del matrimonio, che non può trasformarsi in un'insostenibile trafila di reciproche asprezze». Solo parole, per ora, un timido segnale di apertura, in attesa di un fatto concreto, per esempio permettere a separati e divorziati di ricevere la comunione. Lo dice la parola: fino ad allora, è ovvio, non si potranno sentire in comunione con la loro Chiesa. Anche divorziare può essere un modo per onorare la "verità" del sacramento del matrimonio.

La commissione Attali scuote la Francia

In pensione quando si vuole, dopo i 65 anni, anche sommando pensione e reddito; tasse e costo del lavoro abbassati e compensati dall'Iva sociale; valutazione indipendente dell'efficienza della pubblica amministrazione; investimenti in conoscenza, ricerca scientifica, alta tecnologia, turismo, cultura; riforme per favorire mobilità, libertà d'impresa, formazione, sicurezza, concorrenza e soppressione di barriere corporative e distributive per ogni genere di servizi e consumi. Sono alcune delle proposte contenute nel rapporto finale della commissione Attali, il gruppo di lavoro internazionale (ne fanno parte anche Mario Monti e Franco Bassanini) voluto dal presidente francese Sarkozy per "liberare" la crescita economica.

Il rapporto indica alla Francia otto «ambizioni», con un corollario di venti «decisioni fondamentali» e di oltre 300 proposte concrete. Si tratta di ricette ormai note, ma vengono focalizzati anche ritardi strutturali, costi e lentezze della sfera pubblica, pesanti disparità sociali specifici della realtà socio-economica francese. Il rapporto però si fonda sul presupposto di un radicale cambio di mentalità e della disponibilità dei francesi a mettere in discussione certezze e privilegi acquisiti nel tempo.

«Il nostro è un vero progetto mobilizzatore di energie, risorse e competenze. La Francia deve passare da una cultura della rendita a una cultura del rischio. Sogno una Francia in cui lo scandalo non sia la ricchezza, ma la povertà», ha spiegato il presidente della commissione, Jacques Attali, intellettuale che collaborò con Mitterrand e che Sarkozy ha voluto al suo fianco.

Se la Commissione Attali tenta di risvegliare la Francia dal torpore burocratico-statalista, ci chiediamo semmai qualcuno riuscirà a svegliare l'Italia.

Friday, January 18, 2008

Lo Stato al massimo della sua espansione

"Cercasi radiologo targato Ds". "AAA. Cercasi pediatra vicino An". "AAA. Cercasi neurochirurgo convintamente Udc". «Dovrebbero avere l'onestà di pubblicare annunci così, i partiti: sarebbero più trasparenti. Perché questo emerge dalle intercettazioni della "Mastella Dynasty": la conferma che la politica ha allungato le mani sulla sanità. Padiglione per padiglione, reparto per reparto, corsia per corsia... è in corso da anni, ma diventa sempre più combattuto e feroce, un vero e proprio assalto dei segretari, dei padroni delle tessere, dei capicorrente al mondo della sanità. Visto come un territorio dove distribuire piaceri per raccogliere consensi».

Scopre l'acqua calda Gian Antonio Stella. E davvero serviva un caso Mastella per far rimanere sbigottito Francesco Merlo. La mala-politica delle clientele e delle raccomandazioni portata alla luce in queste ore non è forse già da tempo, molto tempo, una realtà sotto gli occhi dei cittadini, che semmai i grandi giornalisti hanno avuto qualche "pudore" di troppo nel raccontare?

«Ad ogni intercettazione, ad ogni retroscena, ad ogni rivelazione non viene fuori il reato della politica, ma la mancanza di dignità della politica. E la dignità, almeno per noi, vale più del Diritto», ma la mancanza di dignità non è penalmente perseguibile.

Dunque, Merlo si pone finalmente la domanda giusta su tutta questa vicenda: «Può un giudice dar corpo giudiziario all'umore popolare - e qualunquista - contro lo strapotere della politica?» Si risponde che «da quel che sinora è venuto fuori, quest'inchiesta sembra appartenere alla famiglia delle inchieste di Potenza, a quelle indagini italiane, sempre più frequenti, che non al codice penale rimandano ma al moralismo ideologico e alla giustizia spettacolo, alla ruota del pavone. Perciò, come dicevamo, in questa vicenda giudice e imputato finiscono con il somigliarsi».

Purtroppo, ecco come conclude il suo articolo, mancando l'ultimo miglio, Francesco Merlo: «Oggi contro il familismo di Stato, contro i cugini delle mogli, contro gli oncologi di partito, sembra che il qualunquismo abbia scelto le procure. Alle fine tutti pensano di essere lo Stato. Dobbiamo rassegnarci che non ci sia lo Stato, ma un affollamento di surrogati di Stato?»

Non si tratta di «surrogati di Stato», non è che «non ci sia lo Stato», è proprio questo che abbiamo davanti lo Stato all'ennesima potenza. Ma sarebbe più corretto dire, per non confondere potenza con efficienza, lo Stato al massimo della sua espansione.

Ciò che davvero ci acceca, ci impedisce di cogliere le radici del problema, è l'idealizzazione dello Stato, come se davvero fosse un ente dotato di moralità e imparzialità proprie. A gestirlo sono pur sempre, e saranno sempre, gruppi di privati. Abolirlo, dunque? Certamente no, perché certe sue funzioni sono insostituibili. Ma cominciare ad avere consapevolezza di ciò che realmente lo Stato è: un male necessario, sopportabile a piccole dosi, purché i gruppi di privati chiamato a gestirlo siano eletti democraticamente e sostituibili; purché le risorse della collettività e gli ambiti di intervento a loro affidati siano ridotti allo strettamente necessario.

A chiarire alla perfezione il concetto è Stefano Magni:

«Dove è tutto lo scandalo per Mastella? E' vero che la sua famiglia usava la burocrazia statale come casa propria? E' vero che nominava i suoi amici e i suoi fidi a capo di enti pubblici e ospedali? Non è detto che queste cose su cui si sta indagando siano vere. Ma se lo fossero? Sarebbe ordinaria amministrazione: si chiama Stato. Lo Stato è l'insieme dei politici, ciascuno con i propri interessi privati, più o meno pericolosi per gli altri. Se affidi un'attività importante come la sanità allo Stato, non puoi aspettarti di meglio: saranno i politici a scegliere i dirigenti e anche i medici, in base a criteri che decidono loro (magari il merito, magari l'amicizia o la parentela). Se affidi la scelta delle aziende che devono fornire un servizio allo Stato e non ai consumatori, avrai per forza le tangenti sugli appalti. E vince l'azienda che paga di più il politico che deve scegliere».
Così i politici tutelano i propri interessi: «Posti di lavoro, anche importanti, in cambio di voti. Voti che gli servono per avere più potere, distribuire posti di lavoro e benefici a un maggior numero di persone che, in cambio, gli daranno ancora più voti». E il circolo si chiude.

Ed è comprensibile che la gente sia indignata, ma gli esiti possibili di questa indignazione diffusa e dello scollamento tra politica e cittadini sono due, «uno estremamente negativo, l'altro estremamente positivo». Quello negativo sarebbe «la pretesa di moralizzare la politica». Ma «chi opta per questa soluzione invoca a gran voce la dittatura militare o un maggior potere epuratore dei giudici». In entrambi i casi, meno democrazia e un regime, che gli stessi moralizzatori avranno contribuito a creare, «molto più facilmente corrompibile, proprio perché ha la facoltà di controllare gli altri, ma non si autocontrolla».

L'esito «estremamente positivo, invece, è la richiesta di liberarci dallo Stato e dalle sue pratiche. Perché lo Stato ci succhia risorse e ci restituisce inefficienza, quindi meglio fare da soli. Una tendenza di questo tipo potrebbe concretizzarsi con una forte richiesta di autonomia locale, di meno tasse e di molte meno regole, in modo da limitare i danni che i politici possono farci».

Bisogna intraprendere presto questa via, «prima che monti l'ondata di antipolitica autoritaria».

L'aveva detto: saremo esigenti

Li aveva avvisati Mastella, dimettendosi: appoggio esterno, «ma saremo esigenti». Così adesso l'Udeur mette la maggioranza con le spalle al muro: chiede una mozione in cui si approvi la relazione sulla giustizia dell'ex ministro Mastella, o sarà crisi di governo.

La relazione di Mastella, se nulla fosse accaduto in questi giorni, sarebbe stata approvata senza troppi problemi. Ma approvarla adesso, qualunque cosa ci sia scritto, significa comunque approvare la relazione di un ex ministro della Giustizia inquisito, con la moglie agli arresti, che ha duramente attaccato la magistratura. Motivo di imbarazzo per l'intera maggioranza, ma soprattutto per quei settori giustizialisti, da Di Pietro alla sinistra comunista, fino alla Sinistra democratica, che Mastella vogliono vederlo morto politicamente. Eppure, per far sopravvivere Prodi, si trovano costretti a votare l'ultimo atto politico del loro "nemico" giurato.

Così Prodi, che prendendosi l'interim aveva furbescamente derubricato il caso Mastella a vicenda privata, mentre l'ex ministro aveva voluto sollevare un duro atto di accusa, non potrà più fuggire e sembra costretto a dover scegliere tra i voti dell'Udeur e quelli di Di Pietro. In tutto questo, al Senato la prossima settimana arriverà la mozione di sfiducia nei confronti del ministro Pecoraro Scanio per lo scandalo rifiuti. E qualcuno, nell'Udeur, potrebbe chiedersi: perché Mastella è a casa e Pecoraro Scanio ancora al suo posto?

Come si salverà Prodi questa volta?

Dietro l'obbligatorietà una discrezionalità irresponsabile

La celere richiesta di rinvio a giudizio di Berlusconi per la raccomandazioone delle 5 attrici al direttore di Rai Fiction Saccà è un emblematico esempio di come l'obbligatorietà dell'azione penale sia uno straordinario paravento, un alibi dietro cui si nasconde sempre, quale che sia, una politica giudiziaria. Una politica di cui, abbandonando ogni ipocrisia, qualcuno dovrebbe essere chiamato a rispondere.

I procuratori, infatti, dispongono di una totale discrezionalità nel fissare le priorità del loro operato, stabilendo le urgenze dell'attività inquirente tra le innumerevoli notizie di reato. In questo caso la Procura di Napoli ha scelto di dare massima priorità nel perseguire un'ipotesi di corruzione a carico del leader dell'opposizione Berlusconi, piuttosto che aprire - o accelerare - inchieste sullo scandalo rifiuti a carico di ministri, commissari straordinari ed esponenti di governo regionale e locale. E' nella loro disponibilità, ma dovrebbero risponderne a qualcuno.

Ma anche tutto questo fa parte di un'Italia la cui immagine più eloquente, scattata da Giordano Bruno Guerri, è quella di un «fetido lavandino otturato»:
«... con il ministro della Giustizia inquisito che attacca la magistratura e viene applaudito da tutto il Parlamento; con il ministro dell'Economia che offende e umilia un'intera generazione economicamente impotente anche a causa sua; con un branco di professori universitari che si batte per impedire al Papa di parlare alla Sapienza, invece di scendere in piazza per come funzionano le nostre università, anche a causa loro; con il trio Bassolino-Iervolino-Pecoraro che dovrebbe scomparire in un bip, come l'acronimo dei loro nomi, e che invece si vantano di rimanere al loro posto; con magistrati che indagano su tutto tranne che sulla spazzatura in Campania, mentre più di un quinto del Paese è preda della criminalità organizzata; con il nostro continuo retrocedere in ogni classifica mondiale; con un'opposizione che si oppone prima di tutto a se stessa. Se vi regge lo stomaco, continuate voi».

Thursday, January 17, 2008

La pistola carica è passata di mano

Mastella ha così deciso di confermare le sue dimissioni e di garantire un appoggio esterno al Governo Prodi. Anche qualora il caso sollevato dalla procura di Santa Maria Capua Vetere dovesse sgonfiarsi, com'è probabile, non vediamo come Mastella possa rientrare nel governo dopo il duro atto di accusa nei confronti della magistratura lanciato ieri e oggi. E' ovvio che Di Pietro e Mastella non potrebbero in ogni caso riunirsi nella stessa stanza. Dunque, il piano esposto da Prodi oggi in Parlamento, secondo cui il suo interim alla Giustizia sarebbe provvisorio, in attesa del ritorno di Mastella quando la sua vicenda sarà chiarita, è più che altro fumo negli occhi, forse l'unico modo per prendere tempo.

Ma quello annunciato da Mastella è qualcosa di più e anche di meno di un appoggio esterno. Somiglia più alle "mani libere". «Daremo l'appoggio esterno ma saremo esigenti. Non daremo l'apporto come prima, dove il compromesso era la condizione per tenere insieme la coalizione, ma ci staremo nelle condizioni date. Rispettosi della logica del programma, della discussione sulla legge elettorale, ma con i nostri valori sulla Chiesa, sui dico, sulla politica estera». E, manco a dirlo, sulla giustizia.

In via di dissolvimento il partito, l'unica carta che riteniamo rimanga in mano a Mastella e all'Udeur, è quella di far cadere il governo e portare la "testa" di Prodi in dote a Berlusconi, magari attraverso una "coabitazione" con l'Udc. Non subito, ma di certo alle prossime elezioni non vedremo l'Udeur, o ciò che ne sarà rimasto, nel centrosinistra, quale che sia.

Ormai è del tutto inutile far cadere il governo come mossa disperata per tentare di evitare il referendum, perché in nessun caso Napolitano a questo punto scioglierebbe le camere solo per evitarlo, e perché Veltroni, Berlusconi e Fini si opporrebbero.

Alla luce della decisione della Corte di ammettere tutti i quesiti, a questo punto la pistola carica sul tavolo delle trattative per la riforma elettorale dovrebbero averla Berlusconi e Veltroni, che potrebbero esercitare pressioni sulle altre forze politiche riottose: o vassallum, o referendum. Anche il vassallum in effetti è tendenzialmente maggioritario e bipartitico, ma la legge che uscirebbe dal referendum sarebbe molto più brutale.

E' ciò che ha fatto capire Berlusconi oggi rilanciando il dialogo con Veltroni: gli ha rivolto un «appello» affinché «intervenga per tornare» al vassallum. Altrimenti, «si vada verso il referendum». In ogni caso, Berlusconi non è disposto a votare la bozza Bianco, che non conviene nemmeno al Pd per l'idea che ne hanno i veltroniani, e Veltroni ha sempre affermato che senza il consenso di Berlusconi non si sarebbe potuta approvare una nuova legge. Tra l'altro, nelle ultime ore, appare mutata anche la posizione della Lega Nord, più possibilista sul referendum, mentre Fini è referendario da sempre. Tra Veltroni e Berlusconi ormai l'accordo dovrebbe essere siglato: vassallum o referendum.

A questo punto, prima o poco dopo il referendum, il Governo Prodi è destinato a cadere. E' ovvio che Berlusconi preferisca prima e Veltroni dopo, anche perché in primavera ci sono in ballo centinaia di nomine, ma la strada sembra finalmente tracciata: referendum (o legge elettorale maggioritaria) e poi elezioni.