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Friday, November 21, 2008

Meno tasse e riforme contro la crisi/2

Se la crisi economica è globale, la risposta può essere solo globale, non nazionale. E' così che la pensa il ministro Tremonti, che ribadisce questo concetto ogni volta se ne presenta l'occasione. Ritiene che sia tutto sommato irrilevante o poco rilevante ciò che decide il governo italiano. In sostanza, dice, il governo ridurrà il debito, non alzerà le tasse, farà tutte le politiche che servono, ma la soluzione alla crisi dipende da ciò che si decide fuori dall'Italia.

Come scrivevo alcune settimane fa, io penso invece che l'Italia, per cause interne, sia la più fragile e la più esposta alla crisi tra i Paesi sviluppati. Ci troveremmo in una situazione migliore, e ci potremmo risollevare più rapidamente, se venissero realizzate le riforme di cui abbiamo urgente bisogno. Faremmo bene quindi a guardare al nostro interno. E' da lì che viene il male dell'Italia, prim'ancora che dalla crisi internazionale, e Tremonti dovrebbe concentrarsi su quello, non sui massimi sistemi.

E così sembrano pensarla anche gli ispettori del Fondo monetario internazionale. Se la recessione in Italia «sarà probabilmente meno pesante che in molte altre economie avanzate per effetto della relativa solidità del sistema bancario», tuttavia l'eventuale ripresa sarà «lenta e debole», perché «la capacità dell'economia di riprendersi sarà rallentata da rigidità strutturali, mancanza di competitività interna, dalla lentezza dei processi di ristrutturazione e dalla contenuta risposta sul fronte fiscale».

Per questo, secondo il Fmi, l'agenda per le riforme strutturali in Italia «ha bisogno di un più intenso rilancio». In particolare, «ulteriori liberalizzazioni nel commercio al dettaglio e nei servizi (specialmente professionali), una deregolamentazione del mercato energetico, l'eliminazioni dei veti incrociati per i progetti di creazione di infrastrutture che abbiano interesse nazionale». E' anche necessaria «una seconda generazione di riforme del mercato del lavoro»: «rafforzare il legame tra stipendi e produttività, permettere una differenziazione salariale in base alle regioni, rendere i contratti a tempo indeterminato più flessibili».

Più flessibilità dei contratti a tempo indeterminato, come ci siamo sforzati più volte di spiegare, per fare in modo che non siano solo i lavoratori con contratti atipici a sopportare gli svantaggi della flessibilità, e per determinare più ricambio tra chi è dentro - e inamovibile, a prescindere da meriti e competenze - e chi non riesce a entrare nel mondo del lavoro - nonostante meriti e competenze. Più si allarga la platea dei lavoratori flessibili, meno acuti e prolungati saranno gli aspetti negativi della flessibilità.
«[La] metà non protetta dei lavoratori... porta sulle spalle tutta la flessibilità di cui il sistema ha bisogno; mentre nella metà protetta l'inamovibilità genera inefficienze gravi e anche posizioni di rendita inaccettabili. Il precariato permanente è l'altra faccia dell'inamovibilità dei "lavoratori regolari"»
Pietro Ichino (25 febbraio 2008)
Per ridurre la precarietà bisognerebbe "spalmare" quel rischio, riequilibrare l'area delle tutele, riducendola agli insiders ultragarantiti che continuano a usufruire di una stabilità anacronistica, che neanche tiene conto del merito, ed estendendola agli outsiders.

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