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Saturday, February 02, 2008

Non farsi ingannare dalle false democrazie

Quest'anno il rapporto annuale di Human Rights Watch sui diritti umani mette in luce un aspetto centrale nel dibattito sull'esportazione del modello democratico: è sufficiente lo svolgimento di periodiche elezioni per poter parlare di democrazia? Evidentemente no, ma neanche si ha democrazia senza elezioni.

HRW denuncia la «falsa democrazia» esportata dalle democrazie più mature – su tutte Stati Uniti ed Unione europea – che per «convenienza», per tutelare i propri interessi, chiudono un occhio, o addirittura entrambi, su elezioni che in molti stati si svolgono in modo irregolare, permettendo agli autocrati di «atteggiarsi a democratici» senza chiedere loro di rispettare quei diritti politici e civili di cui è fatta una democrazia.

Molti regimi, infatti, se ne approfittano. Nel rapporto si citano i più recenti casi del Kenya, dove i brogli elettorali stanno provocando violenze tra le fazioni rivali, e del Pakistan, dove il presidente Musharraf, pur avendo indetto le elezioni, non sembra far molto per assicurare il loro corretto e pacifico svolgimento (emblematico l'assassinio di Benazir Bhutto). Nel 2007 molti governi autoritari sembrano aver compreso che sia sufficiente organizzare elezioni farsa per vedersi riconosciuto lo status di "democrazie", o almeno per ottenere una certa indulgenza da parte della comunità di stati democratici riguardo le frequenti violazioni dei diritti umani.

Tuttavia, non ci pare un fenomeno così nuovo: da sempre le dittature rivendicano di reggersi sul consenso del popolo e non raramente utilizzano la retorica democratica per legittimare il loro potere. Anche nella vecchia Urss e nei Paesi del Patto di Varsavia si votava e la Germania comunista si era data il nome di Repubblica Democratica Tedesca.

Tra le crisi citate nel rapporto di HRW, anche l'emergenza umanitaria nel Darfur, in Sudan, e la sanguinosa repressione della protesta nonviolenta dei monaci buddisti in Birmania. Elezioni manipolate totalmente in Ciad, Giordania, Kazakhstan, Nigeria, Uzbekistan; pilotate tramite la macchina elettorale in Azerbaijan, Bahrain, Malesia, Thailandia, Zimbabwe; bloccando o scoraggiando i candidati di opposizione in Bielorussia, Cuba, Egitto, Iran, Territori palestinesi, Libia, Turkmenistan, Uganda; falsate dalla violenza politica in Cambogia, Congo, Etiopia, Libano; dal controllo dei media e della società civile in Russia e Tunisia; dalla mancanza di uno stato di diritto in Cina e Pakistan.

Pratiche che violano la legge internazionale e spesso anche le leggi interne a quei paesi, ma di cui raramente viene chiesto conto ai governi responsabili. Washington, Bruxelles e le capitali europee chiudono volentieri un occhio se il vincitore è un alleato strategico o commerciale, per timore di perdere l'accesso a risorse e a opportunità commerciali, o in nome della lotta al terrorismo. «E' diventato troppo facile per gli autocrati cavarsela mettendo su una democrazia fittizia», osserva Kenneth Roth, direttore esecutivo di HRW. «E' perché troppi governi occidentali insistono sulle elezioni e si accontentano di quelle». Non esercitano pressioni su quei diritti umani fondamentali e quelle condizioni che permettono a una democrazia di funzionare: libertà di espressione e di stampa, di associazione e riunione; elezioni libere e corrette; una società civile sviluppata. Usa e Ue dovrebbero chiedere di più che il semplice svolgimento di elezioni.

Il duro atto di accusa di HRW ha senso se aiuta a smascherare il cinismo e l'ambiguità di molti autocrati e se viene inteso come stimolo per una politica più coerente di promozione degli standard democratici. Sarebbe invece un passo indietro, se oltre agli errori, i limiti, gli interessi delle democrazie occidentali intendesse processare l'idea stessa di esportazione della democrazia, condannandola come nuova forma di imperialismo e facendo in qualche modo passare il pregiudizio razzista per cui il modello democratico sia in definitiva incompatibile con le culture non occidentali.

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