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Friday, November 30, 2007

La nuova enciclica. Prime parziali osservazioni

Non sappiamo dire se sia una semplificazione giornalistica, oppure un compendio messo a punto dagli addetti stampa del Vaticano. Ma se davvero questo, «Marxismo e illuminismo. Ecco le speranze terrene fallite», dovesse essere il senso della nuova enciclica emanata da Papa Benedetto XVI, la Spe Salvi, ci sarebbe di che rimanere sbalorditi. Un paragone tra marxismo e illuminismo non regge se ad accomunarli è l'ateismo. Mentre il marxismo in ogni sua variante e applicazione pratica ha sì provocato morte e distruzione, l'illuminismo - che tra l'altro non è una dottrina politico-economica, ma un movimento culturale e filosofico - ha dato origine a molti filoni che si sono sviluppati per strade anche molto diverse tra loro, alcuni validi ancora oggi, altri esauritisi. Insomma, non vorrei che fosse un modo per attaccare il liberalismo. Proprio il liberalismo e la laicità sono gli unici antidoti ai fanatismi atei e religiosi rendendo possibile la convivenza civile.

Da queste prime anticipazioni il livello della discussione che emerge dal documento papale appare piuttosto banale. La scienza e la tecnologia possono essere usate per fini abietti. Già, il pensiero corre all'invenzione della bomba atomica. Così come ci pare indiscutibile che anche la religione (due esempi facili: quella cristiana in passato e quella islamica oggi) si presti ad essere strumento della malvagità umana. La discussione può proseguire al pub davanti a una buona birra...

A voler essere malevoli, si potrebbe anche argomentare che mentre la scienza è stata strumento della malvagità umana, la fede religiosa ne è spesso stata il movente. Non ci pare esattamente la stessa cosa. Così come ci si potrebbe anche esercitare sui non pochi punti di contatto tra marxismo e cristianesimo, soprattutto nella sua variante cattolica: dalla visione messianica ed escatologica alla condanna morale del profitto. Non mancano infatti storici e politologi che parlano del marxismo in termini di fede, reglione politica.

Ma si aprirebbe un discorso lungo e complesso. Dovremo comunque leggere attentamente tutte le 77 pagine che la compongono per farci un'idea più precisa del messaggio che vuole lanciare Papa Ratzinger con la sua enciclica.

Un generale troppo "Speciale"

Se ciò che la Procura militare di Roma dice di aver accertato, e che Carlo Bonini riporta su la Repubblica di oggi, dovesse essere confermato da un giudice, ci troveremmo di fronte al caso di un generale un po' troppo "speciale". Si tratta, ve lo ricorderete, del generale della Guardia di Finanza Roberto Speciale, destituito da Padoa-Schioppa dopo il "caso Visco".

A suo carico un «ponte aereo di spigole destinate alla cambusa della baita di Passo Rolle» e una «gita a scrocco sulle nevi con signore a bordo dell'Atr-42 della Finanza». Non due "ragazzate", ma la regola. La Procura militare di Roma avrebbe accertato che «l'ex comandante generale, indagato per peculato, ha utilizzato uno dei due Atr42 in dotazione al Corpo in occasione di almeno 45 fine settimana. E mai da solo, come sarebbero in grado di documentare i piani di volo. Che quell'aereo, ufficialmente destinato a compiti di trasporto e sorveglianza, era stato, per suo ordine e a spese del Corpo, "riconfigurato" negli hangar dell'aeroporto militare di Pratica di Mare, con un allestimento interno che, modificando la parte anteriore della carlinga, consentisse condizioni di volo e poltrone "business" ad almeno otto passeggeri». Di fatto, ha riferito un testimone oculare delle modifiche disposte sull'aereo, «l'Atr42 MP era diventato un "personal jet", oggettivamente inibito a incarichi operativi in senso proprio, che, al di là delle occasioni istituzionali, partiva il venerdì o il sabato, per fare rientro la domenica con i graditi ospiti».

Ma se tutto ciò trovasse riscontro, l'enormità di questo peculato dovrebbe indurci a un paio di riflessioni. Innanzitutto, il fatto che tali comportamenti si tengano così spudoratamente alla luce del sole e reiterati ci fanno sospettare che siano elevati a "sistema" all'interno della Finanza, e forse non solo. E tanti saluti alla residua credibilità del Corpo nella lotta all'evasione fiscale. Gli sprechi a beneficio personale di chi è ha il compito per conto dello Stato di esigere dai comuni cittadini il pagamento delle imposte sarebbero l'ulteriore conferma della legittimità morale dell'evasione fiscale.

Inoltre, se il generale Speciale è stato sollevato dal comando, come sembra evidente, per ragioni politiche, ma chi lo ha sostituito non è stato in grado di accennare a simili episodi e di esibire contro di lui le prove di questa grave condotta, allora delle due l'una: o i nostri ministri non hanno alcun controllo della pubblica amministrazione, oppure degli sprechi sono complici, tranne poi battere cassa in tempo di Finanziaria.

Quel monaco, l'innominato

Avete notato? Del Dalai Lama, della sua prossima visita in Italia, neanche ne parlano gli esponenti di governo, quasi ci fosse una specie di consegna del silenzio. Non ne parla nemmeno Emma Bonino, che ha accuratamente evitato (o a cui è stato risparmiato) l'argomento durante la sua ultima intervista settimanale a Radio Radicale. Il Dalemone ci ha visto giusto quando, per neutralizzarla, ha insistito perché prendesse il Commercio Estero: ammutolita. A tutti costoro, ai conduttori televisivi e a Papa Ratzinger, si rivolge Filippo Facci, con parole che non possiamo che sottoscrivere:
«Si vergognino e basta. Lo facciano quei conduttori di talkshow che pensano che parlare del Dalai Lama e della Cina non faccia ascolti, e che un delitto molto vicino sia più interessante di carneficine molto lontane. Lo facciano quei miei colleghi, intrisi di realpolitik da cortile, che passano la vita a sezionare le cose bianche e naturalmente la milionesima ipotesi di proporzionale alla tedesca con soglia di sbarramento alla norvegese e scorporo alla molisana: convinti che determinate questioni siano solo velleità da idealisti e da radicaloidi anziché sostanza politica pura, allo stato brado. Si vergogni il presidente della Camera Fausto Bertinotti, capace di intrattenersi 50 volte al giorno coi cronisti e però incapace di dare una risposta ufficiale ai 285 parlamentari che per iniziativa di Benedetto Della Vedova gli hanno chiesto di ricevere il Dalai Lama con tutti i crismi, e se possibile di farlo parlare nell'emiciclo parlamentare. Si vergogni Romano Prodi, l'uomo che vorrebbe sospendere l'embargo delle armi alla Cina, il presidente del Consiglio che non incontrerà il Dalai Lama questo dicembre come non volle incontrarlo nell'ottobre 2006: nel 1994, diversamente, il Dalai Lama fu ricevuto ufficialmente da Oscar Luigi Scalfaro e dal premier Silvio Berlusconi, eppure l'import-export con la Cina rimase in piedi. Si vergognino pure, dal primo all'ultimo, i comunisti italiani: è l'unico gruppo dove non compare neppure un firmatario tra i 285 che hanno chiesto a Bertinotti d'incontrare il leader tibetano. Rifondazione comunista? Solo Pietro Folena e Maurizio Acerbo: solo loro due riescono a scacciare il sospetto che la sinistra italiana sia multilaterale solo in chiave antiamericana. Poi c'è il Vaticano, che ha certo responsabilità più complicate giacché milioni di cattolici cinesi rischiano persecuzioni ogni giorno: ma va detto che neppure Benedetto XVI, che a sua volta non incontrerà il Dalai Lama, ne esce infine splendidamente. Ma è tutto il nostro Paese a uscirne come il solito paesaggio di mezze stature e piccoli interessi».

Thursday, November 29, 2007

Il futuro del Medio Oriente passa per Washington. Nonostante la guerra irachena

... o anche grazie a quella guerra, che per molti avrebbe dovuto provocare l'isolamento degli Usa da parte delle piazze e delle capitali arabe?

La situazione si va lentamente normalizzando in Pakistan, dopo che il 3 novembre scorso Musharraf aveva proclamato lo stato d'emergenza e dato il via a una serie di arresti. Il generale/presidente sta rientrando nel solco tracciato d'intesa con gli Usa per la democratizzazione del paese. Musharraf non è più a capo dell'esercito: ha finalmente rinunciato al suo potere militare e ha giurato da presidente, in abiti civili. Le elezioni si terranno come previsto entro il 15 gennaio. Gli oppositori arrestati sono stati liberati. Sharif e Benazir Bhutto potranno candidarsi alle elezioni, anche se comprensibilmente gridano ad "elezioni farsa" per il permanere delle leggi d'emergenza. Pare che tutto o quasi, comunque l'essenziale, stia andando come chiedavano gli oppositori e come suggerivano gli americani.

Nel frattempo, la conferenza di Annapolis ha lanciato una nuova stagione di negoziati tra israeliani e palestinesi. Il coinvolgimento nel summit di importanti paesi arabi a livello dei ministri degli Esteri e la presenza, la collaborazione europea, sono già dei risultati politici: un segnale promettente verso il consolidamento di quell'"alleanza" che Washington sta faticosamente cercando di comporre tra paesi sunniti e Occidente per il contenimento della minaccia egemonica dell'Iran sull'intera regione.

Solo di una «photo opportunity» si è trattato, ha osservato Carlo Panella su Il Foglio. Ma difficilmente una «photo opportunity» è stata così politicamente significativa. Un'immagine addirittura «clamorosa» ne è scaturita, perché «ha visto tutti i paesi islamici e arabi del mondo (escluso l'Iran) rendere omaggio alla saggia iniziativa di George W. Bush. Per la prima volta nella storia anche questo, soltanto questo, una foto, ha assunto un suo significato profondissimo... Il vero, straordinario risultato che George W. Bush e Condoleezza Rice sono riusciti a conseguire – a quattro anni dalla guerra a Saddam – è di avere costretto tutto il mondo musulmano e arabo a riconoscere la propria leadership incontrastata. Tutti sono dovuti andare ad Annapolis» per non rimanere isolati come l'Iran; anche la Siria.

Certo, ancora nulla di concreto è emerso riguardo le possibili soluzioni ai problemi che dividono israeliani e palestinesi. Li aspettano mesi di durissimo lavoro. Soprattutto sul nodo centrale dei profughi e del carattere ebraico dello Stato di Israele, una questione prima di tutto di volontà politica. Su questo, osserva Panella, «dovrà esercitarsi al massimo la pressione internazionale, per convincere gli stati arabi, Arabia Saudita ed Egitto in primis, a riconoscere – nonostante i sicuri e gravissimi contraccolpi islamisti sul piano interno – il riconoscimento del diritto degli ebrei in quanto tali ad avere uno stato in Palestina». Senza questa pressione, con il contributo dell'Europa che può essere determinante, l'insuccesso è assicurato.

Da notare, segnalata da Maurizio Molinari, la grande sintonia tra il segretario di Stato Usa, Condoleezza Rice, e il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, per una pace in Medio Oriente basata sui processi democratici, la lotta al terrorismo e l'isolamento di un Iran smanioso di procurarsi la bomba atomica. E a dimostrazione della ritrovata intesa tra Parigi e Washinton, il primo seguito formale di Annapolis è previsto proprio nella capitale francese.

Roma ostaggio dei tassisti

Veltroni si gioca la faccia riformista, An e Udc l'hanno persa

Veri e propri tumulti di piazza quelli dei tassisti. Un blocco selvaggio, del tutto illegale, che paralizza Roma. Una violenza perpetrata sui cittadini e sui migliaia di turisti costretti a interminabili attese alla stazione Termini o all'aeroporto di Fiumicino, con grave danno arrecato all'immagine della città. Ma di fronte alla patente illegalità del blocco dei tassisti nessuna autorità interviene né minaccia sanzioni, neanche una multa per sosta non autorizzata. Ai tassisti che interrompono illegalmente un servizio pubblico andrebbe invece immediatamente sospesa la licenza.

Dobbiamo dire che oggi Veltroni, che un anno fa indebolì la proposta Bersani, intervistato su la Repubblica ha definito «inaccettabile» il blocco. «Il taxi è un servizio pubblico: si può proclamare uno sciopero, purché nei tempi e modi previsti dalla legge. Non si può invece... bloccare all'improvviso una città intera». E sembra intenzionato a tenere il punto su un pacchetto che prevede due proposte inscindibili: il Comune accetta l'aumento delle tariffe del 18%, come richiesto dai tassisti, ma in cambio di 500 nuove licenze. «Questo è il pacchetto, non si può prenderne solo una parte, quella più conveniente, e lasciare l'altra».

E' ciò che ha fatto scoppiare la rivolta dei tassisti, che pretendono di aumentare le tariffe senza il "disturbo" di nuovi possessori di licenza, mantenendo quindi scarsa l'offerta del servizio nella capitale. «Se la trattativa non fosse degenerata, avremmo potuto continuare a discutere. Ora i margini sono stretti, i paletti fissati. I tassisti devono sapere che il pacchetto è unico, si prende o si lascia tutto», insiste Veltroni, che come sulla sicurezza ha davanti quella che qualcuno chiama «una prova di leadership».

Da sindaco, spiega Antonio Polito al Corriere, Veltroni «ha l'occasione di giocare una partita fondamentale per dimostrare la sua volontà riformatrice... È un leader riformista. Se ne desse anche una dimostrazione concreta si rafforzerebbe di certo. Non si preoccupi del consenso, perché nei confronti di queste categorie corporative c'è un giudizio negativo. Tutti i modernizzatori cercano addirittura delle battaglie simboliche per dimostrare la propria forza», fa notare Polito.

Vedremo, ma è certo che Veltroni in questo braccio di ferro si gioca un'importante fetta di credibilità riformista. Chi se l'è ormai giocata, quella credibilità, sono An e Udc. Com'era prevedibile, infatti, a schierarsi con i tassisti sono An, La Destra e Udc. «Diciamo no alle nuove 500 licenze proposte da Veltroni e chiediamo di convocare subito, anche oggi, un consiglio comunale straordinario», si affrettava a dichiarare ieri il consigliere dell'Udc, Gasperini. Qualche crepa in An, con Urso (Farefuturo) più cauto: in linea di principio è giusto liberalizzare; e Alemanno a spada tratta coi tassisti, come Storace e Buontempo.

Intanto, Daniele Capezzone rilancia la proposta di legge elaborata e presentata insieme all'Istituto Bruno Leoni oltre un anno fa. Si tratta, ha spiegato, di «regalare (sottolineo: regalare) ad ogni tassista proprietario di licenza un'altra licenza, che poi potrà usare, far usare o vendere (l'unica cosa che non potrà fare sarà tenerla in un cassetto). In questo modo, si ottiene una doppia soddisfazione: degli utenti (che vedranno clamorosamente aumentare il numero delle auto a disposizione) e dei tassisti (che avranno una doppia "buonuscita")».

Tra teorizzazioni e realtà

Proprio perché si tratta di "teorizzazioni" che esistono solo nella mia testa, spero non si vorrà pretendere che rimanga inchiodato ad esse anche quando la prova dei fatti, il riscontro della realtà, ne abbia dimostrato l'inconsistenza. Non ho problemi a rivendicare di avere sperato sinceramente nell'operazione Rosa nel Pugno e ad ammettere di aver sbagliato. Potrei dire che le mie aspettative sono state disattese, "tradite". Ma siccome molti (tra cui Tombolini e consorte) avevano previsto il flop, posso ammettere di essermi sbagliato. Punto. Osservando però che già allora, contro l'opinione di qualcuno, sottolineavo come l'operazione fosse tanto possibile nella teoria quanto difficile nella pratica, individuando l'anello debole nell'incapacità dello Sdi a fare politica, quale che fosse.

L'elemento da me davvero inaspettato - che ancor più del fallimento della Rosa nel Pugno ha determinato la sconfitta strategica dei radicali nella loro scelta per la coalizione prodiana - è stato l'appiattimento governativo di Pannella e Bonino.

C'è qualcosa che però rimane attuale di quel mio post. La "tendenza anti-liberale, persino in politica economica", del centrodestra, che "non fa che affermarsi e avanzare, e va bloccata". Ora, il punto mi pare sempre questo: quella deriva anti-mercatista va bloccata e, se possibile, invertita. Difficile quanto si vuole, ma mi pare che se davvero Berlusconi avesse intenzione di fare a meno di An e di Udc, e di modificare anche gli equilibri che si erano cristallizzati in Forza Italia e dintorni, e se ci fosse un sistema elettorale favorevole ai due maggiori partiti, si aprirebbe una importante finestra di opportunità per invertire quella tendenza. Finestra che potrebbe sempre richiudersi in fretta, ma perché non provarci? Non mi sembra una nuova "teorizzazione" di alcunché, ma solo una riflessione.

Ma capisco che porti via meno tempo procedere con battute acide e sprezzanti e, se mi permettete, con schemi scontati.

P.S. che cadano i miti non è poi così male, ci sarebbe ben altro di cui dolersi.

Wednesday, November 28, 2007

I troppi silenzi di Sarkozy in Cina

Ha ragione Enzo Reale quando sul suo blog, 1972, denuncia che «il mutismo dell'eroe della nouvelle France (le illusioni muoiono all'alba) non dico su Taiwan, non dico sul Tibet, non dico sull'assenza di garanzie legali per gli imputati, non dico sui laogai ma almeno sul caso di un dissidente, anche uno solo, è passato quasi inosservato in tribuna».

Sarkozy merita tutte le nostre critiche per il silenzio sui temi della democrazia e dei diritti umani nella sua recente visita in Cina, durante la quale si è accontentato di far man bassa di contratti, come riporta la Bbc. Un comportamento certamente in contraddizione con quella «Francia dei diritti umani» che lo stesso presidente francese evocò nel suo primo discorso la sera stessa della vittoria elettorale. Questo ci insegna a non dare mai niente per scontato.

Se l'attenzione che giornali, media e blog (e mi ci metto anch'io) dedicano al fenomeno Sarkozy è forse eccessiva, è per la mancanza in Italia di un leader che sappia porre i propri obiettivi di fronte all'opinione pubblica in modo così netto e portarli avanti con tale fermezza, aiutato in parte dalla forte legittimazione popolare che il sistema francese attribuisce al presidente. In Italia la politica è così bloccata, immobile, autoreferenziale, sempre uguale a se stessa, che ogni segnale di novità dall'estero è anche una pillola di vitalità per noi.

Eppure, sarebbe sbagliato non riconoscere nella politica estera di Sarkozy alcune forti discontinuità rispetto a Chirac: i migliori rapporti con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna; il diverso approccio ai problemi dell'Africa e del clima; la fermezza sul nucleare iraniano, su cui sta tentando di svolgere un importante ruolo di tessitura tra Usa e Ue; un atteggiamento ben diverso nei confronti della Russia di Putin; un sano pragmatismo anche rispetto alla situazione di stallo dell'Unione europea; l'ammirazione per Blair. Discontinuità su cui concordano commentatori e analisti e che sarebbe un errore sottovalutare. Non ci piacciono, invece, la sua ostilità per l'ingresso della Turchia nell'Ue e i silenzi, troppi e assordanti, dei giorni scorsi in Cina.

Anche sul piano interno, economico, sappiamo che non possiamo aspettarci da Sarkozy "rivoluzioni liberali" di stampo reaganiano e thatcheriano, ma un serio, pragmatico approccio riformista, e una ventata di riforme liberali che servono a sbloccare il mercato del lavoro e la burocrazia, in un paese tra i più statalisti d'Europa, questo direi di sì. E' presto per dire se Sarkozy si dimostrerà all'altezza della sua "rupture", ma il suo successo potrebbe far bene anche alla politica italiana.

Assist troppo invitanti

Dall'intervista di Claudio Landi al senatore Lamberto Dini (Radio Radicale, 27 novembre 2007).

Intervistatore: Tra poco lei, insieme con altri senatori, presenterete un nuovo gruppo, o per meglio dire, una componente di un nuovo gruppo. Di che cosa si tratta, quali sono i vostri obiettivi...
Dini: Mah, noi vogliamo portare avanti quelle che noi consideriamo le politiche di cultura liberale, e liberaldemocratiche, di cui noi pensiamo il paese abbia bisogno, abbia fortemente bisogno, per superare il declino nel quale è caduto.
Intervistatore: In un tale gruppo ci starebbe benissimo Marco Pannella...
Dini: Come?
Intervistatore: In un tale gruppo ci starebbe benis...
Dini: Ci starebbe benissimo Daniele Capezzone. Marco Pannella non lo so. (ride)
Intervistatore: Perché dice così?
Dini: Perché è caleidoscopico Marco Pannella, quindi, con tutto l'ammirazione e il rispetto che abbiamo per lui...

L'intervistatore alza involontariamente la palla e Dini schiaccia impietosamente.

Annapolis. Scetticismo e un paio di condizioni favorevoli

La conferenza di Annapolis è un'iniziativa destinata a fallire?
Innanzitutto, nessuna firma storica, ma «l'inizio di un percorso» che dovrebbe durare per tutto il 2008 tra Israele e Autorità Palestinese. C'è l'intesa per partire (avviare «immediatamente» i negoziati per arrivare a un accordo di pace «entro il 2008») e, guardandoci indietro, agli ultimi anni, non è poco. «Due Stati sovrani che vivono in pace l'uno accanto all'altro» è l'obiettivo. Ma Bush nel suo discorso è tornato a precisare: uno stato palestinese «indipendente e democratico».

Determinante, come nei tentativi passati, sarà il ruolo dei paesi arabi, invitati ad Annapolis. Di loro non c'è da fidarsi, ma quale migliore occasione di questa per strappargli il riconoscimento di Israele, in un momento storico in cui come mai prima è così concreto il pericolo di un Iran egemone e dotato di bomba atomica?

Un'altra condizione favorevole ci induce per lo meno a sperare. Forse per la prima volta il fronte palestinese è diviso tra terroristi fanatici e terroristi pragmatici. E se è vero che Al Fatah non è composta da gentiluomini, tuttavia Abu Mazen non è Arafat. Negli ultimi mesi Hamas ha monopolizzato la violenza terroristica, l'ha usata anche ai danni dell'Anp, e l'unica ragion d'essere di Al Fatah oggi appare molto più quella di ottenere finalmente lo Stato palestinese, ed esserne artefici, che non la distruzione di Israele.

La divisione in due stati nazionali - uno israeliano l'altro palestinese - appare certamente una formula anti-storica, nel momento in cui, tranne che nell'arretrato mondo arabo, un po' dappertutto negli altri continenti le nazioni ambiscono a trovare formule di integrazione sul modello europeo. Tuttavia, la formula dei "due Stati" al momento porterebbe a una chiarificazione delle responsabilità. Non sarebbe in nessun modo tollerato che uno Stato palestinese aggredisca il suo vicino israeliano. Nessun complesso di colpa per le precedenti occupazioni potrebbe essere alimentato per frenare la mano di Israele.

Non c'è dubbio che in Medio Oriente non ci sarà pace finché saranno al potere dittature spietate e stragiste in Siria e Iran, e ambigue e wahabite come in Arabia Saudita. Eppure, la nascita di uno stato palestinese potrebbe togliere un bel mucchio di alibi e permettere/costringere gli stati arabi a riconoscere Israele.

Insomma, paradossalmente è proprio la minaccia di espansione della rivoluzione islamica iraniana, e dei suoi alleati, a costituire una straordinaria forma di pressione sui regimi sunniti.

Quella "cortina sunnita", che per contrastare le ambizioni iraniane dovrebbe favorire un accordo tra israeliani e palestnesi, è ben lungi dall'essere compatta, come ha osservato Carlo Panella citando gli esempi di Gaza, del Pakistan e del Libano, dove proprio in questi giorni la Siria potrebbe riconquistare le posizioni perdute dopo l'omicidio di Hariri. Eppure, è una carta che non può non essere giocata.

La questione centrale è il ritorno di milioni di profughi palestinesi in Israele, attraverso il quale Al Fatah si prefigge di negare di fatto il carattere ebraico di Israele. Sul resto le due parti sembrano pronte a sacrifici e a compromessi «dolorosi». Per quanto possa sembrare anti-storico a noi europei, proprio l'appartenenza etnica venne individuata dall'Onu, con la risoluzione 181 del 1948, come criterio di quella divisione che apparve l'unica soluzione del conflitto tra ebrei e arabi in Palestina. Il carattere etnico, sia di Israele che di uno Stato palestinese, trova quindi piena legittimità e da esso non si può prescindere.

Il carattere irrazionale e fanatico dei regimi arabi ci rende perplessi circa la possibilità che sul nodo centrale del carattere ebraico di Israele facciano prevalere considerazioni di realpolitik, ma le condizioni favorevoli per un tentativo ci sono.

Tanta voglia di '94

Attesa per l'incontro di venerdì tra Veltroni e Berlusconi, ma non sarà in nessun modo decisivo. Anzi, noi ci auguriamo che i due sotto-sotto siano già d'accordo. Berlusconi ha ammorbidito le sue condizioni per il dialogo: la «buona fede», cioè che non serva a tergiversare con questa legislatura; e non più la data certa delle elezioni, ma la presa d'atto «della necessità di andare al voto. Non perché sia materia di scambio con l'accordo sulla legge elettorale, ma semplicemente perché è chiaro a tutti l'esaurimento di questa maggioranza».

«Non mi pare - dice di Veltroni - abbia la vocazione di certi soldati giapponesi, che continuarono a combattere per l'imperatore non rendendosi conto che la guerra era finita da un pezzo». Fischiano a qualcuno le orecchie?

Lanciato il nuovo partito, che ambisce al ruolo di contenitore unico del centrodestra - quanto ad elettorato se non a ceto politico - Berlusconi dovrà mantenere i suoi impegni (è stato lui a parlare di elezioni interne e primarie) per un partito che non dev'essere per forza di tipo tradizionale, che sia anche leggero e moderno, all'americana, ma aperto e democratico nella formazione delle leadership e delle proposte politiche.

Berlusconi avrebbe potuto chiamare a raccolta attorno a un tavolo le oligarchie dei partiti di centrodestra, come hanno fatto dall'altra parte Margherita e Ds per il Pd, impiegandoci anni a trovare l'equilibrio che quelle oligarchie preservasse, ma ha scelto un approccio che gli si addice di più, verticistico e carismatico. A patto, però, che sia solo la fase di avvio di un processo e che non pretenda di riempire lui tutte le caselle vuote. Lo spessore del nuovo partito lo verificheremo anche dai contenuti. Chi ha più filo, tesserà.

Ieri tre interventi su il Giornale sono apparsi incoraggianti. Nicola Porro parla senza mezzi termini di «progetto politico liberale, senza mediazioni». Per «recuperare l'ispirazione originaria che una certa pratica di governo ha compromesso» bisogna seguire «tre capisaldi»: innanzitutto, «una ricetta liberista nei commerci. Nessuna tentazione "anti-mercatista", riduzione drastica della pressione fiscale, generalizzata, per imprese e contribuenti»; poi, uno Stato «meno ingombrante. Meno burocrazia, meno norme e meno adempimenti per la collettività». Perché gettare al mare alcune «buone ricette liberalizzatrici immaginate, ma non realizzate, dal governo Prodi»? Meglio riprenderle «estendendole all'intera società e non solo a specifiche corporazioni da punire»; infine, una riforma del sistema pensionistico che «disboschi i privilegi e soprattutto faccia i conti con un'Italia matura, in tutti i sensi. E che dunque non può permettersi l lusso di perdere forza lavoro cinquantenne».

Paolo Del Debbio suggerisce di puntare a rappresentare «la forza lavoro senza certezze». Si tratta degli outsider, dei produttori (sia imprenditori che lavoratori) non garantiti. Una nostra fissazione non da oggi.

Poi c'è Renato Brunetta, che si concentra sulla forma partito: per il centrodestra «è ora di tornare alla rivoluzione liberale e popolare del 1994 di Silvio Berlusconi, e alla forma partito-rete delle origini». Che sia un «network con un forte centro, costruito attorno a "reti" economico-associative e a persone di destra e di sinistra - e né di destra né di sinistra - con un semplice programma: cambiare l'Italia». Per Brunetta la parola chiave è «competizione»: un «partito-rete, più di un partito tradizionale, chiuso nella sua ideologia e nella sua organizzazione, ha bisogno di visioni, di programmi, di idee, e di strumenti democratici per la loro elaborazione e la loro sintesi politica. Ha bisogno di gruppi dirigenti aperti e in competizione. Televisioni, internet, blog, radio, giornali, riviste: la direzione della comunicazione non sarà più solo "verticale", ma diventerà sempre più orizzontale». Berlusconi «a fare da catalizzatore di una nuova forma partito, hub di reti e di nodi, di movimenti, con il comune obiettivo di cambiare l'Italia... E chi ci sta, ci sta».

Ci sta sicuramente Daniele Capezzone - di cui si parla per un ruolo certo non di secondo piano - che auspica un partito sul modello di quello repubblicano negli Usa, un «gigante dalle tante anime». «Con il contributo di tutti può nascere una formazione capace di segnare la politica italiana per lustri. Berlusconi ha avuto grande coraggio e generosità, adesso i liberali devono venirgli incontro». E, magari, accerchiarlo.

La situazione generale resta pessima, e i cittadini hanno tutti i motivi per diffidare, ma ai politici si chiede di scommettere, di rischiare (pena il "non essere"), guardando anche un po' a quando inevitabilmente Berlusconi lascerà un vuoto politico.

Tuesday, November 27, 2007

Rifondazione si arrende, Dini pesa di più, ma rimane la controriforma

Il "socialismo reale all'italiana"

Come volevasi dimostrare, il vero pericolo per la sopravvivenza del governo era costituito da Dini: lui e i suoi non avrebbero votato al Senato un ddl sul welfare che avesse previsto «spese aggiuntive palesi e occulte» per accontentare la sinistra massimalista. Siccome era chiaro che Rifondazione non si sarebbe presa il rischio della caduta di Prodi, e della conseguente entrata in vigore dello scalone Maroni, alla fine il governo ha deciso di presentare un maxiemendamento che di fatto riporta il ddl al protocollo su cui le parti sociali si erano accordate lo scorso 23 luglio.

Marcia indietro sui due punti più controversi. Si torna al testo originario sui lavori usuranti, la cui estensione era la maggiore preoccupazione di Dini, mentre per venire incontro a Confindustria salta il tetto di otto mesi alla proroga per i contratti a termine e viene ripristinato anche su questo punto quanto previsto dall'accordo del 23 luglio. Modifiche solo sul job on call e sullo staff leasing, abolito. Modifiche negative ma tutto sommato marginali.

E' evidente che nel merito il provvedimento del governo è una inaccettabile e pericolosa controriforma, per i conti pubblici, per il sistema pensionistico e la forza lavoro attiva. Anziché alzare l'età di pensionamento (come si fa in tutta Europa), da noi la abbassiamo, con un costo di 10 miliardi di euro gran parte del quale sulle spalle dei lavoratori flessibili, per lo più giovani, di cui qualcuno pretende anche di dirsi paladino.

Rifondazione comunista non ha tirato oltre la corda, perché Dini l'avrebbe certamente spezzata. Sì alla fiducia, dunque. «Abbiamo deciso di restare legati ad un vincolo con il nostro elettorato, altrimenti a gennaio entrerà in vigore lo scalone Maroni», ha spiegato Elettra Deiana al termine della riunione del gruppo alla Camera.

Per ora, il segretario di Rifondazione comunista Giordano si è limitato a chiedere una «verifica» per gennaio prossimo, escludendo però l'ipotesi ventilata del ritiro dei propri ministri e sottosegretari dalla compagine governativa.

Rimane il bilancio sull'operato del governo tracciato proprio oggi sul Corriere della Sera dal senatore Dini, il quale osservava «che il combinato disposto del primo "decreto Tesoretto", della legge Finanziaria, del secondo decreto e dell'accordo sul Welfare comportano circa 37 miliardi di spesa pubblica», senza tagli di spesa né, ovviamente, riduzione delle entrate, e dunque che «il partito del "tassa e spendi" ha quindi vinto ancora una volta la sua battaglia».

Ma ad «un'analisi più strutturale» appare evidente il «profondo radicamento del nostro Paese, nel centrosinistra con maggior forza (specie nelle sue frange estreme) ma anche nelle altre parti politiche, di un vero e proprio "partito unitario della spesa pubblica", annidato specie nelle Regioni e negli enti locali».

Spesa pubblica che è linfa vitale della «partitocrazia», da cui «trae origine il fenomeno — solo italiano — della lottizzazione... dell'esercito fatto di decine di migliaia di persone, di consiglieri di amministrazione, consulenti e quant'altro annidati in quelle migliaia di cellule del socialismo reale all'italiana che sono le migliaia di enti, aziende pubbliche e municipalizzate». Lì operano quelli che si possono definire «i funzionari della partitocrazia, tutti soggetti che giustificano, motivano e consolidano la propria ragion d'essere nel chiedere e generare flussi di spesa pubblica aggiuntiva».

Ha ragione Dini, se ne è accorto, a definirla «la questione delle questioni», economica, ma anche sociale e politica.

Un aperitivo per Rudy

Per chi ci sarà, ci vediamo stasera, alle 19:00, all'hotel Aleph (sala lettura) in Via San Basilio 48, Roma.

Monday, November 26, 2007

Afghanistan. Non è un problema di retorica ma di politica

Saper compiangere il soldato Paladini, elaborare il lutto, riconoscere il nemico, usare il "lessico della battaglia", sono le preoccupazioni di Giuliano Ferrara, ma mi accontenterei di un governo che non spedisca i nostri soldati al fronte con le mani legate dietro la schiena. Perché neanche la retorica più "bellicista" potrebbe sollevare un governo, e un ministro della Difesa, dalla responsabilità di una missione militare mal concepita, che rende i nostri uomini bersagli quasi inermi degli attacchi nemici.

In un paese cosiddetto "normale" la tragica morte di un giovane soldato non avrebbe messo a tacere le polemiche - nel rispetto di un malinteso spirito di unità nazionale - ma queste avrebbero travolto ministro e governo, una volta evidente che a causa delle divisioni interne alla maggioranza avessero messo le nostre truppe nelle condizioni di essere viste dai talebani come il "ventre molle" della coalizione. E' così politicamente scorretto, a poche ore dalla morte di Paladini, discutere di responsabilità politiche e di dimissioni?

Il generale Arpino ha denunciato a Il Messaggero che la situazione politica della maggioranza di governo in Italia incentiva i talebani a concentrare gli attacchi contro i nostri soldati. «Sanno di correre minori pericoli» attaccando nelle aree presidiate dagli italiani, «sanno che, attaccando gli italiani, rischiano di meno e fanno aumentare le pressioni per il ritiro del contingente».

Il problema è che le truppe italiane in Afghanistan «non partecipano alla caccia al talebano... sono "no combat"... si limitano a fornire la cornice di sicurezza alle opere che fanno». In questo modo sono «esposti all'iniziativa altrui», diventano «un bersaglio preferenziale». «Se continuiamo così, diamo un'immagine dei nostri soldati, in teatro, che non è delle migliori», rispetto all'immagine degli altri contingenti che combattono. «Gli italiani rischiano di farsi la fama di quelli contro i quali è bene sparare perché così se ne vanno. La maggioranza politica, nel suo insieme, dovrebbe essere consapevole di questo pericolo. I militari italiani fanno meno paura degli altri al "nemico", e questo è un punto debole».

La domanda a cui Berlusconi deve rispondere

Anche se Sarkozy «non si è fatto piegare» dagli scioperi e ha ottenuto che i regimi pensionistici speciali vengano riformati, ancora non è chiaro a che prezzo; e le sue altre riforme incontrano forti resistenze. Tuttavia, ha già conseguito un successo notevole mantenendo dalla sua parte l'opinione pubblica, che in Francia era abituata a schierarsi con la protesta sociale e i sindacati. Ieri, sul Corriere della Sera, Mario Monti poneva alla nostra attenzione «tre punti di interesse per l'Italia» suggeriti dall'esperienza sarkozyana.

Innanzitutto, il nostro desiderio, a destra come a sinistra, di essere governati «nel linguaggio della verità e con il coraggio della decisione» che ha dimostrato Sarkozy. La sua forza - oltre a quella che gli attribuisce un sistema presidenzialista e uninominale - deriva anche dall'aver vinto le elezioni sulla base di un «programma chiaro». Ottenuto il mandato, «ouverture» nei confronti degli avversari, né umiliazione, né occupazione, né inciucio: «Ha reso così più condivise le sue linee politiche, più deboli gli argomenti degli oppositori, più isolate le categorie che resistono alle riforme». Sarkozy è forte perché fa pesare la sua legittimazione popolare, «si spiega al Paese, invece di "concertare" con le organizzazioni sindacali e imprenditoriali».

Anche Enzo Bettiza, su La Stampa, ha elogiato «il metodo» di Sarkozy, «morbido nella forma e determinato nella sostanza». Un autunno «tiepido», quello 2007, anche perché al contrario che in passato «si è potuta anzi notare, palpare fisicamente, una certa implicita approvazione collettiva delle riforme proposte, per arginare la senilità assistita della Francia, dal "liberale colbertista"» Sarkozy.

Anche Bettiza è tornato con la memoria alle esperienze di Reagan e della Thatcher, trovando che «l'insegnamento che Sarkozy sembra aver tratto... è che solo dopo lo scontro, consumato fino in fondo, Reagan e la Thatcher furono in grado di portare a casa riforme altrettanto radicali». Ma Sarkozy non è un liberista, non è anglosassone, è un francese, la sua è una riforma più che una rivoluzione, la sua è una Francia «comunque più blairiana che thatcheriana, che stavolta si pone all'avanguardia del riformismo continentale».

La realtà italiana al confronto non può che apparire «deludente», il «tripudio della commedia dell'arte, della sceneggiata allusiva». Tra proporzionale "alla tedesca" o "puro", «guai ad accennare al presidenzialismo, trionfante a Parigi, dove esso ha premiato non solo conservatori atipici ma anche leader socialisti come Mitterrand... Il rischio che corre l'elettore italiano è di recarsi alle urne secondo regole non "tedesche", non "spagnole", tanto meno "francesi". Ma balcaniche senza virgolette».

Ma secondo Mario Monti la lezione di Sarkozy dovrebbe essere imparata soprattutto dalla destra. D'accordo, dice, le «politiche liberali, fondate sulla concorrenza e sul merito, giovano agli obiettivi sociali delle sinistre, come è acquisito da tempo in Europa. Ma perché rinunciare ad aspettarci in primo luogo dalle forze di centrodestra un forte e radicale impulso verso quelle riforme?»

Com'è evidente ai più - anche se i nostri politici, di destra e di sinistra, sembrano non averlo ancora compreso - «l'ottima opera economico-sociale di Blair, di Clinton, di Zapatero non sarebbe stata possibile se prima di loro Thatcher, Reagan, Aznar non avessero smantellato il dominio delle corporazioni sull'economia, dando spazio al mercato, allo sforzo individuale, al merito». È esattamente ciò che Sarkozy si propone di fare, «pur nel più statalista dei grandi Paesi occidentali».

E qui si tocca il nervo scoperto della grande incompiutezza della vicenda politica di Berlusconi, che «ha avuto il merito di creare in Italia una grande forza alternativa», ma la grave responsabilità di non averla usata «per imprimere una svolta verso un liberismo disciplinato e rigoroso. Ha combattuto con accanimento gli spettri comunisti del passato, più che gli interessi corporativi del presente».

La domanda a cui Berlusconi, con il nuovo partito di cui ha annunciato la nascita, dovrà al più presto rispondere è: «Sarà proprio l'Italia l'unico Paese capace di riformarsi a fondo solo grazie alla palingenesi, apprezzabile ma faticosa, delle forze di centrosinistra, che per decenni si erano impegnate con successo contro l'economia di mercato? Perché il centrodestra, oggi in ebollizione, non potrebbe trovare questa missione, che darebbe a esso dignità storica?»

Ancora una volta la malasorte di un paese bloccato mette Berlusconi di fronte alle aspettative che ha già più volte disatteso e deluso: l'unica missione che darebbe al centrodestra «dignità storica» in questo paese è la "rivoluzione liberale". Berlusconi sarà ricordato per molte cose di questi 13 anni - come innovatore della politica italiana, e protagonista di diverse stagioni - ma se non sarà demiurgo di un centrodestra capace di fare propria questa missione temo che il bilancio finale non potrà che risultare in passivo.

Iraq. L'indifferenza e il cinismo non sono accettabili

Onesto e acuto, come al solito, l'ultimo editoriale di Christopher Hitchens sul New York Times (tradotto dal Corriere della Sera). Prende atto che in Iraq la maggioranza dei sunniti ha finalmente compreso la vera natura stragista di Al Qaeda e gli ha voltato le spalle, gettando le basi per una sua pesante sconfitta; e che il popolo iracheno ha rigettato la prospettiva della "guerra civile" e la violenza settaria è in netto calo.

Su Al Qaeda, conclude Hitchens, si tratta di una «vittoria decisiva sotto ogni punto di vista». Certo, sul piano politico interno «è difficile nutrire grandi speranze, eppure già si notano segnali promettenti». Insomma, cautela, persino scetticismo, sono giustificati. Ciò che non è accettabile però sono l'indifferenza o il cinismo. Le "good news" che giungono dall'Iraq non è detto che corrispondano perfettamente alla realtà e che siano durevoli. Ma «potrebbero essere vere e sarebbe fantastico se lo fossero», osserva Hitchens.

«Quello che mi preoccupa della reazione tra liberal e democratici non è lo scetticismo, che è perdonabile, bensì la squallida impressione che solo le peggiori notizie sarebbero da loro ben accolte. Questa mentalità è inammissibile e sicuramente non sarà loro perdonata».

Sunday, November 25, 2007

Arrestato Kasparov. In Russia verso elezioni farsa

Ecco qualcosa che per essere credibile Berlusconi dovrà subito rivedere: il suo rapporto con Putin. Ieri il presidente russo, a pochi giorni dalle elezioni parlamentari (il 2 dicembre), cioè in piena campagna elettorale, ha messo in atto un altro episodio di repressione e intimidazione delle opposizioni, che rende davvero arduo definire democratiche le elezioni che si svolgeranno.

Manifestanti presi a manganellate e arrestati dalla polizia in tenuta antisommossa a San Pietroburgo, mentre uscivano dalla sede locale del partito liberale Yabloko, poco prima dell'inizio di una manifestazione non autorizzata contro il presidente Putin. In particolare, i militari hanno preso di mira un gruppo di militanti dell'estrema sinistra, del movimento dello scrittore Limonov, caricati su un furgone e portati via. Agli scontri sono seguiti molti arresti, una cinquantina di manifestanti, tra cui il leader locale di Yabloko, Maxim Reznik. La marcia era promossa da Altra Russia, la sigla che raccoglie diversi movimenti dell'opposizione, inclusi i partiti liberali Yabloko e SPS.

E sempre ieri, a Mosca, ci sono stati altri incidenti, altri arrestati (tra cui i radicali Serge Konstantinov, poi rilasciato, e Nikolaj Khramov, di cui non si hanno notizie), sempre per una marcia anti-Putin vietata dalle autorità. I manifestanti volevano consegnare un documento di denuncia alla Commissione elettorale centrale, ma sono stati affrontati dai poliziotti: arrestato e poi condannato a cinque giorni di carcere anche l'ex campione di scacchi, e ora leader dell'opposizione, Garry Kasparov. Secondo la sua collaboratrice, è stato gettato a terra e picchiato, poi insieme a una delle sue guardie del corpo caricato su un pullmino militare, mentre almeno tremila manifestanti gridavano "Libertà, libertà" all'indirizzo degli agenti anti-sommossa.

Le ragioni della crisi delle sinistre europee

«Perché sono in difficoltà i par­titi di sinistra e di centrosinistra» in Europa? Se lo chiede Anthony Giddens (la Repubblica, 23 novembre). La causa è la «mancata modernizzazione».

«Stare a sinistra un tempo significava avere la propensione a pensare in maniera progressista - criticando le istituzioni esistenti e dimostrando che sarebbero dovute essere trasformate. Destra implicava conservatorismo, vale a dire, una difesa dell'ordine delle cose esistente di fronte al cambiamento. Oggi la modernizzazione non è una prerogativa della sinistra. Vi sono due dimensioni sulla scena politica: tra sinistra a destra e tra modernizzatori e conservatori. I partiti o le coalizioni di destra e centrodestra oggi presenti nella Ue sono per buona parte modernizzatori, nel senso che tentano di cambiare l'ordine delle cose esistenti per meglio allinearlo alla realtà contemporanea dell'economia e della società più in generale; mentre vi sono almeno tanti "conservatori" nella sinistra quanti ve ne sono a destra: vorrebbero lasciare immutate le istituzioni (i sistemi del welfare, i diritti alla pensione, i mercati del lavoro, per esempio) invece di riformarle».

Saturday, November 24, 2007

Prove di golpe in Libano

Il presidente Lahoud, filo-siriano, ha proclamato lo stato di emergenza, ordinando all'esercito di prendere il controllo della sicurezza e di tutte le forze armate del Libano.

Ha motivato la sua decisione con la mancata elezione di un nuovo presidente a poche ore dalla scadenza del suo mandato, ma in base alla Costituzione, toccava al premier, Siniora, assumerne le veci nella forma di una "presidenza collegiale", in attesa dell'elezione del nuovo capo dello stato. Lahud ha invece dato seguito alle sue minacce: in caso di mancata elezione di un successore prima della scadenza del suo mandato, aveva annunciato nei giorni scorsi, si sarebbe rifiutato di trasferire i poteri presidenziali al governo Siniora, giudicato «illegittimo» da quando, un anno fa, tutti i ministri sciiti si sono dimessi.

Atto «non valido e incostituzionale», ha denunciato Siniora. Per la quinta volta in due mesi, le elezioni presidenziali erano state rinviate nei giorni scorsi al 30 novembre, a causa dell'ostruzionismo del movimento sciita Hezbollah.

All'uccisione di alcuni deputati anti-siriani e ai movimenti minacciosi di Hezbollah, ora si aggiunge un altro elemento di ulteriore destabilizzazione. E la tensione rischia di esplodere. La settimana che sta per iniziare è delicatissima.

Friday, November 23, 2007

All'improvviso rimasero in pochi a volere il dialogo

Improvvisamente l'unico a voler dialogare con Berlusconi sembra rimasto Veltroni. Lo "scandalo" Rai-Mediaset (che non cambia di un millimetro ciò che andrebbe fatto: privatizzare), confezionato da Palazzo Chigi e la Repubblica, ha offerto a tutti coloro che temono che quel dialogo possa produrre davvero qualche esito un'arma potente da impugnare per minacciare lo stesso Veltroni: il sospetto di "intelligenza" col nemico a sinistra è ancora punito severamente.

L'idea del dialogo piaceva finché Berlusconi appariva chiuso nel suo bunker a studiare "spallate". Tutti a blaterare di quanto fosse civile, proprio di una democrazia matura, discutere con l'avversario le regole del gioco, soprattutto quando il sistema si dimostra così bloccato. Veltroni adesso è solo, e lui stesso non può che allontanare da sé ogni accusa di inciucio. In molti nel centrosinistra hanno paura del dialogo Berlusconi-Veltroni. Il risultato che potrebbe uscirne - cioè una competizione basata sui due partiti maggiori - rischia di produrre un massacro di piccoli-medi partiti, che vedrebbero ridotta di molto la propria forza contrattuale, o di ricatto, e di contribuire alla veltronizzazione del Pd, cosa che i dalemiani, i prodiani, i popolari della Margherita sono impegnati a scongiurare.

Sul lato destro, Fini furioso va soprattutto contro se stesso: se pensa di vendicarsi del Cav. sulle sue tv, o puntellando il Governo Prodi, non farà una bella figura con i suoi elettori. Il leader di An sa che rinchiudersi a destra con il suo 10% - se gli va bene - significherebbe l'irrilevanza, eppure non gli riescono che reazioni scomposte, fin troppo rivelatrici del fatto che Berlusconi deve aver colpito nel segno.

Oggi Fini firma con Casini un comunicato in cui i due sottolineano l'urgenza di «elaborare progetti che nulla hanno a che fare con l'improvvisazione propagandistica né con estemporanee sortite populistiche». Pronta la risposta del Cav.: «Se continuano così a noi va benissimo: noi ci teniamo gli elettori loro si tengono il progetto...»; e la controreplica di Casini: «Quando Berlusconi arriva al 101% ci avverta...».

Ora, se da parte di Berlusconi non sono venuti grandi progetti, nuove idee e proposte, ma ha per mesi rincorso una rivincita personale, è anche vero che dalle loro parti di politica in questi anni non se n'è vista molta, e quella poca che si è vista non ci è sembrata affatto liberale: sia per il ruolo che hanno avuto nella compagine governativa, di difesa del pubblico impiego e delle professioni, quindi di freno sulle riforme liberali, su tasse, pensioni e spesa pubblica; sia per quanto riguarda ipotesi di partito unitario.

Se Berlusconi ha pensato solo ad assestare a Prodi la "spallata" decisiva, mettendo da parte la politica, Fini e Casini hanno pensato innanzitutto a dare "spallate" a Berlusconi. Peccato che in queste "spallate" non ci fosse molta politica, che non avessero i consensi e le proposte politiche per contendergli la leadership in campo aperto.

Berlusconi di errori ne ha fatti tanti, a cominciare dall'essersi concentrato troppo sui suoi interessi, ma forse quello più clamoroso è di aver creato dal nulla due pseudo-leader: Fini, sdoganandolo dal suo passato missino, anche se poi è rimasto sempre in mezzo al guado; Casini, un ex democristiano cui ha regalato seggi e leggi elettorali ad hoc. L'alleanza con Berlusconi ha fatto da "traino" ad An e Udc, verso quote elettorali che fino ad allora potevano solo sognare. E per tenere in piedi la coalizione ha accettato compromessi che hanno contribuito - complici scelte sbagliate compiute in piena autonomia - prima a sbiadire, poi a cancellare, l'iniziale vocazione liberale di Forza Italia. Tanto pieno di politica hanno creato i due da non riuscire a contendere seriamente la leadership di Berlusconi, né a esserne credibili successori, limitandosi invece a logorarlo ai fianchi.

Molti elettori, dovendo scegliere tra Berlusconi, Fini e Casini all'interno di una stessa coalizione, hanno finora scelto gli ultimi due quando hanno inteso rimarcare una posizione critica nei confronti del leader. Ma se si trattasse di scegliere non più all'interno di uno stesso progetto politico, ciascuno per ciò che è e che ha fatto, per l'identità del partito che ha alle spalle, allora penso che fra i tre la scelta ricadrebbe su Berlusconi.

Berlusconi porta con sé una responsabilità enorme: quella di aver sciupato parecchie occasioni per riformare questo sfortunato Paese in senso liberale. «Chi di noi ha la possibilità e l'età per farlo deve pensare al Paese, chi ha 20 anni di più può pensare a se stesso», ha ironizzato oggi Veltroni a 8 e mezzo. Ma la battuta di Veltroni potrebbe essere rivoltata: forse non sarà il caso di Berlusconi, ma alle volte chi ha quei 20 anni di più e ha avuto tutto, ma proprio tutto, dalla vita, può soffermarsi a pensare al Paese, mentre i cinquantenni che non hanno più tutta la vita davanti pensano a se stessi.

Comunque oggi anch'io, che pure sapete bene quanta poca fiducia riponga nell'uno e nell'altro, "tifo" per loro: perché compiano le uniche scelte in grado di dare un senso a due partiti a vocazione maggioritaria.

Sarkozy non indietreggia

L'università Sorbona di Parigi rimarrà chiusa fino a lunedì. La decisione è stata presa dal rettorato dopo i violenti tafferugli scoppiati tra studenti che volevano raggiungere le aule e i manifestanti che protestavano contro le riforme volute da Sarkozy: l'autonomia ammistrativa degli atenei e l'abolizione dei regimi pensionistici speciali.

Nel comunicato si spiega che un gruppo di studenti ha fatto ricorso alla forza per bloccare uno degli ingressi all'università. Questi studenti, si precisa nella nota, «fanno ogni giorno uso della forza, e questa mattina hanno fatto ricorso alla violenza fisica contro coloro che volevano seguire i loro corsi». Ecco come le frange estremistiche e ideologizzate degli studenti si battono per il "diritto" allo studio.

In Italia non siamo ancora arrivati a questo nelle università, ma accade nei licei che le occupazioni da parte di minoranze politicizzate, o più semplicemente alla ricerca di un po' di divertimento, ledano il diritto allo studio degli altri studenti, che da noi sono più mansueti, e subiscono, preferendo prendersi un giorno di vacanza piuttosto che fare a pugni per entrare.

Intanto, mentre gli studenti oggi fanno chiudere la Sorbona, ieri i sindacati francesi hanno deciso di far cessare la protesta contro l'abolizione dei regimi pensionistici speciali, anche perché stava scemando da sola. Le cifre della partecipazione agli scioperi stavano diventando imbarazzanti.

E' stato comunque aperto un tavolo negoziale tra governo, sindacati e imprese, ma gli obiettivi della riforma non si toccano. Sarkozy ha ribadito di non volere cedere né fare passi indietro. «Ho assunto degli impegni, intendo assolverli. La riforma non poteva più essere differita. Questa riforma si farà perché è equa e perché è necessaria». E' stato abile a dimostrare fermezza, a non dare l'idea di cedimento, e a non usare toni trionfalistici, per non fare il gioco di una protesta che da sola non è riuscita a raccogliere la solidarietà dell'opinione pubblica. Piuttosto, pensa di rivolgersi direttamente a tutti i cittadini: «Parlerò ai francesi, quando il conflittò sarà davvero alle nostre spalle».

Come ha notato Nicola Porro su il Giornale, il metodo è vincente: non si tratta sull'obiettivo, legittimato dall'elettorato, semmai sulle modalità. Così il governo «non appare arrogante e sindacati e massimalisti vengono spinti verso forme di protesta più radicali che fanno loro perdere ogni minimo consenso da parte dell'opinione pubblica».

Dini aspetta al varco

La svolta di Berlusconi potrebbe aiutare Dini, che l'ha molto apprezzata, a convincersi che sia l'ora di staccare la spina al governo. Bisogna vedere come il protocollo welfare uscirà dalla Camera. Dini si è detto pronto a votare contro il disegno di legge, perché nel testo approvato in commissione Lavoro, alla Camera, ci sono «cedimenti all'estrema sinistra» che causano «un aumento di spesa notevole» rispetto ai 10 miliardi previsti all'inizio, che, pur «malvolentieri», i suoi Liberaldemocratici accettarono. «Vediamo come esce dalla Camera, poi decidiamo».

E' difficile che Prodi si giochi il posto accontentando oltre la sinistra comunista. Ed è difficile che sia la sinistra comunista a rompere, visto che significherebbe tenersi lo "scalone" Maroni. In ogni caso, mi pare che Dini aspetti al varco e se si tira troppo la corda sia disposto a spezzarla.

Nel vicolo cieco del proporzionale

Il bipolarismo «non si uccide», ci tranquillizzava giorni fa Giovanni Sartori, sul Corriere della Sera: il «bipolarismo è fisiologico in tutte le democrazie "normali" e non dipende, come sostiene la vulgata, dal sistema elettorale. Quasi tutti i Paesi europei sono, contemporaneamente, proporzionalisti e bipolari. Il che dimostra che non occorre un sistema maggioritario per creare e tantomeno per salvare una struttura di voto bipolare».

D'accordo, professore, conosciamo la "storia": il bipolarismo c'è sempre stato, era la conventio ad excludendum nei confronti del Partito comunista filo-sovietico che creava «l'anomalia» solo italiana di un sistema politico senza alternanza al governo. Dunque, siccome il Pci non c'è più e ora anche il maggior partito di sinistra - il Pd - è legittimato a governare il paese, il nostro bipolarismo dovrebbe essere compiuto e produrre anche l'alternanza al governo.

Fin qui ci siamo: bipolarismo e alternanza sono salvi. Ma siamo sicuri però, con il ritorno a un proporzionale puro o con il modello tedesco, di non tornare all'instabilità dei governi della Prima Repubblica? «Non è detto che ci si debba rassegnare», ci rassicura anche Giuliano Ferrara. «Siamo abituati a pensare bipolarismo, maggioritario e alternanza come tre concetti interconnessi, interdipendenti», ma è il venire meno del «bipolarismo imperfetto», con la fine della Guerra Fredda, a rendere compatibili bipolarismo e proporzionale.

La domanda di Ferrara è: senza alleanze, indicazioni del premier e premi di maggioranza, sarà ancora possibile decidere con il voto chi va al governo, «oppure la parola torna solo e soltanto al gioco dei partiti in Parlamento?». Ferrara risponde di «sì», ma aggiungendo «un cautelativo e diffidente forse».

Che i due partiti maggiori siano «entrambi abilitati a governare» è importante e le forti leadership - di Veltroni e Berlusconi - aiutano. A noi sognatori della riforma anglosassone piace sceglierci sia il Parlamento sia il governo. Non solo per gusto, ma perché funziona. Entrambi eletti direttamente dall'elettorato, ciascuno forte di una legittimità che né i partiti, né le corporazioni possono scalfire. Arrivano alla fine naturale del loro mandato e, soprattutto, decidono.

Viceversa, con una legge proporzionale, sia pure con sbarramento, i due partiti maggiori potranno ottenere il 30/35% dei voti ma essere costretti a formare governi di coalizione: abbiamo fatto tutto questo casino sul bipolarismo malato, e l'unica differenza è che gli alleati rissosi si imbarcano dopo, anziché prima? Sai che bella "coesione" che ne uscirebbe? Un vicolo cieco.

A nostro avviso vede giusto Tabacci: con un sistema proporzionale, e sbarramento fissato al 5%, ci sarebbe spazio per 6/7 partiti. I due maggiori, Lega, An, "cosa rossa" e anche "cosa bianca". E non ricatterebbero certo meno di quelli di oggi.

Del progetto "grande centro" aveva parlato giorni fa Claudio Tito, su la Repubblica, definendolo «il partito di Montezemolo», con Casini, Tabacci, Pezzotta e Mastella. Forse anche Mario Monti, anche se ci credo poco. Sembra un'ipotesi non del tutto infondata, se ne continua a parlare. A nostro avviso, per superare uno sbarramento del 5%, non essendo "trainato" dalla propria appartenenza alla CdL berlusconiana, l'Udc avrebbe bisogno di una nuova personalità che lo lanciasse verso il 7-8%. Se "cado" in politica, "cado" al centro, ha detto scherzando Montezemolo.
Un partito che per stessa ammissione di Tabacci deciderebbe solo dopo il voto, di volta in volta, con chi stare, riuscendo in un modo o nell'altro a restare sempre al governo, accumulando poteri e consensi, influenzando - forse anche ricattando - senza assumersi responsabilità, logorando, quindi, i due partiti più grossi, nell'attesa di occupare il vuoto che prima poi Berlusconi lascerà e... addio alternanza.

Oscar Giannino, su Libero, ha definito un'illusione il piano di Tabacci, non ci sarà spazio politico. Ma si fonda unicamente sulla convinzione che in fondo, sotto-sotto, Berlusconi punti alla legge che uscirebbe dal referendum o ad una con premio di maggioranza. Vorrei tanto che fosse così, che Berlusconi e Veltroni puntassero al referendum pur non potendo affermarlo.

Ma non ne sarei così sicuro. Invece, temo purtroppo che Berlusconi punti a elezioni, con qualsiasi legge, ed è comprensibile dal suo punto di vista, ma non nell'interesse del Paese. Ecco perché può esserci lo spazio per il "grande centro" sognato da Tabacci.

Tra pochi giorni sapremo se Berlusconi è davvero disposto al dialogo o ha tentato un diversivo per far dimenticare la mancata "spallata". In ogni caso, ciò che mi pare irreversibile è la decisione di mollare gli alleati - a meno di imprevedibili ripensamenti di costoro - e correre da solo, saltando l'intermediazione dei partiti e di qualsiasi ceto politico per stabilire un contatto diretto con tutto il "popolo" di centrodestra.

Diciamola tutta. La svolta di Berlusconi ha in sé tutte le potenzialità per produrre una reale novità politica. An e Udc in fondo sono i due partiti del centrodestra più legati agli interessi corporativi del pubblico impiego e del mondo delle professioni, quelli che più hanno frenato Berlusconi, quando era al governo, sulle riforme liberali, su tasse, pensioni e spesa pubblica.

E' logico che data la sua vocazione maggioritaria il PdL non potrà essere un grande partito liberale come avrebbe potuto essere Forza Italia. Tuttavia, con il proporzionale sarebbe altrettanto logico, dovendo offrire qualcosa in più dei due partiti vicini (uno post-fascista, dall'identità sempre più definita in senso conservatore, e uno moderato di ex-democristiani), che si connotasse per un approccio riformatore e politiche liberali. E però, nutriamo molti dubbi su Berlusconi: perché dovrebbe fare ora ciò che non ha saputo/voluto fare in 13 anni?

Thursday, November 22, 2007

Blair, il leader di cui l'Ue ha bisogno

Dal suo incontro con il cancelliere tedesco Angela Merkel è uscito un "no" di Prodi all'ipotesi di Tony Blair presidente della Commissione europea. A parte che è desolante che sia stata l'unica notizia del vertice; a parte l'imprudenza di far uscire una posizione così netta che rischia di venire battuta in Europa e marginalizzare il nostro Paese; a parte il fatto che invece vedrei bene Blair alla guida della Commissione europea; detto questo, la cosa più sconcertante della posizione di Prodi è l'argomento che ha utilizzato: Blair sarebbe una personalità troppo di spicco, con la sua figura rischierebbe di "soffocare" la visibilità delle istituzioni europee.

Come ha giustamente osservato Il Foglio, «bisogna avere una considerazione davvero bassa dell'Europa se si pensa che a rappresentarla di fronte alle altre potenze mondiali debba essere una mezza figura».

Viceversa, forse Blair è l'unico tra gli ex e gli attuali primi ministri e capi di stato europei con doti di leadership. Il prestigio di cui gode a livello internazionale, la sua autorevolezza politica, messi al servizio della Commissione europea, potrebbero invece, per la prima volta, far diventare l'Ue un attore di primo piano sulla scena mondiale.

Non so come interpretare la sgradevole uscita di Prodi, se come una meschinità, o se come un ridicolo pretesto per nascondere il vero motivo: Blair è troppo liberale e amico degli americani. In ogni caso, Prodi dimostra ancora una volta la sua stupidità: l'autorevolezza e il prestigio di Blair sono argomenti a favore della sua candidatura.

Niente più Osce in Russia

In questa interessante intervista, a cura di Ada Pagliarulo (Radio Radicale), la portavoce dell'Osce Urdur Gunnarsdottir spiega perché l'organizzazione ha deciso di non inviare osservatori elettorali in occasione delle elezioni legislative in Russia.

Diversamente dalle passate elezioni, questa volta Mosca ha concesso con estremo ritardo i visti d'ingresso e ridotto considerevolmente il numero degli osservatori ammessi. Così all'Osce hanno preferito soprassedere, anche per non rischiare di dover legittimare elezioni su cui non avrebbero più potuto effettuare un monitoraggio approfondito e attendibile. Con un solo mese davanti per organizzarsi, infatti, avrebbero potuto monitorare solo il giorno delle elezioni, non l'intera campagna elettorale, e con il ridotto numero di osservatori non sarebbero riusciti a coprire un paese così vasto.

Tra Osce e Russia si è consumata dunque una rottura che era nell'aria. Da tempo, infatti, la tensione stava salendo, alimentata dalle accuse di parzialità rivolte da Putin all'Osce per il ruolo svolto nei momenti elettorali dei paesi dello spazio post-sovietico.

Rapporti dal fronte

Dell'intervista del generale Petraeus al Wall Street Journal, e del resoconto di un altro generale, Robert Scales, da cui si evincono la nuova strategia adottata e i progressi in Iraq, dova la vita tende lentamente alla normalità, si occupa un completo articolo su Il Foglio di oggi.

«Ora i sunniti in Iraq guardano ad al Qaida per quello che è, un movimento ultraestremista in stile talebano e gli hanno voltato le spalle», dice Petraeus, che però invita alla cautela: «Il progresso si accumula con il tempo. Non c'è un interruttore della luce. La situazione irachena non scatta da cattiva a buona. Passa da cattiva a meno cattiva». Occorre lasciare «accumulare» progressi finché il corso delle cose non divenga irreversibile.

Una «breccia nel muro del pessimismo», definisce le "good news" Thomas Friedman, sul New York Times, editorialista pentito di aver sostenuto la guerra nel 2003.

La cabina di regia c'è

L'avevamo avuto, ieri, il sospetto che l'uscita delle intercettazioni che proverebbero un'unica regia tra i vertici Rai e Mediaset nel filtrare e presentare le notizie, durante gli anni di governo del centrodestra, fosse una polpetta avvelenata confezionata tra Palazzo Chigi e la Repubblica per far saltare il dialogo tra Veltroni e Berlusconi prima che cominciasse.

E a quanto pare, leggendo i giornali e le dichiarazioni di oggi, quel sospetto dev'essere piuttosto fondato, se in poche ore si è insinuato nei pensieri di molti. Da Mario Giordano, che su il Giornale non si mostra affatto sorpreso per «siluro troppo puntuale», fino a Verderami, che raccoglie i ricordi del socialista Piazza, quando era ministro della Funzione Pubblica, non molto tempo fa: «Ogni volta che mi preparavo ad andare in Parlamento, dove all'ordine del giorno della prima Commissione c'era il conflitto d'interessi, un'ora prima mi dicevano "rinviamo". Ora la storia si ripete con la riforma del sistema tv, e ho l'impressione che certe leggi vengano scritte e riposte in un cassetto, per essere tirate fuori al momento opportuno. Perciò quando sento parlare di queste riforme, andreottianamente penso male».

E quale momento più opportuno se non all'avvio di un dialogo che se dovesse davvero approdare a un accordo sulla legge elettorale darebbe la "spallata" decisiva al Governo Prodi, ma che in ogni caso precipita il premier in un tetro cono d'ombra? Prodi sa che colpire Berlusconi sulle sue televisioni è il miglior modo per fargli passare la voglia di "dialogare" e mostrarsi amichevole. Così come sa che scatenare l'antiberlusconismo girotondino provoca non poche difficoltà anche a Veltroni, forse persino solo nell'incontrarlo, Berlusconi.

Alla fine, le mosse degli artefici del sabotaggio si sono rivelate così scoperte da risultare persino maldestre. Due giorni fa l'intervista di Prodi a un giornale tedesco, in cui tornava a denunciare il controllo mediatico da parte di Berlusconi; ieri lo "scoop" di la Repubblica e subito la nota da Palazzo Chigi sull'urgenza della riforma della Rai e dell'intero sistema radiotelevisivo, naturalmente da farsi insieme alla legge elettorale e al pari delle altre riforme istituzionali. Ed ecco che, guarda un po', si ritira fuori la riforma Gentiloni dal cassetto.

Berlusconi reagisce ma non sembra recedere dai suoi propositi di dialogo. Anche Veltroni, costretto a parare il colpo sbrigandosi a denunciare «intrecci e commistioni» che «calpestano la Rai», per allontanare subito da sé ogni sospetto di inciucio col Cav., sembra però non essere intenzionato a recedere: il dialogo si tenta, anche se ancor più complicato di prima.

In attesa che inchieste, istruttorie e commissioni facciano il loro corso, per il momento l'unica cabina di regia di cui è emersa l'evidenza è quella tra Palazzo Chigi, Procura di Milano (che ha fornito verbali di intercettazioni che sarebbero dovute essere distrutte da mesi, a norma di legge) e la Repubblica. E scusate se vi pare poco...

Wednesday, November 21, 2007

Quanta ipocrisia su Rai e Mediaset

La Repubblica alza la palla e Palazzo Chigi schiaccia: «La riforma del sistema radiotelevisivo si dimostra una necessità per fare chiarezza sulle regole». «Non c'è dubbio che la Rai abbia bisogno di una riforma vera e democratica per tutelare la libertà di informazione e le regole aziendali e civili. Non possiamo che auspicare che le inchieste Rai facciano chiarezza su quanto rivelato dai giornali. Quando il Presidente del Consiglio parla di riforme, non si riferisce solo a riforme istituzionali, legge elettorale, regolamenti parlamentari», ma anche a quella della Rai e dell'intero sistema radiotelevisivo.

L'obiettivo? Radicalizzare di nuovo il confronto con Berlusconi per far fallire prima che cominci il dialogo con Veltroni e allungare così la vita (se questa è vita!) al Governo Prodi.

Non sappiamo se nello "scoop" di la Repubblica sulle intercettazioni che dimostrerebbero come i vertici Rai e Mediaset concordassero l'uscita di notizie sfavorevoli a Berlusconi vi sia uno scandalo di proporzioni gigantesche (può ben darsi), ma considerando com'è stata colta subito la palla al balzo, qualche dubbio che si tratti di un'abile ricostruzione giornalistica confezionata per dare un aiutino a Prodi, lo ammettiamo, ci è venuto.

Che poi, la cosa più probabile è che non si tratti di nulla che ciascuno di noi non potesse già immaginare. L'informazione tv fa schifo. Il duopolio c'è. Non c'è concorrenza, fanno tutti parte di una stessa casta. Altro che "scoop": se non verranno fuori elementi nuovi, fatti concreti, siamo all'ovvio: si conoscono, sono amici, si parlano, concordano, si influenzano, cercano di non darsi fastidio, di fare favori al potente di turno. Che sia tutto "combinato" possiamo scommetterci. Non mi si venga a dire che i leader dell'Ulivo non "disturbano" i loro "compagni" dirigenti, o direttori, o nelle redazioni, dei tg della Rai, proprio quando solo una settimana fa abbiamo assistito al caso Facci.

La Rai è preda dei partiti - tutti (e soprattutto di chi sta al governo), da sempre. Va semplicemente chiusa, smembrata e privatizzata, al pari di Mediaset.

Chi cavalca questi scandali o pseudo-scandali, senza avanzare questa soluzione per me non è credibile, usa la situazione - avvilente - come strumento di lotta politica.

Cellule staminali e Legge 40. Stiamo ai fatti

Due notizie, entrambe importanti, riguardano la ricerca scientifica e la nostra salute.

La prima è la pubblicazione, già nell'estate scorsa, sui giornali scientifici Cell e Science, dei risultati di due ricerche, condotte in Giappone dal team dell'Università di Kyoto, guidato da Shinya Yamanaka, e negli Stati Uniti da James Thompson, dell'Università di Madison nello Stato del Wisconsin. Gli articoli documentano la produzione in laboratorio di cellule che si comportano come se fossero staminali embrionali, anche se non sono state estratte da embrioni.

Il metodo, su cui si lavora da tempo, è quello della riprogrammazione di cellule adulte per farle tornare allo stadio pluripotente delle embrionali. E' evidente che una scoperta simile, se confermata, ci permetterebbe di aggirare i problemi etici connessi all'uso delle cellule staminali embrionali, e va quindi salutata con entusiasmo, anche se, bisogna ricordarlo, va misurato il grado di somiglianza di queste cellule riprogrammate con quelle embrionali, vanno cioè valutate ancora le loro potenzialità.

Ma soprattutto, il guaio è che per ora, per inserire nella cellula adulta i quattro geni in grado di riprogrammarla in staminale embrionale, occorre utilizzare un retrovirus, che però aumenta le probabilità, già alte nelle staminali embrionali, che la cellula generi tumori.

Che a scoprire il metodo siano stati laboratori americani e giapponesi è solo un'altra conferma della superiorità scientifica e tecnologica dei due paesi, che con intelligenza si avvalgono di tante intelligenze estere.

Non possiamo non segnalare l'ignoranza, e la malafede, di chi ha cercato di strumentalizzare anche questa notizia sostenendo che dimostrerebbe l'inutilità della ricerca sulle cellule staminali embrionali.

La scoperta di oggi non dimostra affatto che puntare sulle cellule staminali embrionali fosse inutile, semmai esattamente l'opposto. Premesso che abbiamo sempre ritenuto che si dovesse permettere la ricerca sulle cellule staminali embrionali, anche solo per scoprire se si tratta della strada sbagliata (ma la ricerca serve proprio a questo!), è evidente che gli spasmodici tentativi del mondo scientifico di trovare il modo di riprogrammare staminali adulte in cellule il più possibile simili a quelle embrionali è la dimostrazione del fatto che proprio quelle embrionali vengono ritenute quelle con le caratteristiche più promettenti.

Ripetiamolo: magari tra qualche anno scopriremo di esserci illusi, che non servono a niente, ma come è possibile verificarlo - e far progredire la scienza - se la ricerca viene ostacolata?

La seconda notizia è merito di un'inchiesta giornalistica, dai dati eloquenti, a cura di Margherita De Bac e Monica Ricci Sargentini.

Dall'entrata in vigore della legge 40 sulla fecondazione assistita, il successo delle tecniche è diminuito del 3,6% (1.041 nati in meno) e i parti trigemini e prematuri sono aumentati del 2,7%, in controtendenza rispetto al resto del mondo occidentale. Vietando l'analisi preimpianto, le interruzioni parziali di gravidanza sono aumentate del 100%. Di fronte all'aumento dei costi cui corrisponde un calo della riuscita, aumentano i viaggi all'estero. Troppo costosa la Spagna, c'è il boom dei paesi low cost, quelli dell'Est.

Che sia giunta l'ora di modificare la legge 40? D'altra parte, lo scorso 17 ottobre, il ministro Livia Turco ha illustrato alla Commissione Affari sociali della Camera dati ugualmente preoccupanti la cui fonte non sospetta è l'Istituto Superiore di Sanità.

Bruno Leoni, liberale rigettato dalla "cultura" dominante

Quarant'anni fa, a Torino, scompariva Bruno Leoni. Non aveva neanche 55 anni. Lo ricorda oggi, sul Sole 24 Ore, Salvatore Carrubba. E lo ricorda «protagonista del dibattito liberale dei suoi anni, a fianco di studiosi del calibro di Friedrich von Hayek», apprezzato all'estero, visiting professor alle università di Oxford e Yale e presidente della Mont Pelerin Society.

Eppure, «la sorte del suo pensiero rappresenta una delle pagine più tristi della cultura italiana». Il silenzio, l'indifferenza, il totale ostracismo che la sua opera conobbe, esprimono la cifra esatta del «ritardo» e del «provincialismo» che tuttora imperano nella cultura italiana. «Un ritardo di cui scontiamo ancora le conseguenze quando ci chiediamo stupiti perché la cultura liberale sia rimasta sostanzialmente minoritaria nel nostro Paese», osserva Carrubba.

Basti pensare che uno dei libri più importanti di Leoni, Freedom and the Law, pubblicato negli Stati Uniti nel 1961, non fu pubblicato in Italia che più di trent'anni dopo. In quegli anni, dominati da intellettuali marxisti (che spesso furono fascisti), dal dossettismo e da una cultura cattolica oltremodo sospettosa nei confronti del profitto e del capitalismo, un «velo d'oblio» coprì persino Luigi Einaudi.

Il rigetto di un intero filone culturale - appunto, quello liberale di Leoni e von Hayek - non mancò di produrre effetti negativi di cui stiamo ancora pagando il prezzo. «La cultura italiana si tagliò così fuori da filoni di pensiero che sono stati alla base della grande rivoluzione intellettuale che si produsse attorno alla metà degli anni '80» e che dal punto di vista politico - raccolta la lezione dalla Thatcher e da Reagan - portò alla conferma della validità delle idee liberali nel governo dell'economia. L'Italia, ahimé, ha perso quel treno, tra i tanti.

Indagini pericolose

Adesso si può dire. Dopo la scarcerazione di Patrick Lumumba, su richiesta dello stesso pubblico ministero, e guarda caso contestualmente all'arresto di un altro africano, identificato come il famoso "quarto uomo" (o, piuttosto, il primo?), s'insinua prepotentemente in noi il dubbio che tenerlo in carcere per tutti questi giorni, unicamente sulla base della parola di un'altra sospettata (già alla seconda o terza versione dei fatti), senza il minimo indizio, sia stata una scelta viziata da un pregiudizio razziale. Il nero in qualche modo doveva entrarci.

Di Lumumba non esistono tracce di alcun genere che lo collochino sulla scena del crimine. Gli inquirenti cercavano già un altro uomo di colore, la cui impronta era rimasta sul cuscino della povera Meredith, ma Lumumba restava inspiegabilmente in carcere. Non l'esistenza del "quarto uomo", di cui si erano convinti, ma solo la sua cattura ai loro occhi ha scagionato Lumumba.

E' uno degli aspetti che più mi ha impressionato del caso di Perugia, ma non l'unico. Dei casini dell'inchiesta parla oggi Carlo Bonini, su la Repubblica: «È un fatto che in soli quattordici giorni, il caso di Meredith Kircher viene dato rumorosamente per "chiuso" tre volte. È un fatto che per tre volte, si accredita una ricostruzione dei fatti e delle responsabilità degli indagati che si libera di quella che l'ha preceduta con un tratto di penna».

La precisa cronaca che Bonini fa della successione di ipotesi e ricostruzioni ci conferma una sensazione che abbiamo già avvertito nel caso Garlasco. La straordinaria disinvoltura con la quale gli inquirenti accreditano, fanno e disfano, montano e smontano, ricostruzioni dei fatti e responsabilità degli indagati, suggerisce un sospetto inquietante: che, più per incapacità che per malafede, si tenda a far calzare, a far combaciare la scena del crimine ai sospetti che si hanno a disposizione, e non viceversa. Il metodo dovrebbe invece essere ben altro. Data la scena del crimine ricostruita solo quando si siano valutati tutti gli elementi a disposizione, ci si dovrebbe chiedere: il sospetto X è compatibile con essa?

Questo per rimanere sulla conduzione delle indagini, che è la cosa più importante, e per non parlare delle ridicole speculazioni che si sono fatte sulla voglia dei giovani di "emozioni forti" (troppo forti?) e sul turbine di perdizione del quale cadrebbero vittime gli studenti in quel di Perugia. Con tutto il rispetto, Perugia non è Las Vegas.

"La Repubblica" non perde il vizio

Posso anche sbagliarmi, perché non ho sotto mano tutti gli articoli, ma mi pare che la Repubblica si sia accorta prima del Corriere che qualche buona notizia stia giungendo dall'Iraq, grazie alla nuova strategia voluta da Bush, proprio con il contestatissimo aumento di truppe, guidata sul campo dal generale Petraeus. Se ne accorge e per portare ai suoi lettori le buone nuove ricorre alla traduzione di un recente bel reportage del New York Times.

Nulla di male. Peccato, però, che lo pubblica con un pesante omissis, che ci segnala Camillo:
«As a result, for the first time in nearly two years, people are moving with freedom around much of this city. In more than 50 interviews across Baghdad, it became clear that while there were still no-go zones, more Iraqis now drive between Sunni and Shiite areas for work, shopping or school, a few even after dark. In the most stable neighborhoods of Baghdad, some secular women are also dressing as they wish. Wedding bands are playing in public again, and at a handful of once shuttered liquor stores customers now line up outside in a collective rebuke to religious vigilantes from the Shiite Mahdi Army».

Tuesday, November 20, 2007

Pd e PdL. Il grande gioco sulla legge elettorale

A questo punto è chiaro che sia Veltroni, rivendicando per il Pd una «vocazione maggioritaria», sia Berlusconi, sancendo la chiusura della CdL e dando il benservito agli alleati con la nascita del nuovo Partito della libertà, o del Popolo della libertà, mirino a presentarsi alle prossime elezioni "con chi ci sta" o, se necessario, da soli, l'uno senza la sinistra comunista e massimalista, l'altro senza gli alleati infidi e rissosi. Il problema è: con quale legge elettorale?

La rottura con la logica delle «coalizioni di guerra», come le definisce oggi Ostellino, porta i due partiti maggiori a misurare la compatibilità dei propri interessi nel dialogo sulla legge elettorale.

Dialogo difficile, per la comprensibile diffidenza reciproca. «Dobbiamo procedere con grande cautela, non possiamo rompere con alcuni dei nostri alleati che non vogliono questo sistema elettorale per poi scoprire che tutto ciò è servito a Berlusconi solo per riportare a casa Fini... se vediamo che Berlusconi chiede una data certa per le elezioni anticipate, se dice che bisogna andare alle urne subito dopo la riforma, noi lasciamo perdere perché dobbiamo innanzitutto tenere in piedi una maggioranza e un governo». Questi i dubbi attribuiti a Veltroni dal Corriere, mentre è ovvio che Berlusconi voglia assicurarsi che il dialogo non sia strumentale alla sopravvivenza di Prodi e al consolidamento del Pd e delle "armate" veltroniane.

Puntando a presentarsi da soli, Veltroni e Berlusconi scommettono sul fatto che gli elettori sapranno individuare nei due nuovi partiti - Pd e PdL - le forze politiche su cui concentrare i consensi, riducendo così al minimo il potere di veto e di ricatto dei partiti medio-piccoli, che hanno costretto gli ultimi governi all'immobilismo a fronte della necessità di riforme di cui il paese ha urgente bisogno. Ma presentarsi al voto senza alleati, con due leadership forti, indiscutibili presso le rispettive basi elettorali, basterà per produrre questo effetto? E' davvero indifferente, rispetto allo scopo che ci si prefigge, il sistema elettorale con il quale si voterà?

Antonio Polito, oggi su Il Foglio, descrive così le aspettative di semplificazione possibili con il modello tedesco:
«Una Forza Italia che si trasforma in Partito del popolo vale già più voti di una Forza Italia che si ripresenta agli elettori come faticoso compromesso con An, Udc e Lega. Così come un Pd che va da solo davanti agli elettori è più credibile di un Ulivo che dichiara di voler cambiare l'Italia, ma poi aggiunge che dipende da Rifondazione se avrà il permesso di farlo. In un sistema in cui l'unico voto utile è quello che va ai due partiti maggiori, le frange prendono meno voti con qualsiasi sistema elettorale».

Sicuramente il Partito del Popolo e il Partito democratico avrebbero maggiore credibilità ed eserciterebbero una maggiore forza aggregativa presentandosi da soli, con i loro programmi e i loro leader, piuttosto che imprigionati in alleanze che si sono già dimostrate fallimentari.

Il fattore determinante, però, è che gli elettori percepiscano che «l'unico voto utile è quello che va ai due partiti maggiori». Altrimenti, «le frange» non prenderebbero meno voti. Dunque, la nostra domanda è: quale sistema elettorale aiuta gli elettori ad afferrare questa percezione?

I sistemi che favoriscono un assetto sostanzialmente bipartitico sono quelli che inducono gli elettori a sforzarsi di votare, pur turandosi il naso, il partito del proprio schieramento che abbia maggiori possibilità di battere il primo partito dello schieramento opposto. Sono i sistemi uninominali, a turno unico o doppio, il proporzionale adottato in Spagna, ma anche la legge elettorale che uscirebbe dal referendum.

Assegnando infatti il premio di maggioranza al partito, non alla coalizione, di maggioranza relativa, al sfida si ridurrebbe di fatto tra Pd e PdL, e nessun altro partito potrebbe giocare un ruolo determinante per la formazione e la durata del governo.

Tuttavia, bisogna anche essere consapevoli del fatto che dichiarare oggi di volere, o di preferire, la legge elettorale che uscirebbe dal referendum, significherebbe di fatto affossarla. Se davvero quello fosse l'esito preferito, in questi mesi Berlusconi e Veltroni dovrebbero far finta di perseguire altro. Soprattutto Berlusconi: già accusato di populismo, se solo accennasse al referendum, avremmo la certezza che la Corte costituzionale boccerà il quesito. E non è detto che non lo bocci comunque.

Detto questo, temo che Berlusconi sia indifferente al sistema elettorale, basta che si voti. Temo che per lui conti solo la rivincita personale. E una nuova legge elettorale, qualunque essa sia, potrebbe assestare la "spallata" definitiva al Governo Prodi e portare dritti alle urne.

Se le prese di posizione a favore di una legge elettorale proporzionale «pura», seppure con uno sbarramento (che in ogni caso non sarà maggiore del 5%), o del modello tedesco, da parte di Berlusconi e Veltroni, non fossero opere di dissimulazione, allora ci sarebbe di che preoccuparsi.

Il proporzionale, infatti, è il sistema che per eccellenza lascia all'elettore totale libertà di optare per il partito che sente a lui più vicino, che lo induce a pensare che quello che va ai due partiti maggiori non sia affatto «l'unico voto utile».

Probabilmente le dimensioni di partenza del Pd e del PdL, e le loro forti leadership, permetterebbero ai due partiti di aumentare la propria forza elettorale. Ma una volta che ottenessero - nella migliore delle ipotesi - il 35%, sarebbero comunque costretti a formare governi di coalizione, cioè a scegliersi gli alleati di governo non prima, ma dopo le elezioni, sulla base di un programma da rinegoziare con essi. E si ritroverebbero di fronte i soliti soggetti (Lega, An, "Cosa bianca", "Cosa rossa") ancora più affamati di visibilità. Scusate, ma in uno scenario simile, pur semplificato, non riesco a intravedere nient'altro che un ritorno alla Prima Repubblica, alla partitocrazia degli anni '80, alle sue scene di estenuanti consultazioni e a quei governi che a stento stavano in piedi per più di un anno.

E' anche vero che con un proporzionale senza vincoli di alleanze potremmo finalmente verificare la reale forza elettorale di partiti come An e Udc, che anni fa partirono da percentuali inferiori al 5%. In altre parole: erano An e Udc a "trainare" la CdL oltre il 50%; oppure era la CdL, e il saldo legame con Berlusconi, a "trainare" i due partiti?

La sensazione è che le loro cifre elettorali siano "drogate", "gonfiate" dal fare parte di una coalizione di governo più ampia e che non saprebbero mantenerle facendo appello semplicemente alla loro specifica identità. E quindi, che Berlusconi in questi anni abbia salvato dalla marginalità questi partiti e ne abbia coltivato le ambizioni ben oltre le loro capacità e potenzialità politiche, ricevendone in cambio un'azione di logoramento ai fianchi.

Ciò non toglie che con un sistema proporzionale, a un PdL di Berlusconi che anche riuscisse a sfondare quota 35%, servirebbe sempre il misero 8% di Fini per formare un governo di coalizione.

Per il Partito democratico i rischi del proporzionale sarebbero maggiori. Perché alla prima sterzata riformista, e alla seconda a sinistra, rischierebbe di perdere nel primo caso pezzi di elettorato attratti sul lato sinistro, nel secondo pezzi attratti sul lato centrista.

Per tutte queste considerazioni continuo a ritenere che le operazioni Pd e PdL abbiano senso solo nell'ottica di un sistema elettorale uninominale, o per lo meno di un proporzionale capace di produrre effetti maggioritari, come quello che uscirebbe dal referendum.

Monday, November 19, 2007

Qualcosa non mi torna nel rilancio di Berlusconi

O punta al referendum elettorale o non ha senso

C'è qualcosa che non mi torna negli annunci di Berlusconi di questi giorni, ieri a Milano, in mezzo alla folla in delirio di Piazza San Babila, e oggi a Roma, a Piazza di Pietra.

Non mi pare, dalle risposte di Fini e Casini, ma anche per le modalità e i tempi, che questo Partito del popolo o della libertà sia pensato per dare avvio a un processo unitario dei partiti del centrodestra. Non mi pare che sia un tentativo di strutturare diversamente, semplificandola, la CdL, quanto piuttosto di sancirne la chiusura, come ammesso dallo stesso Berlusconi definendo «impossibile» il bipolarismo in Italia. Dunque, sarà il nuovo partito di Berlusconi, più democratico e aperto di Forza Italia, quindi capace di "azzerare", "resettare" Forza Italia, forse andando anche oltre i suoi numeri. Insomma, non un progetto unificante speculare a quello del Partito democratico, ma la risposta personale di Berlusconi al Pd in termini di novità politica e una sfida aperta ai suoi (ormai ex?) alleati.

A meno che, come azzardavamo in un post di questa mattina, seguendo un'ipotesi di Panebianco, Berlusconi non abbia scelto la legge elettorale che uscirebbe dal referendum e stia già preparando il contenitore in cui, prima o poi, gli alleati saranno «costretti a compattarsi dietro di lui». Ma con quella legge la sfida potrebbe anche ridursi davvero a due soli partiti: Pd e PPL.

La conferenza stampa di stasera non ha dipanato, ma ispessito i dubbi.

Se proviamo a ridurre all'osso il discorso di Berlusconi, al netto del suo impatto mediatico e scenografico, rimane un cambio di strategia di fatto in linea con quanto a lungo gli veniva suggerito dagli (ex) alleati: fallita la "spallata" al Governo Prodi, l'apertura al dialogo sulla legge elettorale.

L'unica differenza, che ha colto in contropiede, impreparati, Fini e Casini, è che Berlusconi con l'annuncio del nuovo partito ha voluto scrollarsi di dosso proprio loro, anzi, ha voluto implicitamente sfidarli a contendergli la leadership nel nuovo partito. In ogni caso, ha voluto chiudere la stagione della CdL prima di farsi logorare, preparandosi a gestire in prima persona, da solo, mani libere, la stagione del dialogo con Veltroni.

Com'era prevedibile e anche ragionevole, alla luce delle considerazioni che facevamo qualche giorno fa, Berlusconi ha posto una condizione precisa: l'assicurazione che una volta approvata la legge elettorale si torni subito al voto, già nel 2008.

Veltroni però ha già risposto e negativamente: «Nessuna forma di scambio tra approvazione della legge elettorale e immediato ritorno alle urne». E ha anche tenuto il punto sul fatto che il dialogo non potrà essere circoscritto alla sola legge elettorale, ma dovrà riguardare tutte le riforme istituzionali. Ma con questi numeri al Senato, e l'inconsistenza politica di entrambe le coalizioni, volersi impantanare in una riforma della Costituzione rivela un proposito meramente dilatorio della legislatura. Che l'apertura di Berlusconi possa trasformarsi effettivamente in un dialogo resta difficile.

La situazione, notavamo, appare bloccata da una reciproca e fondata diffidenza: da una parte Berlusconi non può fidarsi - e fa bene - perché teme che il dialogo sia strumentale alla sopravvivenza di Prodi e al consolidamento del Pd e delle "armate" veltroniane; d'altra parte, neanche Veltroni può fidarsi: non è detto, infatti, che sacrificando Prodi per ottenere la disponibilità di Berlusconi, a quel punto il Cav. non determini le condizioni per un fallimento del dialogo per tornare subito alle urne.

Ma la cosa che più non torna è che anche Berlusconi si lamenti dell'ingovernabilità dovuta ai ricatti e ai veti dei piccoli partiti, dell'impossibilità per entrambe le coalizioni di realizzare i loro programmi riformatori, ma anche Berlusconi, a fronte di tutto questo, apra a una legge elettorale che «non può che essere proporzionale... un proporzionale puro ma con sbarramento che eviti un eccessivo frazionamento».

A meno di non interpretare questa apertura come una mossa esclusivamente tattica, non riesco a vedere alcuna logica nella voglia di ritorno al proporzionale da parte dei maggiori partiti dei due schieramenti.

E' vero, permetterebbe sia a Veltroni che a Berlusconi di presentare i loro partiti da soli, senza imbarazzanti o scomodi alleati. Ma a meno di non sperare di ottenere il 51% dei voti, all'indomani delle elezioni si dovrà pure formare un governo. E il proporzionale puro, seppure con uno sbarramento, che non potrà evidentemente superare il 5%, conduce a governi di coalizione, sulla base di un programma al quale non ci si sarebbe vincolati davanti agli elettori, ma frutto di consultazioni post-elettorali. Insomma, esattamente come venti o trent'anni fa, quando i governi non duravano che qualche mese.

E' impossibile in Italia soddisfare il criterio della stabilità dei governi con una legge elettorale proporzionale, che in un sistema parlamentare come il nostro produce governi di coalizione. I sistemi che garantirebbero stabilità ai nostri governi sono il premierato o il presidenzialismo. Con il superamento dello strumento della "fiducia", allora sì, governi e legislature, entrambi legittimati direttamente dall'elettorato, potrebbero giungere alla scadenza naturale dei loro mandati. Non si parlerebbe tutti i giorni di "spallate", ma le opposizioni sarebbero costrette a fare politica.

Nell'impossibilità di approvare riforme costituzionali di questa portata, soprattutto in questa legislatura, gli unici sistemi elettorali in grado di semplificare il quadro, e rendere più stabile ed efficace l'azione dei governi, sono l'uninominale, a turno unico o doppio, o il proporzionale spagnolo, associati però alla modifica degli attuali regolamenti parlamentari, che incoraggiano la frammentazione post-elettorale.

Ebbene, Berlusconi invece apre al proporzionale puro: dopo aver superato il 30% (supponiamo persino che sfiori il 40%), con chi pensa di governare - e per fare cosa? S'illude che non subirebbe ricatti?