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Thursday, May 31, 2007

Sex Crimes and the Vatican. Non perdere di vista la questione

Immagine dal documentario della Bbc Sex Crimes and the VaticanNel mandare in onda il documentario della Bbc "Sex Crimes and the Vatican", accusa il Sir, si fa «sciacallaggio mediatico contro la Chiesa e il Papa». Il mio timore, espresso già in un post di qualche giorno fa, è che purtroppo Santoro non sia in grado di dimostrare quanto infondata sia questa accusa, preparando una trasmissione che presenti con onestà intellettuale i fatti, in modo equilibrato tutte le posizioni, e che sia priva di faziosità nella conduzione e di cadute di stile.

Oggi L'Opinione mi ha dato modo di tornare sull'argomento.

Pare che Massimo Introvigne sia riuscito a smontare pezzo per pezzo il documentario della Bbc, indicando tre falsità.

Può anche darsi che il documentario «confondi diritto della Chiesa e diritto dello Stato». Spiega Introvigne che «la Chiesa ha anche un suo diritto penale, che si occupa tra l'altro delle infrazioni commesse da sacerdoti e delle relative sanzioni, dalla sospensione a divinis alla scomunica. Queste pene non c'entrano con lo Stato, anche se potrà capitare che un sacerdote colpevole di un delitto che cade anche sotto le leggi civili sia giudicato due volte: dalla Chiesa, che lo ridurrà allo stato laicale, e dallo Stato, che lo metterà in prigione».

Fin qui ineccepibile e utile ai fini del nostro discorso. Vediamo quali sarebbero le «tre falsità». Il documentario della Bbc «presenta come segreto un documento del tutto pubblico e palese». Il documento del 1962 è stato spedito da Roma a tutti i vescovi. Per questo si può dire «pubblico»? Il fatto che lo sia oggi significa che qualcuno ne è venuto in possesso e lo ha diffuso, ma non mi risulta che fosse pubblico, disponibile a tutti, fin dal principio. E, in ogni caso, nulla di male che fosse "riservato".

Il principale accusato, il Cardinale Ratzinger, nel 2001 non fece altro che dare «esecuzione pratica alle norme promulgate con la lettera apostolica Sacramentorum sanctitatis tutela, del precedente 30 aprile, che è di Giovanni Paolo II», ma nel documentario ciò non viene specificato. Bene, un'informazione in più. Introvigne ci sta informando che le cose che attribuiamo a Ratzinger sono da attribuire anche a Wojtyla. Registriamo e proseguiamo.

Il documentario «lascia intendere al telespettatore sprovveduto che quando la Chiesa afferma che i processi relativi a certi delicta graviora ("crimini più gravi"), tra cui alcuni di natura sessuale, sono riservati alla giurisdizione della Congregazione per la dottrina della fede, intende con questo dare istruzione ai vescovi di sottrarli alla giurisdizione dello Stato e tenerli nascosti».

Ecco, vieniamo al punto. Non che la Chiesa «intende con questo». L'istruzione a tenerli nascosti all'esterno è esplicita. E' vero che i documenti sotto accusa si occupano del fenomeno degli abusi sessuali, non lo ignorano, dispongono le procedure per un giudizio ecclesiastico, a norma del Diritto canonico, e a chi spetti la competenza, se alla Congregazione per la dottrina della fede, che in questi casi agisce «in qualità di tribunale apostolico», o ad altri tribunali ecclesiastici. «Non si occupano affatto - conclude Introvigne - delle denunzie e dei provvedimenti dei tribunali civili degli Stati».

Certo, se non per il piccolo ma non irrilevante particolare che i documenti, che ciascuno può leggere (il documento del 1962; la lettera di Ratzinger), tra tutte le disposizioni giuridiche che il Sir, Avvenire, e Introvigne ci ricordano, impongono anche la direttiva del «segreto pontificio» a tutti i vescovi. Portare sì a conoscenza di questi casi la Congregazione, ma mantenere l'assoluta segretezza all'esterno, pena la scomunica.

Non si tratta, dunque, di accusare la Chiesa di un generico insabbiamento, giacché, come ci dicono, i documenti citati prevedono le forme giuridiche, sulla base del Diritto canonico, per indagare sui fatti, processare e sanzionare i colpevoli.

Ciascuno si farà poi la sua idea su quanto previsto dall'ordinamento ecclesiastico. Se, cioè, ridurre il reo allo stato laicale, il trasferimento, e una prescrizione che scatta al compimento della maggiore età della vittima, siano misure proporzionate alla gravità del crimine.

Ma il punto non è capire quanto la Chiesa sia severa con i suoi membri responsabili di tali crimini. Si può anche non dubitare che lo fosse e lo sia. Né si tratta di insinuare rozzamente che i preti siano tutti pedofili.

La giustizia americana, oltre al documentario della Bbc, ha ritenuto che quel documento del 1962 e la successiva lettera del Cardinale Ratzinger provassero l'esistenza di una politica della Chiesa volta a sottrarre al controllo della giurisdizione civile rei e reati di sua pertinenza, e per questo ha accusato Ratzinger di favoreggiamento, accusa poi caduta, quando il cardinale è divenuto Papa, per subentrata immunità riconosciutagli in quanto capo di uno Stato estero. Tuttavia, rimane il fatto che molte diocesi sono state condannate a pagare risarcimenti milionari, che in alcuni casi ne hanno determinato la chiusura. Non per una sorta di responsabilità oggettiva, ma perché in sede processuale è stato provato che sapevano, nascondevano e permettevano che i crimini continuassero.

La domanda è: è legale o no, è giusto o no, che la Chiesa tenga nascosti alla giustizia civile i casi di abusi sessuali di cui suoi membri si rendono responsabili e di cui le singole Diocesi o la Congregazione vengono a conoscenza? La vera questione riguarda quindi il conflitto tra giurisdizione dello Stato e giurisdizione della Chiesa. La Santa Sede tenta di sottrarre i suoi membri alla prima, non c'importa come e quanto funzioni la seconda.

Un Draghi volenteroso

«Il Paese ha trasformato il proprio sistema bancario, ha iniziato a rimettere in ordine la finanza pubblica». Insomma, «ha ripreso a crescere», ma attenzione a non adagiarsi sugli allori: «Abbiamo smesso di accumulare debito, non abbiamo iniziato a ridurlo». Queste le note positive nella relazione annuale del Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi (qui il testo integrale).

Ora, però, bisogna attaccare «le debolezze strutturali dell'economia». Come? Quattro passi indispensabili:

Ridurre «stabilmente la spesa corrente», con «interventi decisivi sulle dimensioni e sulla composizione del bilancio. A noi la scelta se abbattere il peso del debito nei prossimi 10 anni, prima dell'accentuarsi dell'invecchiamento della popolazione, o aspettare: accettando però profondi cambiamenti nel sostegno che la società sarà in grado di assicurare ai più deboli».

«Innalzamento dell'età pensionabile», anche per «mantenere un livello adeguato nei trattamenti».

Ridurre le tasse: una pressione fiscale «più alta della media Ue e prossima ai massimi degli ultimi decenni» scoraggia «l'investimento in capitale fisico e umano e rendono più onerosa l'osservanza delle norme». E quindi, sempre gli stessi, pagano sempre di più.

Liberalizzazioni dei mercati e dei servizi, «essenziali per recuperare competitività e crescita». Si è cominciato a farlo, ma finora in modo troppo «esitante» nel settore energetico e dei servizi pubblici locali. [Intanto, segnalo quattro gatti in piazza della Repubblica, a Roma, alla manifestazione dei tassisti contro le liberalizzazioni di Bersani. Visti con i miei occhi].

Nel settore dell'impiego pubblico «premiare la produttività», sia a livello individuale, anche con «stipendi differenziati», che sulla base della qualità dei servizi offerti dalle singole strutture, che deve diventare criterio «cardine per la valutazione delle amministrazioni pubbliche e dell'azione dei suoi dirigenti».

Il Governatore ha poi posto l'istruzione «al primo posto fra i campi dove il cambiamento forte è necessario», confermando «la bassa collocazione del nostro sistema scolastico nelle graduatorie internazionali», a cospetto di risorse che «non mancano», anzi, «per studente sono più elevate in Italia che nella media dei Paesi europei».

Infine, sul sistema bancario, Draghi ha illustrato il nuovo approccio della Banca d'Italia: dopo il prolungato «interventismo» del passato, ha detto, «il ruolo che vi abbiamo svolto è stato neutrale, non distaccato. Abbiamo indicato l'obiettivo, non il protagonista del percorso: puntare alla crescita, abbandonando i campanilismi del passato, accettando la sfida del mercato. Da questo è nata la trasformazione, non dai programmi delle autorità». Per Draghi, «un sistema finanziario moderno non tollera commistioni tra politica e banche». La separazione deve essere «netta: entrambe ne verranno rafforzate».

La sinistra del parassitismo punita dai produttori

Prodi e BertinottiUna lezione anche per il centrodestra

«Noto che per la prima volta le sinistre vengono sostanzialmente sradicate dal nord, dove sono ridotte a fenomeno marginale. Siamo di fronte a un passaggio drammatico e storico per la sinistra in Italia».
Così Fausto Bertinotti, ieri a la Repubblica.

Come osserva Andra Mancia, Bertinotti dimostra ancora una volta di essere «abbastanza intelligente da intuire l'emergere di un fenomeno, ma troppo comunista per comprenderne le cause e analizzarne sensatamente la dinamica».

Il problema - un'altra conferma dell'analisi produttori e outsider vs. burocrati e protetti - è che la sinistra non solo è incapace di rappresentare il mondo dell'impresa, manifestando ancora insofferenza, se non avversione, per il libero mercato, il profitto, e il rischio d'impresa, ma non è neanche più in grado di parlare ai lavoratori dipendenti, che mostrano di cominciare a capire che i costi dello statalismo e del deficit di meritocrazia deprimono lo sviluppo e danneggiano le loro stesse possibilità di migliorare il proprio status socio-economico.

Chi lavora, e sta sul mercato, da imprenditore, più o meno benestante, da dipendente, e persino da operaio, nella piccola e media impresa, e chi nel mondo del lavoro cerca di entrarci scontrandosi con le mille barriere corporative, il familismo e il clientelismo - i cosiddetti outsider - vede nella sinistra al governo il peggiore dei mali per i suoi interessi e le sue chance, perché rappresenta ormai solo le grandi burocrazie parassitarie, le corporazioni, gli assistiti, le clientele della politica. In altre parole, oggi la sinistra è conservazione di rendite e privilegi.

I produttori (imprenditori, lavoratori autonomi e dipendenti) non privilegiati, che ho chiamato "Terzo Stato", sono disposti quindi a votare un centrodestra che a sua volta, raccogliendo consensi anche in una parte del mondo delle professioni, anch'esso protetto e chiuso al mercato, e persino dagli statali, si dimostra incapace, quando chiamato, a rispondere coerentemente ed efficacemente alle loro istanze. Se poi anche i grandi industriali ai vertici di Confindustria decideranno di rinunciare alle protezioni, agli oboli e ai rapporti con la politica, e di allearsi con i produttori, allora avremo la svolta che molti hanno voluto vedere nelle recenti prese di posizione di Montezemolo.

Chi riuscirà, quindi, a intercettare, mobilitare, rappresentare e soddisfare politicamente questo "Terzo Stato" sempre più consapevole di dover agire contro le caste?

Perinde ac cadaver

«Io sto con Pannella, perinde ac cadaver. Perché Capezzone è troppo laicista per i miei gusti. Perché tra cinque anni vorrebbe mandarmi in pensione e prendere il mio posto. Perché Pannella mi è maestro nell'amministrazione di un culto. Perché è Marco».

Così Giuliano Ferrara, nella rubrica delle lettere del Foglio di oggi, rispondendo a Teodori.

Credo che Malvino abbia ben interpretato la presa di posizione di Ferrara: «... sta con Pannella. Contro Capezzone. Ma ci sta in modo da potere andare in culo a entrambi. Sta bene, così imparano».

Stare con qualcuno, perinde ac cadaver, non è che sia di quelle adesioni entusiastiche, convinte, di cui sentirsi gratificati. Una postura cadaverica a voler significare obbedienza totale al Papa laicista così come la si deve a quello cattolico. Non ne esce bene Pannella, che in quanto Papa è meno laicista di Capezzone.

Wednesday, May 30, 2007

Governo con il morto

Dal film Weekend at Bernie'sStoria di un cadavere che scotta

Ricordate quel film, "Week end con il morto"? Era spiritoso. Mi è venuto in mente guardando un film molto meno divertente. Ancor di più dopo la batosta di queste elezioni amministrative si ripropone per i Ds e per la Margherita il problema di come liberarsi del cadavere politico di Romano Prodi. E ho come l'impressione che siano costretti ancora per un po' a fingere che sia politicamente vivo. Un po' più a lungo che per un week end.

Rutelli pensa di cominciare a risolvere il problema designando subito un leader per il nascituro Partito democratico. Prodi, ovviamente, non è d'accordo, si barrica e avverte di non accelerare, perché un leader diverso dal premier in carica alla guida del Pd sarebbe come sfiduciarlo di fatto: «Il problema della leadership verrà dopo. Chi vuole accelerare rischia di mettere in difficoltà l'attuale leader e il governo».

I Ds sembrano orientati a far accettare al professore una sorta di commissariamento, ma non sarà facile, perché quello è capace anche di buttare tutto all'aria dimettendosi, mentre il Pd è ancora tutto da fare. Insomma, l'imbarazzo è totale. I principali azionisti della maggioranza non sanno come sbarazzarsi dell'unico personaggio che finora, più nel male che nel bene, ha saputo svolgere la funzione di sintesi tra i post-Pci e i post-Dc, portandoli per ben due volte al governo ma dimostrando di essere un autentico incapace.

Una soluzione potrebbe essere quella di far lavorare il Senato, dove si potrebbe fare in modo che sembri un incidente. Ma il centrodestra è in agguato e una nuova caduta del Governo Prodi potrebbe portare non a un governo istituzionale, a un semplice cambio di cavallo o a un rimpasto, ma direttamente a nuove elezioni, cogliendoli impreparati. Si prefigura, nei prossimi mesi, una vera e propria corsa a non rimanere sotto le macerie del "prodismo". Chi si salverà?

Il guaio di quello che doveva essere il "motore riformista" (Ds e Margherita) della coalizione, ma che si è ingolfato in partenza, e ora anche del Partito democratico, nonostante occupi tutte le posizioni chiave del governo, è stato ben individuato da un editoriale su Il Foglio di oggi: «... senza una guida riconoscibile che ne valorizzi le autonome posizioni, finisce col subire tutti i danni delle mediazioni indispensabili in una coalizione tanto variegata, senza ottenere alcun vantaggio dall'esercizio di tutte le principali cariche pubbliche».

Non hanno un convinto approccio riformatore, né una visione chiara della società, né coraggio e statura da leader, quindi passano il tempo a sopravvivere al potere e a preservare l'unità del centrosinistra, costi quel che costi, non accorgendosi che la sfida di un Partito democratico dovrebbe essere quella di proporsi come forza di governo capace di fare a meno della sinistra conservatrice e neocomunista.

La CdL vince, ma non convince

Dovranno faticare per cancellare il ricordo amaro delle occasioni sprecate nei loro 5 anni di governo

Invece di incalzare e sfidare il governo sulle liberalizzazioni, perché proceda a quelle pesanti (telecomunicazioni, reti, energia, enti locali, lavoro), il centrodestra si schiera dalla parte delle corporazioni contro le lenzuolate Bersani.

Avviene di nuovo in questi giorni, alla Camera, dove ieri, tra l'altro, è stato approvato (247 sì, 201 no e 5 astenuti) un emendamento al ddl Bersani, presentato dal deputato radicale Sergio D'Elia, che consente nei supermercati e nelle parafarmacie di vendere, oltre ai farmaci da banco, anche i farmaci con obbligo di ricetta della cosiddetta "fascia C".

Dopo la legge per aprire un'impresa in sette giorni, di Capezzone, forse il contributo di maggior rilievo della presenza parlamentare dei radicali.

Non solo si afferma un principio di libero mercato e di tutela del consumatore, ma «si restituisce anche un po' di dignità agli oltre 50mila laureati ed abilitati alla professione di farmacista e ai quali finora veniva impedito di aprire un proprio esercizio e dispensare farmaci che non fossero solo da banco».

Con l'eccezione di pochissimi deputati - Mauro Del Bue, Benedetto Della Vedova, Antonio Martino e Francesco Nucara - le forze del centrodestra che si definiscono "liberali" e "liberiste" si sono opposte anche a questo emendamento. Se anche ritenessero di dover respingere, nel suo complesso, il ddl Bersani, cosa impediva, intanto, di contribuire a migliorarlo?

Gli elettori del Nord hanno premiato Forza Italia e Lega Nord, ma di questo passo la CdL non promette un'offerta politica esaltante dal punto di vista delle riforme liberali.

Dopo i festeggiamenti per il successo alle amministrative, sarebbe ora che non si limitassero a dare spallate, ma che lavorassero a una proposta di governo che risponda alle esigenze espresse dagli elettori, per convincerli che non sarebbe un'altra occasione sprecata. La vedo dura, perché tra il colbertismo di Tremonti e lo statalismo di An, tra Casini e la Lega, la confusione sembra regnare sovrana e sbaglierebbero a dormire sugli allori di un voto di protesta condizionato.

L'avviso di sfratto da "casa Pannella"

Pannella e Capezzone (foto: dumplife su flickr.com)Se Anchise comincia a pesare...

Alcune cose sconcertano davvero della lettera di Pannella «a e su» Capezzone. Innanzitutto, l'invito esplicito a formalizzare la scissione, ma una scissione "alla radicale", cioè a fondare un nuovo soggetto, "suo", associazione o movimento. Lì sì, nel suo orticello, ammesso all'interno del sistema solare, dell'oligarchia radicale, potrebbe divertirsi come vuole senza fare concorrenza alla linea del sole, Pannella, o, piuttosto, alla non-linea di questi ultimi tempi. Occorre che la politica di Capezzone, pur essendo radicale (anzi, proprio per questo) non sia percepita come la politica dei radicali, ma, appunto, solo "sua", e del suo giocattolo.

Ma Capezzone aspira a qualcosa di più che a un posto nell'azienda di papà. Privato della segreteria, contende a Pannella quella leadership "di fatto", senza cariche di partito, che esercita da sempre il leader radicale. E' il primo che si sta dimostrando in grado di farlo. E ammesso che non sia stata la cellula di Torre Argentina a espellere, prima di tutto umanamente, il "corpo estraneo" Capezzone, ma sia stato egli stesso a escluderla dalle sue iniziative, Pannella dovrebbe prestare maggiore attenzione a non confondere Torre Argentina con la totalità delle compagne e dei compagni. Esclusa la prima, non è detto che siano esclusi tutti i radicali.

Non solo, come un Di Pietro qualsiasi, il leader radicale (o chi per lui) si riduce a contare le presenze in aula del presidente della Commissione Attività produttive, col rischio che qualcuno gli faccia notare che certe assenze sono più produttive delle interrogazioni di alcuni deputati radicali interessati a sapere come mai i cani di grossa taglia non possono entrare nei treni Eurostar. Sconcerta anche che Pannella rinfacci continuamente a Capezzone di essere stato "nominato" deputato, e "nominato" presidente di commissione, per grazia ricevuta dal suo partito, dalla Rosa nel Pugno, e dall'Unione.

I presidenti delle commissioni parlamentari sono eletti dai membri delle commissioni stesse, senza neanche la formalizzazione di candidature. Tutti sappiamo che dietro c'è un accordo politico di maggioranza, e a volte tra maggioranza e opposizione, su un nome. Rimanendo però sottinteso che si tratta di cariche istituzionali non sottoposte a disciplina di partito. Proprio Pannella pretende di far valere nel caso di Capezzone, chiedendogli di mostrare riconoscenza e ossequio eterni (merci che con la politica c'entrano poco), quel sostanzialismo partitocratico, contrario al formalismo delle regole, che ha denunciato per una vita? Proprio lui pretende di esercitare un potere "di fatto" che gli deriverebbe da una prassi partitocratica? Mi risulta che nessuno degli altri partiti abbia mai richiamato al rispetto della linea un presidente della Camera, o di commissione, rinfacciandogli la sua "nomina" di origine partitica. Sarebbe stato un fatto grave e Pannella il primo a insorgere.

Bisogna ricordare a Pannella che la Costituzione espressamente esclude il vincolo di mandato, proprio per ridurre il "potere" dei partiti sui rappresentanti, perché si ammette l'ipotesi teorica che non il dissenziente, ma il partito abbia violato il mandato elettorale e che gli elettori ne siano i giudici ultimi? Proprio Pannella rivendica il potere di nomina che questa legge elettorale "porcellum", grazie all'assenza delle preferenze e alla possibilità delle candidature multiple, attribuisce ai vertici dei partiti sui candidati e sugli eletti?

Il reale stato d'animo verso Capezzone, oggi abilmente dissimulato in una lettera dai toni concilianti e confidenziali, viene invece alla luce in una delle ultime direzioni, quando Pannella spiega che Capezzone è quel radicale che il regime ha scelto per liquidare definitivamente i radicali. Un clima paranoico, da bunker, in cui ogni critica, o condotta concorrente, è vissuta come tradimento e minaccia di distruzione anziché come risorsa e sfida.

La consapevolezza di vivere situazioni estreme, da decenni sotto il costante pericolo della sparizione politica e mediatica, e del genocidio culturale ad opera dell'oligarchia, ha sviluppato all'interno di un gruppo ristretto che si riconosce in un leader carismatico un senso paranoico del complotto e particolari vincoli di solidarietà, di «con-passione», forme di comunitarismo, di comunione, e di estraniamento, tipici della setta, della confraternita, o della cellula. La famiglia, il clan radicale, più che la galassia. Il sentirsi dei radicali come un'etnia è però da considerare come la vittoria del regime sui radicali stessi.

La colpa di Capezzone, in fondo, è di rappresentare un elemento di discontinuità con la natura mistica e religiosa del corpo radicale. Non per chissà quali posizioni iper-laiciste e anticlericali, ma perché quel corpo mistico, che crede nella sua diversità e superiorità antropologica, ha dovuto cedere spazio al protagonismo e all'attivismo intellettuale e politico, dall'approccio estremamente individualistico, del nuovo, e poi ex, segretario. Quel corpo ha continuato a considerare Capezzone un intruso, altro da sé, nonostante le ragioni politiche che andava esprimendo dimostrassero il contrario. Ma, appunto, lo dimostravano su un piano politico e razionale, non a livello di "affinità elettive".

L'adesione di Capezzone alle ragioni politiche dei radicali nasce da anni di ascolto di Radio Radicale non certo privo di passione, e passioni personali. Si tratta però di una condivisione su base razionale - non sentimentale o "etnica" - degli obiettivi politici. In una parola: laica.

L'estraneità a quel corpo mistico e antropologico ha permesso a Capezzone di infrangere la barriera dell'"estraniamento" radicale, di ristabilire un prezioso punto di contatto tra i radicali (tutti) e il mondo mediatico di oggi e, insomma, di far uscire la comunicazione radicale dagli anni '70, senza sacrificare i contenuti e le analisi di fondo della realtà italiana proprie dei radicali.

Non passa giorno senza che Capezzone accusi il governo di questa o quella nefandezza, e chi rimane in silenzio di esserne complice. "Anche noi - è il discorso che Pannella sembra rivolgere a Capezzone - pensiamo tutto il male possibile di questo governo, ma per senso di responsabilità nei confronti delle nostre scelte evitiamo di dirlo e siamo impegnati in altro piuttosto che nel ricordarlo tutti i giorni". Dunque, la divergenza è sull'opportunità di criticare il governo.

Rimane inevaso, nella lettera di Pannella, il nodo politico dello scontro con Capezzone, che riguarda il ruolo politico dei radicali nella maggioranza e al governo ed è profondamente avvertito tra i radicali. Non se uscirvi o meno, ma innanzitutto il *come* starci. Se subalterni, puntellando l'"alternanza" prodiana, o se cercando spazi per l'"alternativa" che era stata indicata come obiettivo in campagna elettorale, e rispetto alla quale Prodi ormai è di ostacolo, nient'affatto «buono a niente».

La formula dei «buoni a niente», con la quale in modo calzante si etichetta la compagine di governo, per spiegare che quando si è accettato di appoggiare Prodi si sapeva che si avrebbe avuto a che fare con dei «buoni a niente», e quindi che oggi «non si è delusi perché non ci si era illusi», è divenuta un alibi dietro il quale rassegnarsi alla propria irrilevanza. Ed è una formula inevitabilmente scaduta, perché scattava una fotografia che poteva essere fedele negli ultimi mesi di governo berlusconiano, ma non oggi che le parti sembrano piuttosto invertite e il «capace di tutto» Prodi. La Finanziaria "tassa e spendi"; una politica estera tra realismo e cinismo; l'affossamento dei Pacs; i giochi di potere del premier con le banche "amiche", da Telecom al nuovo, inquietante, Fondo per le Infrastrutture; e - ricordiamolo - la più grave violazione della legalità degli ultimi anni, la vicenda non ancora risolta degli otto senatori, che ha colpito il più delicato momento di una democrazia: la trasformazione dei voti in seggi.

Per il leader radicale, il Governo Prodi «deve comunque essere aiutato a durare». Il disagio da parte di Pannella è comprensibile. Ciò che Capezzone fa e dice è pienamente inscrivibile nella storia radicale, per contenuti e per metodo, questo gli viene persino riconosciuto, ma oggi nei rapporti con Prodi e la maggioranza è stata scelta una diversa condotta, si è scelto di privilegiare alcuni temi. Tuttavia, non si può pretendere che altri non calchino una linea politica che per il momento si è deciso di non calcare, oppure che formalizzino una scissione. Da una parte, l'approccio è da "spina nel fianco", dall'altra da "ultimo giapponese", ricordando che l'ultimo giapponese, Shoichi Yokoi, ha atteso 27 anni prima di uscire dalla giungla.

Essere gli «ultimi giapponesi» di Prodi aveva senso finché si trattava di conquistare l'"alternanza" a Berlusconi. Se davvero l'obiettivo è riformare la sinistra in senso liberale; se nessuna sinistra liberale e democratica in Europa governa insieme ai neocomunisti; e se per sua definizione il prodismo non è che il tentativo di coniugare riformisti e massimalisti nell'esperienza di governo; se è vero tutto questo, la riforma della sinistra in senso liberale, l'"alternativa", passa per il fallimento dell'"utopia prodiana" e la resa dei conti con i neocomunisti, che i radicali dovrebbero accelerare e non ritardare. Quello «scontro» tra sinistra liberale e neocomunista che lo stesso Pannella negli ultimi mesi del 2005 ripeteva essere «necessario e salutare», ma che una volta nelle istituzioni i radicali non sono riusciti a innescare.

Avuta la certezza che Berlusconi fosse battuto, e l'"alternanza" ottenuta, avrebbero dovuto dimenticarsela come priorità, concentrandosi sull'"alternativa", l'obiettivo proclamato in campagna elettorale. Non spetta ai radicali la conservazione dell'"alternanza" prodiana, soprattutto perché, come prevedibile, dal rappresentare una condizione per l'"alternativa" oggi l'"alternanza" è divenuta di ostacolo.

La laicità pare assunta come unico, fragile, filo che tiene legati i radicali a una Unione che, con malcelato fastidio, null'altro concede loro se non di rinchiudersi nel recinto dei laicisti. Così, nella difficoltà strategica in cui si trovano in questa compagine governativa, la laicità diviene l'unico carattere identitario dal quale riscuotere una dose minima di accettabilità da parte dei vicini.

Si trovano ingabbiati nella lealtà a Prodi - ormai, ancor di più dopo queste elezioni amministrative, persino più zelante di quella dei Ds e della Margherita - e in una Rosa nel Pugno che esiste solo alla Camera, nelle mani del capogruppo Villetti, ridotta esattamente a ciò che dall'inizio lo Sdi voleva che fosse e che in tutti i modi Pannella voleva scongiurare che divenisse. Eppure, i radicali sembrano vittime di una strana Sindrome di Stoccolma, che li porta a rincorrere i socialisti, sostenendoli alle amministrative e mendicando qualche mobilitazione. Quegli stessi socialisti che hanno accettato di giocare il ruolo degli aguzzini dei radicali, dopo averli rinchiusi nel ghetto dei diritti civili per meglio, di fatto, neutralizzarli.

Vengono alla mente le parole di Biagio de Giovanni, rimaste senza risposta, che rimproverava ai radicali di sentirsi «sale della terra, mai terra» e di essere incapaci di una «proposta generale». Quando i radicali furono capaci di una «proposta generale» riuscirono a raccogliere nel '93 oltre 40 mila iscrizioni e nel '99 l'8,5% dei voti. E' in questa incapacità che confida il "regime" nel tenere sotto controllo l'intemperanza radicale: rinchiusi, ma felici, nel ghetto dei diritti civili, mentre Prodi e Padoa Schioppa continuano indisturbati a riempire il sacco, a perpetuare quel binomio tasse-spesa pubblica che è la principale fonte di sostentamento del regime oligarchico.

In questo governo pieno di statalisti e dirigisti, di repressione fiscale e burocratica, di manovre punitive nei confronti dei ceti produttivi, di aumento della spesa pubblica, quindi degli sprechi e dei privilegi della "casta" politica e delle sue clientele, per i radicali l'occasione è d'oro per porsi come interlocutori di quel mondo produttivo già deluso, che non trova rappresentanza neanche nei vertici di Confindustria (vedremo se Montezemolo imprimerà una svolta), e degli "outsider", gli esclusi da un assetto burocratico-corporativo in cui sono sempre i soliti privilegiati e parassiti a dividersi il bottino della spesa pubblica. La crisi della "casta" politica, la decomposizione della mai nata Seconda Repubblica, che a molti ricorda il '92, anche l'incombente appuntamento referendario, creano le condizioni per rivolgere un nuovo appello a un "Terzo Stato" dei produttori (i non protetti e i non privilegiati, nell'impresa come nel lavoro) contro le grandi burocrazie parassitarie, le corporazioni, gli assistiti, le clientele della partitocrazia.

E' condivisibile lo scrupolo dei radicali di non voler apparire "inaffidabili" come i Mastella, i Di Pietro e i Diliberto, ma tra l'inaffidabilità e i trasformismi da una parte, e il rimanere intrappolati tra Villetti e le macerie del "prodismo" dall'altra, non si poteva trovare una via di mezzo, un diverso equilibrio? Non era anche questa la sfida dei radicali nelle istituzioni?

Stupisce invece la totale assenza di consapevolezza che Prodi, oggi, rappresenta un fattore di blocco, di congelamento dello status quo della politica italiana e dello stesso Berlusconi. Tutti, anche (se non per primi) Ds e Margherita, stanno già giocando la loro partita per il dopo-Prodi, tranne i radicali, gli unici che sembrano non aver ancora capito che quella partita è iniziata. Ed è un bene, consapevoli che i nuovi scenari, probabili, possibili, o inverosimili, presentano molti rischi e strettissime opportunità, ma che proprio per questo bisognerebbe fare lo sforzo di giocare le proprie carte con spregiudicatezza.

Tuesday, May 29, 2007

Spese annunciate...

Due notizie che ci aspettavamo. Mentre il Nord le suona al governo delle tasse, della spesa e delle burocrazie, nella notte - approfittando dell'attenzione mediatica spostata sui risultati elettorali - viene trovato l'accordo sul contratto degli statali, identico a quello annunciato da Nicolais giorni fa, e poi frettolosamente smentito da Prodi. Il Governo sborserà i 101 euro al mese, compresi gli arretrati per il 2007, chiesti dai Sindacati, che in cambio hanno accettato l'introduzione in via sperimentale della durata triennale dei contratti a partire dal periodo 2008-2010. O meglio, «le parti si impegnano a concludere entro il 31 dicembre 2007 un accordo inteso a prevedere...» eccetera eccetera. Non suonano bene le parole di Epifani, che sulla sperimentazione della triennalità del contratto ha spiegato che al momento si tratta di una «unicità» [?].

Il Governo stacca gli assegni, ma a pagare siamo noi.

... Procedure poco limpide

... Nel frattempo, apprendiamo che Tpg e Mediobanca si ritirano dall'asta per Alitalia. La cordata, tra le più titolate, formata dai fondi americani Texas Pacific Group e Matlin Patterson (specializzato tra l'altro nel salvataggio di vettori), fa sapere in una nota ufficiale che, «esaminata la procedura che regola la fase delle offerte vincolanti della vendita di Alitalia, ritiene di non essere nelle condizioni di ottemperare puntualmente a quanto da essa prescritto. Pertanto, il consorzio, pur apprezzando l'ammissione alla fase finale della gara da parte del Ministero dell'Economia, si trova, al momento, nell'impossibilità di procedere oltre».

Le «procedure» scelte dal governo per la gara devono aver allarmato gli investitori. Non tutti, quelli americani. Cercheremo di vederci chiaro. Da poco si era anche aperta la fase di acccesso ad ulteriori informazioni e documentazioni relative alla società, come i bilanci. E chissà che gli scioperi selvaggi di questi giorni non abbiano dato una spintarella.

Restano in gara, guarda un po', i protagonisti del bipolarismo bancario italiano: la compagnia russa Aeroflot appoggiata da Unicredit e la AirOne sostenuta da Intesa Sanpaolo.

Voleva "unire" il Paese... oggi è sempre più spaccato

Romano Prodi durante il duello tv contro BerlusconiL'esito di queste elezioni amministrative è sotto gli occhi di tutti: la CdL ha stravinto al Nord. Là dove il centrosinistra tiene, a Genova, tiene di stretta misura. Là dove vince il centrodestra, dilaga con punte del 60-70%. Più articolato il risultato a Sud. Mentre al Nord è innegabile il valore politico del voto, di radicata e diffusa sfiducia nei confronti del governo, al Centro-Sud l'operato del governo è rimasto sullo sfondo, il voto è stato maggiormente caratterizzato dai profili dei candidati e influenzato dalle dinamiche locali, come ci si aspetta che avvenga in elezioni amministrative.

Non ci vuole certo una laurea per trarne alcune riflessioni. La parte più dinamica, moderna, innovativa del paese, dove viene prodotta la gran parte della ricchezza nazionale, boccia la politica economica del Governo Prodi, fatta di repressione fiscale e burocratica, di manovre punitive nei confronti dei ceti produttivi, di aumento della spesa pubblica, quindi degli sprechi e dei privilegi della "casta" politica e delle sue clientele.

La reazione del Nord segna un punto a favore dell'analisi produttori vs. burocrazie e corporazioni. Il paese è sempre più diviso in due diverse realtà socio-economiche. Al Nord sono concentrati in gran parte i produttori - imprenditori e lavoratori - non privilegiati, che mal sopportano il peso ingombrante dello Stato, l'arroganza e le angherie della partitocrazia. Al Centro-Sud, le grandi burocrazie parassitarie, le corporazioni, gli assistiti, le clientele della politica. Come ogni lettura soffre del difetto della generalizzazione, ma la tendenza sembra piuttosto evidente e a intercettare i loro umori gli elettori trovano Forza Italia e Lega Nord, che quanto a risposte liberali lasciano a desiderare. Ma è questo, al momento, che passa il convento.

Terzo Stato su "Europa"

Un grazie dell'ospitalità a Europa, che oggi ha pubblicato con richiamo in prima pagina il mio intervento su Montezemolo e Confindustria, «nuova borghesia» e «Terzo Stato», che su questo blog avete già letto in una precedente e più ampia versione.

«La questione non è se Montezemolo si impegnerà o meno direttamente in politica. Importa sapere se finalmente gli industriali decideranno di volere il libero mercato e le regole e di rinunciare all'obolo di Stato».

Monday, May 28, 2007

Il deficit di leadership si cura con la riforma anglosassone

«La politica funziona benissimo, là dove dispone di leadership capaci di mettersi in gioco per raccogliere consenso intorno alle proprie idee. Più dei costi e dei privilegi, più della scarsità di giovani e di volti nuovi, la nostra malattia si chiama difetto di leadership. Ovvero l'assenza di quella qualità che trasforma un'élite politica in una classe dirigente, quando sa assumersi la responsabilità di rischiare la faccia per svolgere bene e fino in fondo il lavoro che ha scelto».

Pienamente condivisibile questa lettura di Andrea Romano, oggi su La Stampa, che ci consente, a partire dal problema, di provare a individuare una soluzione. Che a mio avviso non può che passare per una riforma istituzionale capace di mettere finalmente l'individuo - elettore o eletto - al centro del sistema politico, al posto dei partiti. Una riforma di tipo anglosassone, che preveda un sistema elettorale uninominale e il presidenzialismo o il premierato come sistema di governo. L'importante è che il capo dell'Esecutivo riceva la legittimazione a governare direttamente dai cittadini e non dai partiti attraverso lo strumento della fiducia parlamentare.

Ciò che possiamo toccare con mano oggi è che le democrazie di tipo anglosassone, o quelle semipresidenzialiste, come la Repubblica francese, non solo dispongono di leadership forti - che nel bene o nel male si assumomo la responsabilità delle proprie scelte e su quelle vengono premiate, o bocciate, e decidono, quindi governano - ma riescono a coniugare governabilità e ruolo forte dei Parlamenti nazionali.

Nei sistemi in cui i governi non dipendono (non devono la propria legittimità) da maggioranze che gli concedono la fiducia, cioè da un patto politico tra partiti che nasce in Parlamento e, quindi, rimangono in carica fino alla scadenza naturale del mandato, se arriva alle Camere una legge gradita all'opposizione, capita spesso che alcuni suoi deputati la votino, non essendo in gioco la permanenza al governo degli avversari; e, viceversa, se arriva una legge sgradita a parte della maggioranza, capita che alcuni suoi deputati non la votino, sapendo di non far cadere il premier o il presidente. Il fatto che siano tutti più indotti a valutare nel merito e non per appartenenza toglie potere di ricatto alle ali estreme e ai partiti e l'autonomia del Parlamento ne esce rafforzata.

In un sistema elettorale maggioritario, puro (senza quote proporzionali o scorpori), non ci sono collegi per i quali optare o ripescaggi. Se perdi, sei fuori. E in una democrazia post-ideologica, dove ormai la quasi totalità dei collegi si giocherebbe su pochi punti percentuali, anche gli esponenti medio-alti, quelli più famosi e telegenici, certamente i burocrati di partito, rischierebbero di andare a casa. Per i cittadini vorrebbe dire finalmente più controllo sull'operato degli eletti, un ricambio più frequente e "meritocratico" della classe politica. Un metodo di selezione delle leadership molto più efficiente, che indurrebbe i partiti stessi a valorizzare chi sa mettersi in gioco davanti agli elettori e raccogliere consenso intorno alle proprie idee, piuttosto che costruire la propria carriera sulle clientele e all'interno dell'apparato.

Un porto sicuro per l'Ucraina

«Nessuno pone il problema della nostra adesione all'Ue dall'oggi al domani. Vorremmo però che l'Europa in qualche modo sancisse la prospettiva europea dell'Ucraina. Ci serve un porto verso il quale dirigere la nostra nave».
Viktor Yushchenko (Corriere della Sera, 28 maggio 2007)

Ci vuole un po' di blues

"The Thrill Is Gone", BB King & Tracy Chapman

Sunday, May 27, 2007

Gli errori dei difensori della laicità

Giorni fa, su il Riformista, Claudio Martelli rimproverava ai difensori della laicità, «amici ed avversari del Partito democratico», di cooperare a un «errore catastrofico», quello di «ridurre il significato e l'orizzonte culturale della laicità al perimetro politico del centrosinistra o della sola sinistra». La laicità, spiegava, «non è né di sinistra né di destra: è una questione di libertà, di libertà fondamentali e in divenire, lungo un processo secolare di emancipazione reciproca della Chiesa e dello Stato».

Condivisibile l'appunto di Martelli, anche se mi pare sottovaluti il fatto che il centrodestra ormai si è completamente appiattito sulle posizioni della Chiesa e reagisce come un sol corpo cavalcando le esternazioni e i toni dei prelati.

L'ex ministro socialista dubita che sia stato «saggio - e laico - promuovere un referendum abrogativo di una legge appena varata, prima che se ne potessero misurare gli effetti». Piuttosto, direi, fu suicida, per quanto riguarda l'obiettivo, pensare di contrastare la strategia degli anti-referendari, che avrebbero puntato sull'astensionismo cronico, l'indifferenza e la stanchezza degli italiani, ma quel referendum ha avuto indubbiamente il merito di dischiudere, rendere evidente a molti, un attivismo sotterraneo che ormai da qualche tempo la Chiesa aveva cominciato ad esercitare sulla politica italiana.

Ha ragione, invece, Martelli a individuare nel governo, che ha prima varato, poi «pilatescamente abbandonato» i "Dico", il principale responsabile dell'affossamento del disegno di legge sulle coppie di fatto; e a osservare come l'impegno Bindi-Pollastrini, da prova della capacità del nuovo partito democratico a trovare un equilibrio tra laici e cattolici, abbia finito con il provare il contrario, «un disastro politico e in un'abiura personale che per decenza dovrebbero condurre alle dimissioni delle due ministre».

E ha ragione anche nel non rimpiangere i "Dico" nel merito: un «collage di espedienti tesi a nascondere la legittimazione delle coppie anche omosessuali». Anzi, «dal punto di vista laico i "Dico" anziché rimuovere aggravavano la discriminazione dei cittadini omosessuali, sancendo per legge la preclusione dell'esposizione pubblica della coppia omosessuale con il sotterfugio della dichiarazione all'ufficio anagrafico». Persino così svuotata, compromissoria e umiliante, la legge è stata affossata.

D'altra parte, però, non credo che l'apprezzabile proposta privatistico-notarile di Alfredo Biondi potesse riscuotere maggiori consensi in un centrodestra dal riflesso clericale condizionato e in un clima che le gerarchie ecclesiastiche hanno dimostrato di voler mantenere incattivito.

Piuttosto, è sugli errori dei difensori della laicità che fa bene a concentrarsi Martelli: per esempio, perché Pannella e la Bonino «riducono lo spirito laico, che è maggioritario in Italia come in tutto l'occidente, al perimetro della sinistra di Bertinotti e di Pecoraro Scanio?». Perché il 12 maggio una manifestazione il cui risultato è stato quello di trasmettere l'immagine dei laici ridotti a una sparuta e passatista minoranza, che non corrisponde alla maggioranza di una società nel suo vissuto quotidiano laicizzata? Anche il nome scelto per l'iniziativa - "orgoglio" laico - preso in prestito dal "Gay Pride", richiamava quell'"orgoglio" tipico delle minoranze che hanno bisogno di esibirlo per sfidare tabù come quello dell'omosessualità.

Ai difensori della laicità si può rimproverare di non sapere interpretare e mobilitare il vivere laicamente della stragrande maggioranza della società italiana. «Divorzio e aborto furono conquistati e difesi proprio perché non si commise l'errore di identificare le libertà di tutti, i diritti di tutti, con uno schieramento politico», sembra voler ricordare Martelli a Pannella, il quale fu così che «seppe conquistare il voto anche di laici cattolici e di laici fascisti».

C'è una strumentalità nel mondo in cui anche i radicali intendono oggi l'"orgoglio" laico, quasi che fosse l'unico, fragile, filo che li tiene legati a una sinistra che null'altro concede ai radicali se non di rinchiudersi nel recinto, nel ghetto, dei laicisti. Così, nella difficoltà strategica in cui si trovano in questa compagine governativa, la laicità diviene l'unico carattere identitario dal quale riscuotere una dose minima di accettabilità da parte dei vicini.

«Il laicismo non è un surrogato per partiti in crisi di astinenza ideologica, tantomeno il banco di prova di ibridi come il nascente partito democratico. Come quello religioso, talvolta intrecciato con quello, la laicità è patrimonio spirituale diffuso, sedimentato da una lunga opera di civilizzazione dei costumi e delle leggi, risponde ed esprime la coscienza comune e il progresso scientifico, non il pensiero forte di élites intellettuali o quello debolissimo di politici inetti».

Non che sia cosa facile, ma la sfida è quella di rappresentare questa laicità sedimentata nella maggior parte delle coscienze individuali. La difficoltà sta nel raggiungere i milioni di italiani che schifano la politica, che vivono la libertà dei costumi, l'individualismo e il consumismo, ma che ipocritamente, per darsi un tono, quasi per attenuare un senso di colpa, si aggrappano ai "valori tradizionali" di cui è piena la retorica televisiva dei divi, dei politici e del clero.

Sapevano e nascondevano

«La Chiesa non può essere colpevole di un reato commesso da una singola persona. (...) Non è la diocesi che rimborsa la vittima, è il sacerdote che dà un rimborso per un atto, e in casi del genere non riteniamo che ci sia un rapporto tale per cui noi siamo i garanti dei comportamenti di assistenza dei sacerdoti».
Monsignor Giuseppe Betori, a margine dell'Assemblea generale della Cei, di cui è segretario.

Le diocesi coinvolte nei processi negli Stati Uniti non sono state condannate a risarcimenti milionari per una sorta di generica responsabilità oggettiva, ma perché in sede processuale è stato provato che sapevano, nascondevano e permettevano che i crimini continuassero per anni. La struttura in quei casi copriva, era connivente.

Stato di polizia in Russia

L'arresto di Marco Cappato a MoscaAncora manifestanti aggrediti e arrestati a Mosca.

Alcuni manifestanti sono stati aggrediti con calci, pugni e lanci di oggetti, a Mosca, in Via Tverskaja, mentre cercavano di consegnare al sindaco, che ieri aveva vietato il Gay Pride definendolo un «atto satanico», una lettera sottoscritta da circa 50 parlamentari europei per chiedere maggiori garanzie democratiche. La dinamica, raccontata in diretta telefonica da David Carretta, su Radio Radicale, è stata la seguente: un piccolo gruppo di naziskin aggrediva i manifestanti ma la polizia russa procedeva all'arresto degli aggrediti, non degli aggressori, e di chiunque tentasse di estrarre cartelli o volantini e si fermasse a parlare con la stampa. Arrestati in questo modo il coordinatore del Gay Pride di Mosca Alexeiev, tre militanti radicali (Nicolaj Kramov, Sergej Kostantinov e Ottavio Marzocchi) e alcuni parlamentari europei tra cui Marco Cappato, mentre chiedeva la protezione della polizia dalle aggressioni degli ultranazionalisti.

Ormai in Russia non si manifesta. Chiunque si muova viene arrestato. E quasi non passa giorno senza manifestazioni i cui partecipanti vengono arrestati. Lo stato di diritto è revocato. L'unica legge è Putin. E l'Europa è muta, cieca e sorda di fronte alla deriva autocratica e nazionalista di uno Stato immenso ai suoi confini.

UPDATE ore 14,50: Cappato e Marzocchi sono stati rilasciati dopo essere stati identificati, mentre Alexeiev, Kramov e Kostantinov saranno processati domani per resistenza a pubblico ufficiale.

L'Ucraina contesa

"Pace fredda" in Ucraina tra il presidente democratico e filo-occidentale e il primo ministro filo-russo. Da Yulia Timoshenko, una dei leader della Rivoluzione arancione, breve ma esauriente spiegazione della crisi politica:
«La decisione del presidente Viktor Yushenko è giustificata: già due mesi fa il governo del primo ministro Viktor Yanukovic preparava un colpo di Stato costituzionale, col quale avrebbe esautorato il presidente dei poteri di supervisione sull'esercito e sulla polizia.

Non ho approvato la decisione di Yushenko di nominare Yanukovic primo ministro dopo le elezioni parlamentari dell'anno scorso. Sapevo che per un presidente propenso alla democrazia, "coabitare", come direbbero i francesi, proprio con colui che si è adoperato per sabotare le elezioni avrebbe provocato la paralisi istituzionale e il caos politico. Così è stato. A imbrigliare la coabitazione è stata la sua prevaricazione sul processo democratico. I democratici ucraini, usciti vittoriosi dal voto, non hanno ottenuto voce in capitolo né il posto che spettava loro al governo. Yushenko ha teso la mano in buona fede ai suoi avversari, per lenire le ferite della nostra nazione. Ma in cambio di ciò, l'accordo di governo con Yanukovic è stato tradito».
Nonostante le prevedibili difficoltà - istituzionali ed economiche - della transizione alla democrazia, sotto la pressione di Mosca per ricondurre l'Ucraina nella sua sfera di influenza, non controbilanciata da alcuna iniziativa dell'Europa, la Rivoluzione arancione non è comunque fallita.
«Certo, l'Europa e il mondo hanno motivo di preoccuparsi, ma dalla Rivoluzione arancione l'Ucraina è cambiata radicalmente. Perfino gli europei convinti, a torto, che la democrazia non metta facilmente radici nei Paesi post-comunisti, dovrebbero riconoscere che il nostro popolo oggi sente di avere potere... una classe media in ascesa preferisce quasi sempre la flessibilità del pluralismo al pugno autoritario».
La Timoshenko esorta dunque l'Europa a inviare «un chiaro messaggio, dal quale si evinca che l'Ucraina... è parte integrante del progetto europeo».

Saturday, May 26, 2007

Paul Newman va in pensione

"Raindrops Keep Falling on My Head", Burt Bacharach (Butch Cassidy and The Sundance Kid, 1969)

Paul Newman non farà più film. «L'ho fatto per 50 anni, è abbastanza». A 82 anni, troppo vecchio per poter dare il meglio sullo schermo. «Non sono più in grado di lavorare come attore al livello che vorrei», ha spiegato: «Cominci a perdere la memoria, la fiducia, la tua inventiva. Quindi, è davvero una pagina ormai chiusa per me». Si dedicherà ad iniziative umanitarie, al "Dressing Room", il suo ristorante a Westport (Connecticut), e alla sua impresa alimentare "Newman's own".

Sicuramente me ne scorderò qualcuno tra tutti i grandissimi film in cui ha lasciato il segno: "Lassù qualcuno mi ama" (1956), "La lunga estate calda" (1958), "Furia selvaggia" (1958), "La dolce ala della giovinezza" (1962), "Il colore dei soldi" (1986), "La gatta sul tetto che scotta" (1959), "Butch Cassidy and The Sundance Kid" (1969), "Il verdetto" (1982), "Diritto di cronaca" (1981), "La stangata" (1972), "Detective's story" (1966), "Intrigo a Stoccolma" (1963), "Lo spaccone" (1961), "Exodus" (1960), "L'inferno di cristallo" (1974).

Contro le caste si sveglia l'Italia degli outsider

Lucida analisi di Luca Ricolfi, su La Stampa di oggi: lo spettro del 1992 aleggia sui partiti e i politici sentono scottare la terra sotto i piedi. La stampa «ha messo nel mirino i costi della politica»; da Confindustria arrivano strigliate; i sondaggi confermano lo scontento, bipartisan, dei cittadini.

Tuttavia, osserva Ricolfi, nel '92 c'era «un doppio "tigre nel motore", che oggi sembra invece assente». Innanzitutto, la magistratura, che però oggi può poco, perché «il ceto politico, pur continuando a delinquere più o meno episodicamente, ha costruito un'impressionante rete di strumenti legali per autofinanziarsi e perpetuare la sua occupazione della Pubblica amministrazione» ("Il costo della democrazia", di Salvi e Villone, Mondadori, 2005).

Poi, l'economia: allora arrivò «un singolo e istantaneo schiaffone (il crollo della lira), mentre oggi affondiamo abbastanza lentamente da permetterci di non percepire quel che sta capitando».

Eppure, oggi nell'opinione pubblica ci sono una forza e una consapevolezza maggiori. Non più solo il disgusto, la sfiducia, l'indignazione per gli sprechi, le incapacità e i privilegi del ceto politico. Si percepisce che a pesare sono «non solo le (costose) degenerazioni ma anche le (costosissime) non-decisioni». I cittadini «cominciano a capire che l'inconcludenza dei politici ha dei costi, dei costi diffusi ed enormi», e produce ingiustizie. Una sensazione che si sta «condensando» sempre più: «La gente, poco per volta ma inesorabilmente, si sta rendendo conto che l'immobilismo del ceto politico sta alimentando un mare di ingiustizie, che però la politica non ha occhiali per vedere. Ingiustizie che non riguardano solo "la casta", ma tutte le caste».
«Chi fa tutti i giorni il proprio dovere, ma non ha una rete di relazioni che lo sostiene e lo protegge, si accorge sempre più sovente che il gioco è truccato. Che non c'è rapporto fra i sacrifici, lo sforzo, la dedizione e i risultati che si ottengono. Che accanto alle grandi diseguaglianze storiche, da sempre centrali nei discorsi della sinistra, si è formata in questi anni una selva di micro-diseguaglianze di fronte alle quali quasi tutte le forze politiche maggiori sono sostanzialmente cieche, sorde e mute».
Disuguaglianze che hanno tutte una comune origine in un «tragico deficit di meritocrazia», sia a livello individuale che di istituzioni.
«Al lavoratore precario che tira la carretta negli uffici pubblici non fa piacere scoprire che la persona che è chiamato a sostituire guadagna dieci volte di più, produce dieci volte di meno ed è inamovibile qualsiasi cosa faccia o non faccia. Ai governatori delle regioni virtuose, che hanno bene amministrato la sanità, non fa piacere scoprire che non ci sono né veri premi per chi ha ben operato né vere punizioni per chi ha lasciato bilanci in rosso per miliardi di euro. Agli studenti che vorrebbero ricevere un'istruzione universitaria decente e non hanno i mezzi per studiare all'estero non fa piacere vedere i figli dei ricchi che vengono spediti negli Stati Uniti o sistemati nelle aziende di famiglia. Ai cittadini che rispettano le leggi non piace accorgersi che i furbi e i delinquenti quasi sempre riescono a farla franca. Agli immigrati onesti, che lavorano, pagano le tasse e rispettano le regole, non piace essere guardati con sospetto perché una minoranza di stranieri può spadroneggiare in interi quartieri delle nostre città».
Insomma, in molti si stanno rendendo conto che «fino a un certo punto livellare le differenze produce eguaglianza, ma oltre quel punto produce nuove e più profonde disuguaglianze», più odiose. E in Italia «quel punto di non ritorno, oltre il quale l'egualitarismo diventa generatore di ingiustizie, è ormai da lungo tempo stato attraversato».

La sinistra è in ritardo nel capire tutto questo e «le sue organizzazioni - partiti e sindacati - sono divenute delle grandi e inconsapevoli macchine per produrre disuguaglianza».

«Se non c'è merito, allora c'è solo censo, clientela, amicizie, affiliazione», avverte il "volenteroso" Nicola Rossi. Il merito è il più democratico, il più liberale, e il più rispettoso dell'individuo, tra i fattori di disuguaglianza, posto che le disuguaglianze, intese come differenze non inique, sono un dato ineliminabile nelle società umane e che compito dello Stato è favorire opportunità di partenza il più possibile uguali, non livellare verso il basso all'arrivo.

Meno tasse, più equità

Dall'Ocse giorni fa è venuta la conferma di qualcosa che qui in Italia è vissuta come una "scorrettezza politica", cioè che abbassando le aliquote fiscali cresce il gettito. Da un recente rapporto, "Making the Most of Globalization", ripreso oggi su il Riformista nella rubrica di Giannino, "Oscar", risulta che la media del prelievo sul reddito d'impresa nei Paesi Ocse è passata dal 36% del 1996 al 29% del 2006. Eppure, il gettito fiscale è cresciuto: dal 2,7% del Pil complessivo al 3,4%.

In Germania, l'aliquota media è passata dal 57% al 39%, e il gettito in un decennio dall'1% del Pil all'1,8%; in Svizzera, il peso fiscale è sceso dal 40% al 21%, e il gettito è passato dall'1,8% del Pil al 2,5%. In Australia, l'aliquota è scesa dal 36% al 30%, e l'incasso è salito dal 4,2% del Pil al 5,7%. Nel Regno Unito, abbassando le tasse dal 33 al 30%, il gettito è cresciuto dal 2,8% al 3,4% del Pil. L'aliquota media italiana resta al 39%, la più alta d'Europa.

Parlando di assurdità fiscali, tra le tasse più assurde e odiose c'è l'Ici sulla prima casa. La prende ad esempio Piero Ostellino, avanzando una proposta che in un sol colpo riduce la pressione fiscale, aiuta i giovani e le famiglia: «Detrarre integralmente dall'Irpef il pagamento del mutuo per pagare la prima casa (il 50% delle giovani coppie non ce la fa e le banche si ingrassano)».

Non poterlo fare «determina che un debito possa essere paradossalmente considerato dalla Corte costituzionale "manifestazione di capacità contributiva"».

Un Terzo Stato consapevole contro le caste

Terzo StatoLa questione non è se Montezemolo si impegnerà o meno direttamente in politica. Importa sapere se finalmente gli industriali decideranno di volere il libero mercato e le regole e di rinunciare all'obolo di Stato

A proposito del partito-Corriere ha parlato direttamente Paolo Mieli, a Liberazione, più nei termini di un think tank di intelligenze dai diversi orientamenti politici e culturali, che però condividono un metodo e si aspettano che la politica sappia cambiare l'Italia.

Con Mario Adinolfi diffidiamo di questa «nuova borghesia consapevole» che il discorso di Montezemolo di ieri ci avrebbe disvelato e che sembra aver entusiasmato editorialisti del Corriere come Dario Di Vico.

Diciamo che bisognerebbe averla una "borghesia", prima di parlare di una nuova. Vero che l'Italia «non ha mai avuto una borghesia che abbia saputo tagliare la testa al re», che il nostro è il capitalismo «familiare e senza capitali, dei patti di sindacato, delle banche nelle imprese editoriali» (e in quelle politiche), in parte responsabile, insieme ai partiti e ai sindacati (e anche un po' a tutti noi), dello «sfascio in cui versa il paese». No, non per l'evasione o l'elusione fiscale - disobbedienze civili a uno Stato famelico da parte di molti che si sono presi il rischio di non fermarsi e di continuare a produrre ricchezza nonostante tutto. Il guaio è che il capitalismo italiano ha barattato il libero mercato con l'assistenzialismo di Stato, trovandosi poi perdente nella competizione globale. Complici i Sindacati, è riuscito a privatizzare i guadagni e socializzare le perdite, con le casse integrazioni, le mobilità lunghe, i sussidi, gli incentivi e le rottamazioni.

Buon ultimo un presidente di Confindustria capisce che servono regole, non oboli di Stato, e viene a parlarci di merito, rischio e concorrenza, quando Confindustria non l'ha mai praticata, garantendo assistenza alle poche grandi industrie, e lasciando senza rappresentanza la reale spina dorsale produttiva del paese, la piccola e media impresa.

Viene, in effetti, il dubbio di trovarci dinanzi, come ha scritto Oscar Giannino, a «un ambizioso [che] si volge a fiutare l'aria per misurare il successo potenziale di una nuova leadership». Per il quale «non conta la coerenza dei programmi», ma «contano gli stati d'animo, e le cadenze retoriche. Tutto ciò che conduce allo stato nascente dell'innamoramento, direbbe Alberoni. Ed era questo lo stato d'animo del Montezemolo di ieri, quella sicumera che tante volte l'ambizioso oppone ai dubbi ben celati intorno al fatto se l'opinione pubblica lo corrisponderà dello stesso amore, e se cederà alle lusinghe».

Eppure, non si può del tutto escludere che qualcosa si muova. «Sta succedendo molto, molto di più», assicura Di Vico.
«Quegli imprenditori che sono stati capaci in regime di moneta unica (senza le generose svalutazioni di una volta) di riconquistare palmo a palmo decisive quote di export, ora si chiedono perché debbano essere finanziate comunità montane a pochi metri di altezza sul livello del mare, perché i consiglieri della regione Veneto abbiano diritto ai funerali gratis e perché si dilapidi denaro pubblico per tenere in piedi istituzioni quasi inutili come le province».
D'altra parte, seppure demagogico, nel suo discorso Montezemolo stavolta non ha parlato solo delle esigenze degli industriali, non ha stilato «il solito cahier de doléances un po' gretto e corporativo», ma ha preso posizione per alcune riforme che sappiamo essere necessarie da tempo (premierato e legge elettorale, pensioni e tasse, per fare degli esempi) e ha rappresentato una domanda largamente avvertita nella società, di «più libertà, apertura e mobilità», divenute «in tutti i grandi Paesi industrializzati parole d'ordine interclassiste», ha osservato l'entusiasta Di Vico.

Staremo a vedere se gli industriali finiranno per accontentarsi del solito obolo, del solito pasto caldo. Può darsi che si sia trattato del ciclico cavalcare l'onda di delusione del mondo produttivo nei confronti di un governo che pure si era sostenuto, per meglio prepararsi a cambiare carro in corsa o ad alzare il prezzo sui tavoli della concertazione.

Se non una "rupture", se non qualcosa di radicalmente riformatore, la crisi della "casta", il referendum elettorale che grava sui partiti, il nuovo corso di Confindustria con l'ombra incombente di Montezemolo, una ventata d'aria fresca potrebbero portarla, spazzando via qualche vecchio dinosauro e residuato ideologico, sbloccandoci da uno stallo che davvero non possiamo più permetterci. E' il momento del ciascuno faccia il proprio gioco, ma chi resta fermo è perduto.

Non mi convince l'approccio solo generazionale di Mario Adinolfi, né l'espressione «neoproletariato», ma condivido l'analisi degli "outsider". Piuttosto, il «patto interclassista» dovrebbe essere inteso come un'alleanza tra i produttori (i non protetti e i non privilegiati, nell'impresa come nel lavoro) contro i burocrati e le corporazioni: un Terzo Stato consapevole ci serve, più che una «nuova borghesia». Ecco, credo che se quell'alleanza si costituisse questo paese avrebbe qualche speranza di farcela. La domanda è: gli industriali ci stanno ad uscire da una logica corporativa e a sentirsi "Terzo Stato"? Il discorso di Montezemolo può essere interpretato in questo senso, ma restiamo in attesa della prova dei fatti.

Friday, May 25, 2007

Iran. Dalla coesistenza alla destabilizzazione

Bush durante una conferenza stampaL'obiettivo è duplice: impedire all'Iran di dotarsi della bomba atomica e di diventare potenza egemone nella regione. Non avendo nulla da offrire in cambio, non potendo neanche accettare sfere d'influenza iraniane in Libano e in Iraq, che sarebbero presupposti funzionali al disegno egemonico iraniano che si vuole neutralizzare, l'amministrazione Usa è consapevole che il regime change, con forme di pressione e destabilizzazione dall'esterno a dall'interno, potrebbe essere l'unica via alla soluzione definitiva del problema iraniano, e la più sicura.

L'America sarebbe disposta ad accettare la sopravvivenza della Repubblica islamica solo se rinunciasse a dotarsi dell'atomica, a destabilizzare gli altri paesi della regione, come Libano e Iraq, avviati al cambiamento democratico, e se non fosse in grado di sconvolgere l'accesso e i prezzi delle risorse energetiche dell'area. Pretese che però confliggono con la natura stessa, ideologica e rivoluzionaria, del regime degli ayatollah.

Si palesa sempre di più, quindi, la strategia che Washington sembra aver adottato: realistica negli obiettivi, plurale, flessibile e pragmatica negli strumenti. Ben lontana da quella suggerita qualche tempo fa da alcuni nostri "realisti" alle vongole, convinti che con l'Iran bisognasse trattare riconoscendo il suo status di potenza egemone, o che addirittura fosse «un nostro alleato naturale». L'uso che l'amministrazione Bush intende fare della diplomazia con l'Iran non è finalizzato a un accordo di coesistenza, a un equilibrio di interessi, ma rientra in una logica di contrapposizione, che sul terreno sta già avendo luogo in più parti della regione.

Secondo un nuovo rapporto dell'Aiea, non soltanto l'Iran non ha bloccato le attività di arricchimento dell'uranio, disattendendo tutte le raccomandazioni delle Nazioni Unite, ma le ha incrementate, con l'entrata in funzione di 1.300 centrifughe nello stabilimento di Natanz. Nel rapporto, firmato da Mohamed El Baradei, viene confermata la stima della Cia secondo cui a Teheran occorreranno dai tre agli otto anni per realizzare la sua prima bomba atomica. Il presidente Bush ha deciso di lavorare con i partner europei, con il presidente russo Putin e quello cinese Hu Jintao, per «rafforzare le sanzioni» contro il nucleare iraniano.

Si avvicinano anche i nuovi colloqui sull'Iraq, durante i quali Usa e Iran si parleranno, ma solo della situazione irachena. Gli Stati Uniti si presentano a quel tavolo con una pistola carica: il nuovo piano di sicurezza nel paese, che in estate dovrebbe entrare nel vivo e che prevede la "tolleranza zero" anche nei confronti delle milizie sciite e dei loro sponsor iraniani, e le esercitazioni della Us Navy a ridosso delle acque territoriali iraniane, presso lo Stretto di Hormuz, crocevia petrolifero e snodo strategico cruciale, dove sono dispiegate due portaerei — Nimitz e Stennis - sette navi da guerra, decine di aerei, circa 20 mila uomini.

Gli iraniani sono i più attivi nel gettare benzina sui diversi fuochi accesi in Medio Oriente: inviano armi ai talebani in Afghanistan (razzi e missili anti-aerei); sostengono non solo le milizie sciite ma anche quelle sunnite in Iraq; forniscono armi e supporto a Hezbollah in Libano e ad Hamas nei territori palestinesi; raccolgono informazioni su possibili obiettivi in Occidente.

Al prossimo incontro verrà reiterata a Teheran la richiesta di smettere di fomentare la guerra civile in Iraq, senza grandi chance di successo però, visto che qualsiasi cosa gli iraniani chiedessero in cambio - luce verde sul nucleare, sospensione delle sanzioni, o un indennizzo di influenza su altre aree - sarebbe in contrasto con gli obiettivi di lungo termine della politica americana.

Ma Washington gioca su più fronti: muscoli, pressioni diplomatiche, gioco di alleanze, intelligence, appoggio alle opposizioni interne. Oltre alle manovre della flotta nel Golfo Persico e ai piani militari in Iraq, la Casa Bianca ha autorizzato la Cia a condurre operazioni coperte in Iran. Propaganda, disinformazione, sabotaggio e ogni altra azione «non letale» volta a destabilizzare il regime. In particolare, gli agenti sono impegnati a intercettare possibili forniture tecnologiche, a far fallire accordi commerciali, a sabotare i laboratori iraniani per il nucleare fornendo componenti difettosi.

Sono previsti maggiori aiuti alla dissidenza iraniana sia all'estero che all'interno (sindacati, studenti e intellettuali), e assistenza militare a formazioni armate su base etnica.

All'Onu gli Stati Uniti si muovono di concerto con i partner europei, con Cina e Russia, e si preannuncia una terza risoluzione con un ulteriore giro di vite di sanzioni. In funzione anti-iraniana stanno tessendo un cordone di paesi islamici sunniti, con al centro l'Arabia Saudita. Vista la fragilità economica del regime, di cui ci ha dato un quadro esauriente Alberto Negri, sul Sole 24 Ore, gli Usa stanno cercando di convincere gli europei a usare anche loro la carta dello strangolamento finanziario.

Un «contenimento aggressivo» - pronto a sfociare in aperta, graduale destabilizzazione del regime dei mullah, da accelerare o rallentare a seconda delle occasioni - non per convivere con la minaccia, ma per debellarla. In questo contesto neanche un attacco può essere escluso.

Thursday, May 24, 2007

Il partito-Corriere e l'ombra Montezemolo

Paolo Mieli, direttore del Corriere della SeraIn un certo senso si può dire che il Corriere della Sera stia perseguendo «l'alternanza per l'alternativa» meglio di chi questa espressione l'ha coniata. Pur senza entusiasmi, indicando per tempo quali sarebbero state le inadeguatezze dell'attuale compagine al governo e le riforme necessarie al paese, il quotidiano di via Solferino ha prima sostenuto l'«alternanza» prodiana a Berlusconi. Adesso è impegnato a trovare un'«alternativa».

Non sappiamo dire se questa sarà migliore o peggiore dell'esistente, ciò che sappiamo è che l'esistente non ce lo possiamo più permettere. Dunque, è attorno al Corriere, che ovviamente rappresenta degli interessi precisi e agisce coerentemente con essi, che si stanno coagulando i soggetti che guardano oltre lo status quo retto in concorso da Prodi e Berlusconi.

Una campagna di delegittimazione dei partiti che sfiora anti-politica e qualunquismo, entrata nel vivo con il libro-inchiesta di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, accompagnata da editoriali che evocano un «crollo» del sistema simile a quello del '92-'93 (Sergio Romano) e che dettano l'agenda delle riforme (Mario Monti).

Un canovaccio rispettato oggi da Montezemolo, che ha aperto l'Assemblea annuale di Confindustria con un vero e proprio programma di governo, accompagnato dall'attacco alla politica che pensa alla propria sopravvivenza ed è incapace di rispondere ai bisogni del paese.

E' la nuova crisi dei partiti che lascia spazio al partito-Corriere, mentre il partito-Repubblica al momento sembra troppo appiattito sull'asfittico processo costituente del Partito democratico per poter competere. E chissà che a rappresentare le forze e gli interessi allettati da una "rupture" all'italiana non si candidi proprio Montezemolo, con il suo discorso di oggi.

Interessante dare uno sguardo a come ha reagito il mondo politico. Reazioni molte diverse tra loro, ma tutte sotto il segno della paura. Chi con sdegno altezzoso (Prodi, la sinistra comunista, Mussi, i Sindacati), chi pronto a non farsi sfuggire l'eventuale nuovo carro (Casini, Rutelli, Fassino, Bersani), chi sente vacillare il suo ruolo di opposizione (il centrodestra), chi con stizzita superiorità, ma con opportunistica cautela (D'Alema), chi ha messo in guardia dall'anti-politica (Mastella, Bonino, Tabacci). Non manca chi un Montezemolo così lo vorrebbe a capo dei Volenterosi (Polito, Capezzone, Della Vedova).

La stessa paura che giorni fa faceva dire al dalemiano di ferro Latorre: "Non faremo la fine di Craxi". Un modo di farsi coraggio, mentre si avvicina la probabile uscita di nuove imbarazzanti intercettazioni che riguardano i vertici Ds sugli intrallazzi finanziari di Unipol, che la dice tutta sull'estrema fragilità di una classe dirigente. Un'uscita infelice, che nel rassicurare sulle proprie sorti implicitamente ammette una situazione analoga a quella del '92-'93, di fine regno. L'impressione è che se non arriva prima il Partito democratico, a concludere l'esperienza dei Democratici di Sinistra sopraggiungerà la morte naturale.

E' il momento del ciascuno faccia il proprio gioco, ma chi resta fermo è perduto.

Scrive bene, ma non razzola

L'ex presidente del Consiglio del '92, oggi ministro degli Interni, Giuliano Amato, fa uscire sulla rivista Il Mulino un ineccepibile saggio sulla riforma delle pensioni, in cui propone un «nuovo contratto sociale tra le generazioni».

Prima di tutto viene smontato il luogo comune secondo il quale si sarebbe «rotto il patto tra le generazioni», semplicemente perché non è mai esistito alcun patto. Sulle pensioni il contratto inter-generazionale «è stato sottoscritto solo da una parte»: pensionati e pensionandi. I grandi esclusi sono «i lavoratori attivi, le giovani e le giovanissime generazioni, fino ai non nati. Nessuna di queste generazioni ha mai sottoscritto alcun patto».

Il «nuovo contratto sociale tra le generazioni» non può prescindere dall'innalzamento dell'età di pensionamento per uomini e donne, dalla revisione dei coefficienti, e da un'exit strategy dal sistema «a ripartizione» verso i fondi pensione «a capitalizzazione», della cui necessità si stanno convincendo le sinistre più responsabili. Tutto per garantire una pensione ai giovani e alle generazioni future.

Se non fa questo, avverte il prof. Sottile, il centrosinistra rischia un «suicidio» politico. Già che è al governo, e la pensa in questo modo, Amato potrebbe scrivere meno su riviste d'elite, venire a spiegarlo in tv e agire in Consiglio dei Ministri.

Politica spazzatura

Montagne di immondizia in CampaniaNon tanto che Visco abbia fatto quel che più d'un generale della Guardia di Finanzia lo accusa di aver fatto - cioè di aver imposto con la minaccia la rimozione dei comandanti della GdF in Lombardia che avevano osato indagare sulla scalata a Bnl di una società, Unipol, legata al suo partito - ma che una volta beccato sia ancora lì, tranquillo al suo posto, con governo e coalizione al completo a fargli da scudo; l'emergenza rifiuti, il degrado e la criminalità a Napoli, che non hanno impedito a Rosa Russo Iervolino e ad Antonio Bassolino - che da sindaco prima, da governatore poi, ha avuto nelle mani un potere pressoché assoluto per vent'anni - di entrare a far parte del Comitato dei 45 per il Partito democratico; e gli allarmanti dati Istat sull'aumento della povertà in Italia. Sono tutti segni dell'inarrestabile decadimento del nostro ceto politico.

Puzza di politica l'immondizia partenopea, come ha ben detto Gian Antonio Stella, come puzza di partitocrazia l'arroganza del viceministro Visco, che abusa della carica pubblica che ricopre per punire chi nello svolgimento del suo dovere si trova a "intralciare" i disegni finanziari del suo partito.

«Visco mi ha impartito l'ordine di avvicendare gli ufficiali (...) senza indicarne le motivazioni (...). Visco mi disse che se non avessi ottemperato a queste direttive erano chiare le conseguenze cui sarei andato incontro. Alla mia obiezione che sarebbe stato opportuno informare l'autorità giudiziaria di Milano, Visco mi ha risposto categoricamente che non avrebbe costituito alcun problema il non avvertirla o farlo successivamente... Poi incontrai il procuratore Minale che mi disse di essere quanto mai sorpreso e allarmato... e mi annunciò l'invio di una sua missiva per chiedere delucidazioni. Il 17 luglio il viceministro mi disse di non aver rispettato alcuna regola deontologica per non aver dato esecuzione istantanea a quanto mi era stato da lui ordinato».

Parole del Generale Roberto Speciale, che risultano da un atto giudiziario. Non è possibile prendersela con un quotidiano di opposizione che ha fatto il suo mestiere. Dunque, o Visco è in grado di smentire le dichiarazioni del generale, o dovrebbe dimettersi. In ogni caso, il Giornale ha portato alla luce comportamenti scorretti da parte di almeno uno tra due alti rappresentanti delle istituzioni.

Il fatto che non siano emersi elementi di reato a carico di Visco - e d'altra parte, come ha ricordato il Procuratore Blandini, l'indagine preliminare serviva a stabilire se avviare un procedimento disciplinare, che poi non fu mai avviato, nei confronti dei finanzieri rimossi, e non del viceministro - non significa che il suo comportamento dal punto di vista politico e istituzionale non sia tale da chiederne le dimissioni. Le dichiarazioni rese dal Generale Speciale non vengono smentite dal procuratore, il quale si limita a chiarire che non contengono elementi penalmente rilevanti. Politicamente sì, invece.

Mentre Rutelli riflette sul fatto che la liquidazione di un banchiere valga come gli stipendi del Senato - se non che la prima la pagano gli azionisti, cioè dei privati, e non i contribuenti - le conclusioni che i più traggono dalle inchieste sugli sprechi e i privilegi della «casta» politica appaiono pericolosamente ovvie e riduttive: «Dove ci sono privilegi assurdi, vanno rimossi. Dove c'è corruzione, va spazzata via». Semplice, no?

Fanno orecchie da mercanti i politicanti, se Mario Monti oggi è dovuto reintervenire per chiarire ciò che a una lettura attenta o non interessata del suo articolo del 22 maggio, appariva già chiaro: proponeva «l'esatto contrario» del governi dei "tecnici", spiegando come ciò che il nostro ceto politico pretende di definire "politica" non lo sia affatto, ma sia solo tecnicismo politicante.

Non solo quella politica, ne esistono tante di «caste» nella società italiana. Per liberarcene occorrono soluzioni strutturali, «il disarmo reciproco dei privilegi corporativi e delle chiusure verso gli esclusi», e altri principi su cui fondare la nostra organizzazione politica, economica e sociale, come il merito e la concorrenza.

Insomma, lo sforzo è quello di evitare che tutte le periodiche denunce della «casta» politica, e delle molte altre «caste» che per mantenere i propri privilegi impongono ai cittadini costi iniqui, si riducano a un'effimera campagna di moralizzazione e di trovare soluzioni "di sistema". Come quelle indicate da Monti, e quel «nuovo contratto sociale tra le generazioni» di cui parla Giuliano Amato, che però, essendo al governo, è chiamato a darsi una mossa in Consiglio dei ministri, piuttosto che a pubblicare saggi su riviste prestigiose.

Né è valido il giochetto smascherato da Piero Ignazi, sul Sole 24 Ore, per cui i nostri politici si difendono confondendo la sfiducia dell'opinione pubblica nel sistema dei partiti con pericolosi atteggiamenti anti-politici o, addirittura, di rigetto della democrazia. E' la partitocrazia anti-politica e anti-democratica, e per ciò va abbattuta.

Wednesday, May 23, 2007

Qualche ombra nella grazia divina

«Certo, il ricordo di un passato glorioso non può ignorare le ombre che accompagnarono l'opera di evangelizzazione del continente latinoamericano: non è possibile infatti dimenticare le sofferenze e le ingiustizie inflitte dai colonizzatori alle popolazioni indigene, spesso calpestate nei loro diritti umani fondamentali». La doverosa menzione di tali crimini tuttavia, «non deve impedire di prender atto con gratitudine dell'opera meravigliosa compiuta dalla grazia divina tra quelle popolazioni nel corso di questi secoli».

Nel corso dell'udienza generale il Papa ha usato queste parole per correggere parzialmente quanto ebbe a dire in merito durante il suo recente viaggio in Brasile, ricevendo critiche più che giustificate per avere di fatto "ritirato" la richiesta di perdono fatta a nome della Chiesa da Papa Giovanni Paolo II.

«L'annuncio di Gesù e del suo Vangelo non comportò, in nessun momento, un'alienazione delle culture precolombiane, né fu un'imposizione di una cultura straniera... In ultima istanza, solo la verità unifica e la sua prova è l'amore. Per questo motivo Cristo, essendo realmente il Logos incarnato, "l'amore fino alla fine", non è estraneo ad alcuna cultura né ad alcuna persona; al contrario, la risposta desiderata nel cuore delle culture è quella che dà ad esse la loro identità ultima, unendo l'umanità e rispettando contemporaneamente la ricchezza delle diversità, aprendo tutti alla crescita nella vera umanizzazione, nell'autentico progresso. Il Verbo di Dio, facendosi carne in Gesù Cristo, si fece anche storia e cultura. L'utopia di tornare a dare vita alle religioni precolombiane, separandole da Cristo e dalla Chiesa universale, non sarebbe un progresso, bensì un regresso».

Se possibile, le parole di oggi, a parziale correzione di queste pronunciate in Brasile, peggiorano l'impressione che Benedetto XVI abbia ritirato le "scuse" offerte da Papa Wojtyla. Non riconoscere fatti storici precisi, ma parlare vagamente di «ombre» e genericamente di non meglio identificati «colonizzatori» sa di reticenza, quasi a voler ribadire il concetto espresso in Brasile.

Che poi con tanta facilità si ammetta che ci possano essere ombre nell'opera della grazia divina inquieta. Si è persino disposti a dare la colpa a Dio e allo Spirito Santo, piuttosto che condannare gli errori dei Papi precedenti?

Tuesday, May 22, 2007

I costi della non-politica

«... i costi del non decidere, del decidere a vantaggio delle corporazioni, del decidere contro i giovani...»

Dai vicepremier Rutelli e D'Alema, spaventati dal possibile tracollo elettorale dei loro partiti in caso di sciopero generale degli statali - quindi proprio da quel cosiddetto "motore riformista" della coalizione (Ds/Margherita) che avrebbe dovuto incarnare la responsabilità e la serietà al governo - giungono le più forti pressioni sul ministro "tecnico" Padoa-Schioppa per accontentare i Sindacati nel rinnovo dei contratti del pubblico impiego.

«Meno tecnica e più politica», gli si chiede, intendendo per "politica" una maggiore sensibilità verso l'esigenza dei partiti di non scontentare le proprie clientele.

A difendere il ministro, e a denunciare il comportamento molto poco "politico", e invece davvero "tecnico", dei partiti, scende in campo Mario Monti, sul Corriere della Sera:

«Non si accorgono, i critici del ministro dell'Economia, che egli sta difendendo il ruolo della politica, mentre sono essi a comportarsi da tecnici. Sì, da esperti in "tecniche di sopravvivenza", applicate al governo. Padoa-Schioppa cerca di evitare che la credibilità complessiva del governo vada in pezzi, dopo molti arretramenti e rinvii su importanti punti programmatici; cerca di orientare le decisioni del governo al rispetto delle generazioni future. Credibilità e impegno per il futuro sono l'essenza stessa della politica. Se mancano, è difficile che i cittadini non disprezzino i politici. Ma per i tecnici della sopravvivenza, che si ritengono politici, contano di più i risultati delle prossime elezioni amministrative e la rigida tutela conservatrice degli interessi di categoria dei propri elettori».

Per Furio Colombo la Chiesa buona è "de sinistra"

Altro che il più bell'articolo della domenica. L'editoriale di Furio Colombo che tanto ha entusiasmato Pannella da convincerlo a lanciare una specie di sondaggio, a cui ha già risposto Malvino, è la dimostrazione più lampante di cosa nella cultura post-comunista impedisce di accettare la Chiesa per quella che è.

L'ex direttore dell'Unità non è infastidito dal fatto che la Chiesa stia tentando di imporre alla società italiana la sua etica, ma che ultimamente quell'etica non corrisponde alla sua. Più esattamente, non corrisponde a quell'etica che a suo parere dovrebbe essere propria della Chiesa. Insomma, Colombo è il tipico intellettuale che ha in mente una Chiesa a sua immagine e somiglianza, a suo uso e consumo, e che s'innervosisce se s'accorge che così non è.

In questo modo tutte le colpe ricadono su Ratzinger, allo stesso modo in cui tutte le colpe ricadono su Bush. Come se il Papa, e l'attuale presidente degli Stati Uniti, non fossero figure perfettamente coerenti con lo spirito delle istituzioni di cui sono espressione, nel bene e nel male.

No. Colombo è uno di quelli che ha una sua idea di cos'è, e di cosa debba essere la Chiesa, di cosa sono gli Stati Uniti, e di cosa debbano essere. Una sua idea di Chiesa "buona" e di Usa "buoni", che naturalmente esiste solo nel suo immaginario.

E così vive nell'attesa che la Chiesa si redima ai suoi occhi, che torni a una non meglio precisata età dell'oro in cui era capace di esprimere valori positivi, "de sinistra".

Così riscrive la storia della Chiesa a suo piacimento. Papa Giovanni XXIII «ha illuminato il mondo», Papa Giovanni Paolo II «lo ha guidato contro leader opportunisti e mediocri e non ha mai smesso di gridare pace», come se questi Papi non l'avessero pensata esattamente come Ratzinger sul matrimonio, sulla famiglia, sull'omosessualità. Come prova definitiva della grande apertura mentale dei Papi del passato c'è quel Paolo VI che «aveva visto i miei documentari sul Vietnam». Eh sì, allora cambia tutto. Può essere persona ottusa e ignorante chi ha visto e apprezzato i documentari di Colombo sul Vietnam??

Si dice certo che questa antipatica parentesi di attacchi ai "Dico" e ai gay si chiuderà e «la Chiesa tornerà alla carità, al sostegno dei poveri e dei deboli...». Anzi, addirittura si dice certo che «farà (lo ha già fatto altre volte in passato) inimmaginabili passi avanti».

«La grandezza della Chiesa sta in questo: fra qualche anno la piazzata sulla famiglia sarà come non fosse mai avvenuta. La Chiesa sarà passata avanti, impegnata di nuovo in grandi ideali come la povertà, la pace e il rispetto per le persone, partecipando alla ricerca comune di nuove strade per un mondo che sta morendo».

Ecco cosa impedisce a un post-comunista di abbracciare una visione liberale e laica della società. Gli basta un accenno del Papa, in piazza San Pietro, alla pace e ai poveri per accontentarsi e scordarsi della «piazzata sulla famiglia», con tanti saluti ai laici che avevano sperato di farci un tratto di strada insieme. Insomma, quando parla di matrimonio, è contro il divorzio, l'aborto, e l'eutanasia, allora la Chiesa fa passi indietro, quando invece fa del pauperismo, del pacifismo, e dell'anti-capitalismo, compie «inimmaginabili passi avanti».

Da qui quel fastidioso atteggiamento doppio della sinistra comunista e post-comunista nei confronti della Chiesa: ascoltata ed esaltata come insostituibile fonte di valori morali quando parla di pace e poveri, addirittura protagonista insieme allo Stato di «una comune missione educativa» nella società (parole del Presidente Napolitano), viene fatta oggetto di un isterismo intollerante, sembra quasi che si vorrebbero i vescovi imbavagliati, quando esprime la sua idea di famiglia e s'intende con la destra.

Mai rompere, però. Al massimo, appunto, mettersi comodi in sala d'attesa con Furio Colombo, ad aspettare che tornino i bei tempi, quando si andava tanto d'amore e d'accordo a parlare di pace e solidarietà, delle ingiustizie del capitalismo. E magari, per accelerare un po', per ristabilire quell'unità d'intenti catto-comunista che fa da fondale al Partito democratico, chissà che non valga la pena sacrificare i "Dico" e tutte le altre diavolerie...
Tutto sembrerà tornato com'era prima l'idillio tra le due chiese a spese del liberalismo.

Monday, May 21, 2007

In onda, ma non nell'arena faziosa di Santoro

Benedetto XVICertamente sì. La Rai dovrebbe mandare in onda "Sex crimes and Vatican", il documentario della Bbc sugli abusi sessuali commessi dal clero cattolico, ma soprattutto sul "Crimen sollicitationis", il documento del 1962 in cui la Santa Sede ordina a tutti i vescovi, pena la scomunica, l'insabbiamento dei casi di violenze di cui fossero venuti a conoscenza.

Si sono subito udite provenire dal quotidiano dei vescovi, Avvenire, le grida preventive. Il tono è quello della minaccia: se venisse trasmesso, lo scontro sarebbe durissimo. Addirittura ai «calunniatori» viene intimato di «chinare il capo e chiedere scusa». A questo punto, però, essendo il video disponibile su internet con traduzione in italiano, e di evidente attualità giornalistica, l'emittente pubblica è in un vicolo cieco: da una parte, trasmetterlo vorrebbe dire aprire un incidente grave con il Vaticano; dall'altra, impedirne l'acquisto, giustificare le denunce di una censura vaticana. Staremo a vedere se i vertici di viale Mazzini si faranno intimidire.

Tuttavia, altrettanto certamente siamo convinti che dare in pasto il documentario della Bbc nell'arena di Santoro sarebbe un clamoroso autogol. L'irritante e inaccettabile faziosità di Santoro renderebbe persino più facile il compito alla "difesa". Il clima da "trappolone" susciterebbe nei telespettatori meno politicizzati una comprensibile, istintiva simpatia per gli accusati di turno. La faziosità è l'arma spuntata, perdente, di chi non crede nella forza dei fatti e non ha stima delle capacità del pubblico. Il documentario dovrebbe essere mandato in onda integralmente, senza interruzioni, e seguito da un dibattito condotto da un giornalista imparziale e corretto, capace di dar voce a tutte le opinioni con le stesse opportunità.

Anche perché il documentario è materiale scottante ma delicato, va trattato con cura. Chi volesse utilizzarlo rozzamente, come una clava, andrebbe incontro a un insuccesso sicuro.

Le accuse più pesanti sono rivolte all'ex Cardinale Ratzinger, oggi Papa, che avrebbe avallato la politica di copertura e segretezza, e fatto applicare le disposizioni del documento, mentre ricopriva la carica di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, emanando persino un seguito in cui si stabiliva che ogni indagine venisse accentrata in Vaticano.

Avvenire ha già abbozzato una strategia difensiva. E' roba «da bidone della spazzatura». L'«istruzione» fu emanata dal Sant'Uffizio nel 1962 e «in quel tempo Ratzinger era ancora teologo in Germania...». Vero, ma per vent'anni Ratzinger ha guidato l'ente ecclesiastico che ha preso il posto del Sant'Uffizio, non revocando, bensì adottando il documento del '62 e ribadendo quelle disposizioni nel 2001.

«Il documento era atto a istruire i casi canonici e portare allo stato laicale i presbiteri coinvolti in nefandezze pedofile... obbligava chiunque fosse a conoscenza di un uso del confessionale per abusi sessuali a denunciare il tutto, pena la scomunica... Ratzinger, diventato più tardi Prefetto della Congregazione, firma una Lettera ai Vescovi dove si prevede che il delitto commesso da un chierico contro un minore di diciotto anni sia di competenza diretta della Congregazione stessa. Segno della volontà di dare il massimo rilievo a certi reati».

Vero anche questo. Il documento «era atto a istruire», «obbligava a denunciare», stabiliva la «competenza diretta della Congregazione». Ma «denunciare» a chi? Sarebbe sbagliato e facilmente smentibile, infatti, accusare la Chiesa di un generico insabbiamento, o di non aver voluto «dare il massimo rilievo» al fenomeno. Non è questo il punto. Probabilmente le indagini ci sono state e ci sono, le punizioni e i tentativi di sradicare queste pratiche criminali anche.

Il fatto che si contesta è che la Chiesa abbia organizzato una politica mondiale di occultamento di questi casi alle giurisdizioni civili, per non pagare il danno d'immagine e i danni materiali (stimabili in milioni di dollari). Non importa un fico secco quanto la Chiesa sia severa con i suoi membri colpevoli di crimini sessuali. Si può anche non dubitare che lo sia stata e che lo sia.

La domanda è: è legale o no, è giusto o no, che la Chiesa tenga nascosti alla giustizia civile i casi di abusi sessuali di cui i suoi membri si rendono responsabili?

La vera questione non è tanto, o non solo, morale e religiosa, cioè la diffusione degli abusi sessuali commessi da preti cattolici, ma il conflitto tra giurisdizione dello Stato e giurisdizione della Chiesa. Nascondere alla giurisdizione di uno Stato sovrano i crimini commessi dai propri aderenti sul suo territorio è un reato: favoreggiamento.

Il ricatto dei Sindacati: o la borsa o lo sciopero

... e il Governo cede la borsa

Dopo il vertice domenicale a Palazzo Chigi il Governo cala le brache e accontenta le richieste dei Sindacati per il rinnovo del contratto degli statali: 101 euro al mese. Contestualmente è stato deciso che i prossimi rinnovi avranno cadenza triennale e non più biennale. A partire, però, dal prossimo (2008-2010).

Forti le pressioni esercitate dai vicepremier, Rutelli e D'Alema, spaventati dal possibile tracollo elettorale dei loro partiti in caso di sciopero, sul ministro "tecnico" Padoa-Schioppa, che a questo punto per salvare almeno la faccia non potrebbe far altro che dimettersi.

Chissenefrega del rigore sui conti pubblici, di quel cosiddetto "motore riformista" della coalizione - Ds/Margherita - che avrebbe dovuto incarnare la responsabilità e la serietà al governo, se è per evitare uno sciopero scomodo alla vigilia di elezioni amministrative.

I «fondi aggiuntivi» cui si riferisce Nicolais, il ministro della (Dis)Funzione Pubblica, fanno parte del cosiddetto "tesoretto", l'aumento di gettito fiscale affluito nelle casse dello Stato grazie alla "ripresina" dell'anno scorso. Una cifra già esigua e probabilmente una tantum, considerando la politica economica di questo governo, che verrà dispersa in mille rivoli assistenziali e clientelari, senza alcuna possibilità di verifica del rendimento degli investimenti fatti.

A fronte di un "tesoretto" una tantum, l'aumento dello stipendio agli statali bisognerà pagarlo anche negli anni avvenire e a regime il suo peso graverà su una spesa pubblica già fuori controllo. Per di più all'orizzonte non si scorge il minimo criterio di efficienza e produttività cui gli aumenti dovrebbero essere legati. Prima i 101 euro, poi si tratta sulla riforma della pubblica amministrazione, è il molto poco tranquillizzante ricatto del segretario della Cgil, Epifani, che propone al Governo di barattare i soldi, tutti e subito, con una generica disponibilità all'«ascolto» delle proposte di riforma dell'Esecutivo per il pubblico impiego.

Dopo un solo anno di governo siamo già alle regalie elettorali. E per un voto amministrativo che in realtà riguarda pochi capoluoghi. Chissà cosa capiterà quando si avvicineranno ben più importanti scadenze elettorali.

Quali trattative? La resa totale del Governo dimostra che non c'è appello al rigore che tenga. Quando i soldi ci sono, vengono spesi, prevale nei politici l'istinto all'acquisto del consenso pagando il conto con il denaro dei contribuenti. Male o bene non importa, purché si spendano. E il più delle volte è male.