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Thursday, December 08, 2005

Un codice anti-terrorismo sottoscritto dalle democrazie

«Ogni paese europeo decida se e come affrontare il terrorismo insieme a noi, e che cosa voglia e possa rivelare alle proprie opinioni pubbliche per non compromettere le operazioni». Oscar Giannino dà ragione alla Rice.
«Non affrontare esplicitamente il punto - quali operazioni internazionali e quali in patria autorizzare contro i sospetti, innovando ed eventualmente derogando rispetto al regime ordinario di garanzie - ci rende tutti solo più deboli, ipocriti rispetto ai nostri alleati. Probabilmente mentitori, davanti alle nostre opinioni pubbliche».
Il bello è che in America il punto è già stato affrontato, questo dibattito c'è stato, e l'amministrazione Bush alcune conclusioni le ha tratte, le sue responsabilità se l'è prese, una politica l'ha elaborata, contraddittoria quanto si vuole, ma ce l'ha. Eppure c'è ancora chi gli rimprovera che non basta. E ha ragione David Frum, che ricorda il suggerimento contenuto in un suo libro scritto un paio d'anni fa con Richard Perle. Invece di fermarsi a mezza strada, la questione del trattamento dei terroristi prigionieri andava risolta del tutto:
«... raccomandavamo che l'amministrazione collaborasse con il Congresso per scrivere un codice per il trattamento dei terroristi stranieri prigionieri. Gli Stati Uniti sono una società fortemente legalistica, e il presidente deve dimostrare di avere l'autorità legale per ogni sua iniziativa. Se il presidente non chiede al Congresso il permesso di detenere i prigionieri, prima o poi le corti o il Congresso stesso gli toglieranno questa autorità. Ora, naturalmente, l'amministrazione Bush è caduta proprio nelle difficoltà legali e politiche di cui avevamo parlato con preoccupazione nel 2003».
Alla fine i nodi vengono al pettine, soprattutto in America, «un paese con molti segreti ma senza misteri». L'amministrazione Bush «ha subappaltato il cruciale compito della detenzione e dell'interrogatorio dei prigionieri perché non voleva accollarsene la responsabilità sotto la giurisdizione delle corti americane. E' stato un errore», sentenzia Frum. La regola dice che «se vuoi che il lavoro sia fatto bene, devi farlo tu stesso», anche perché i servizi segreti stranieri possono fregarti se ne hanno l'interesse.

E adesso veniamo al punto cruciale. Come uscirne? Come trattare i terroristi prigionieri?
«... la Convenzione di Ginevra stabilisce che i terroristi non hanno lo status di prigionieri di guerra. Per avere questo status, bisogna innanzitutto essere dei soldati. E la legge internazionale su questo punto è molto chiara: per essere qualificato come un soldato un combattente deve a) portare armi in modo visibile, b) indossare un'uniforme e avere segni di riconoscimento visibili a distanza, c) rispettare le leggi e le convenzioni di guerra d) obbedire a un ufficiale di grado superiore. I terroristi di al Qaida non soddisfano nessuna di queste tre definizioni. Ma bisogna comunque elaborare un qualche tipo di status legale per i terroristi prigionieri e, inoltre, negoziare una qualche forma di accordo sui terroristi con gli alleati democratici dell'America».
Prima di tutto occorre definire precisamente il terrorismo, e almeno tra i paesi democratici non dovrebbero esserci troppi problemi. Poi permettere di detenere a tempo indefinito i terroristi stranieri e ai governi Nato di interrogare i terroristi «usando tutte le tecniche a loro disposizione fatta eccezione per quelle che prevedono il ricorso all'inflizione del dolore o di altra umiliazione fisica».

Ci vuole un nuovo codice, una convenzione internazionale che definisca il terrorismo e lo status legale del terrorista prigioniero. Le regole della detenzione e degli interrogatori. Almeno tra i paesi democratici un accordo non dovrebbe essere troppo difficile. Europa, Stati Uniti, Giappone e Australia, o anche solo i paesi Nato, basterebbero a fornire la necessaria legittimità alla nuova convenzione.«Se avessimo scritto queste regole due anni fa, oggi non ci troveremmo con una crisi transatlantica fra le mani. Ma non è mai troppo tardi per rimediare a un errore. Dobbiamo imparare la lezione e metterci a lavorare», conclude David Frum.

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