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Tuesday, February 15, 2005

L'inverno nucleare di Kim

Il dittatore nordcoreano dal film Team AmericaL'autore del libro di qualche anno fa The End of North Korea, di cui ho parlato in questo post, Nicholas Eberstadt, è intervenuto ieri sul Wall Street Journal per commentare gli ultimi sviluppi della questione nucleare nordcoreana. Invita ad affrontare alcune «spiacevoli verità»: nessuno dei 5 attori della crisi ha un piano nel caso in cui i negoziati fallissero, né gli Stati Uniti e i suoi alleati (Giappone e Corea del Sud) sembrano essere mai stati consapevoli di quali siano le «red lines» oltrepassate le quali si renderebbe necessario reagire, anche con l'uso della forza.

In questo ultimo capito della crisi, la comunità internazionale non ha agito in modo da far capire a Kim Jong Il che avrebbe patito serie conseguenze se si fosse dotato di un arsenale nucleare. Eberstadt ripercorre quindi a beneficio dei lettori i passi diplomatici che si sono susseguiti dall'ottobre 2002. Solo due mesi dopo aver avuto la certezza dei programmi nordcoreani gli Stati Uniti decidono di sospendere le forniture di petrolio che vengono corrisposte in cambio della rinuncia di quei programmi. Nel dicembre 2002 Pyongyang decide l'espulsione degli ispettori dell'Aiea, nel gennaio 2003 annuncia il ritiro dal Trattato di non proliferazione e il mese successivo di aver riattivato uno dei suoi reattori. La risposta da Washington e Bruxelles? L'invio di aiuti alimentari. Nell'aprile 2003 i nordcoreani ricattano l'assistente del Dipartimento di Stato Usa James A. Kelly a Pechino ("Abbiamo armi nucleari, siamo pronti a testarle o a venderle, a meno che gli Stati Uniti non ci offrano ulteriori benefici economici"). La risposta è quella di convocare i negoziati a sei.

Da qui in poi la storia prosegue con i continui sforzi di Cina e Russia per tenere Pyongyang al tavolo dei negoziati, con la Corea del Sud ad offrire sempre maggiori concessioni in cambio dell'abbandono dei programmi, e con Pyongyang ad alzare la posta. Dopo le precedenti, anche l'ultima «red line» dichiarata, quella della vendita di materiali nucleari all'estero, sembra essere oltrepassata. Insomma, la Corea del Nord fin qui non ha patito alcun costo per la sua trasgressione, anzi, di recente Seoul ha rassicurato il Nord di non ritenerlo il suo «principale nemico» e promesso «un sostegno economico su larga scala» appena Pyongyang avesse rinunciato al suo programma nucleare. Quale la risposta? L'annuncio della settimana scorsa: La Corea del Nord si proclama potenza nucleare e si ritira dai negoziati a sei. Per quale motivo? Ripercorrendo la serie di eventi dei mesi scorsi, è più che probabile che la Corea del Nord non abbia fatto altro che trarre insegnamento dall'interazione con gli Stati Uniti e il resto del mondo.

Ogni «nuovo round di provocazioni» messe in atto, conclude Eberstadt, ha generato per essa chiari benefici, non dei costi. Ora sarà «molto spiacevole e molto oneroso» far scordare a Pyongyang le lezioni degli ultimi due anni e mezzo. «Non ci sono red lines con la Corea del Nord», dichiarava Colin Powell con l'intento di rassicurare l'opinione pubblica, ma «lontana dal differire e mitigare il rischio di un conflitto», la debolezza con la quale l'Occidente ha affrontato questa crisi «ingrandisce solo l'eventuale scala di un disastro annunciato».

Per il blog 1972 stavolta Kim ha sbagliato alla grande i suoi calcoli. Dalle prime reazioni intravede un'inversione di tendenza nell'affrontare la questione nordcoreana. Il piano di «strangolamento economico» sembra finalmente prendere forma a Washington e potrebbe trasformarsi in una «quarantena» se anche Corea del Sud e Cina si convincessero finalmente che è giunto il momento di costringere Pyongyang a scegliere tra disarmo e isolamento.

Non le solite misure di embargo colabrodo, ma azioni mirate alle fonti di finanziamento di un regime di fatto già fallito. Basterebbe «uno scossone al sistema dal quale la classe dirigente risultasse direttamente pregiudicata» per ottenere «la dissoluzione dall'interno della struttura di potere».

La Cina detiene un ruolo centrale nella vicenda. Anche Pechino non può accettare una Corea del Nord potenza nucleare, ma non ha interesse al collasso del regime, per affinità ideologica, convenienza economica e sul piano dell'esercizio e del consolidamento, in questa crisi, del suo ruolo di potenza regionale. Anche la Corea del Sud ha praticato l'appeasement con il Nord, accettando il gioco al rialzo e assicurando sempre maggiori benefici in cambio di una mai avvenuta rinuncia al programma nucleare. Ora però a Seoul si alzano voci critiche nei confronti del governo per non aver ottenuto nulla dal suo approccio morbido con Pyongyang e si chiede di rivedere quelle politiche.

Bluff o non bluff occorre andare a vedere le carte di Kim Jong Il, perché la «diplomazia estorsiva» di un regime che usa il ricatto nucleare per la propria sopravvivenza presenta comunque alti rischi. Per Jasper Becker, su Time, la strategia deve essere una sola: regime change. Negli ultimi dieci anni ogni politica che ha riposto fiducia negli accordi con Pyongyang è fallita. La proclamazione ufficiale di potenza nucleare fatta la scorsa settimana «offre un'opportunità»: il caso, la violazione del Trattato di non proliferazione, può essere portato al Consiglio di Sicurezza dell'Onu allo scopo di imporre delle sanzioni a Pyongyang. Mentre gli Stati Uniti e i suoi alleati sorvegliano i mari, dovrebbe essere possibile a Russia e Cina impedire per terra e aria il traffico di materiali nucleari dalla Corea del Nord. Washington non ha mai avuto un momento migliore per convincere Cina, Russia e Corea del Sud ad agire e mettere in atto un blocco totale.

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