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Saturday, January 15, 2005

La Corte che abroga il referendum abrogativo

TogheAl Corriere i giudici tradiscono la propria incompetenza e ammettono di aver dato via libera a referendum "propositivi", bocciando l'unico costituzionalmente previsto

In un post di ieri avevo avanzato l'ipotesi che il principio usato dalla Corte per bocciare il quesito di abrogazione totale della legge 40 sarebbe potuto essere quello dell'horror vacui legislativo. Mi sembra di per sé evidente che se la Corte allarga la sua discrezionalità fino a poter bocciare sia un quesito di abrogazione totale, perché appunto crea un «vuoto legislativo», sia, come accaduto in passato, uno di abrogazione parziale, perché "manipolativo", quindi surrettiziamente "propositivo" e non previsto dalla Costituzione, allora ci troviamo ad un uso "politico" del giudizio di ammissibilità referendaria.

Al Corriere uno dei giudici «viola il segreto (illiberale, n.d.r.) della camera di consiglio» e spiega che «non si è entrati nel merito, perché in questo caso non bisognava stabilire se i principi violino la Carta, ma soltanto se si tratti di una legge "costituzionalmente obbligata" e dunque impossibile da abrogare completamente per non creare un vuoto normativo». Un obbligo costituzionale che i 15 giudici non hanno mai ritenuto di denunciare in tutti questi anni trascorsi senza una legge, ma andiamo avanti.

Il giudice che parla al Corriere, protetto dall'anonimato, non lo ammetterebbe mai, ma i suoi virgolettati tradiscono il criterio politico, non giuridico, utilizzato dalla Corte nel giudizio di ammissibilità. Ammettere il quesito bocciato «non equivaleva a chiedere al popolo "Vuoi questa legge?", ma più semplicemente "Vuoi una legge sulla procreazione assistita?". Non era questo lo spirito giusto e dunque si è ritenuto che fosse più opportuno accettare le altre quattro proposte referendarie». I giudici si sono attribuiti la facoltà di interpretare - sbagliando - quale fosse lo "spirito" del quesito. Opportunità dunque... non legittimità, la prima una parola che appartiene all'ambito della politica, la seconda che appartiene al campo del diritto.

Il criterio del «vuoto legislativo» da evitare può essere applicato nella piena discrezionalità della Corte a tutti i quesiti che le si propongono. E' infatti ovvio che a tutte le leggi approvate si possa attribuire una rispondenza ai principi costituzionali - se così non fosse sarebbero forse leggi incostituzionali. Procedendo in questo modo si può arrivare a teorizzare l'obbligatorietà, e non la facoltà, del Parlamento a legiferare...

Infine, e viene da sorridere, il giudice coperto da anonimato ammette candidamente che la Corte ha ritenuto ammissibili dei referendum "propositivi", quando alla giornalista del Corriere suggerisce che «alla fine potremmo avere una legge che, proposta dall'Udc, diventa proprio come la volevano i Ds».

Un criterio politico dunque, ma non si accusa la Corte di essere entrata nel merito delle norme sulla fecondazione assistita, piuttosto di esprimere un giudizio di opportunità politica sull'istituto del referendum abrogativo, di fatto abrogato dalla giurisprudenza della Corte. Almeno - dico, almeno - la Corte accetti di giudicare l'ammissibilità prima, o nel corso, della raccolta delle firme.

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