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Thursday, December 30, 2004

Berlusconi alla scuola di Crawford, Texas

Di ritorno dal suo "corso di studi" nel ranch di George W., è pronto a importare in Italia la ricetta elettorale che ha fatto rivincere Bush: meno tasse e più valori. Ma ha davvero imparato bene la lezione americana?

Quale sarà la parola d'ordine della Casa delle Libertà nella prossima campagna elettorale? E' ancora presto per dirlo, ma Berlusconi oggi ha fornito qualche indicazione nella conferenza stampa di fine anno. Il nuovo slogan, ha anticipato, potrebbe essere: «Giù le tasse, su i valori». Ascoltando il passaggio in questione ho avuto l'impressione (anche se non seguo i discorsi del premier) che per la prima volta Berlusconi abbia esposto in modo chiaro dove ha intenzione di condurre la prossima campagna elettorale: occorre tornare ai valori alla base del proprio stare in politica, alla moralità della politica.

Se Berlusconi si richiama direttamente alla lotta, del bene contro il male, ingaggiata dal suo amico Bush per l'esportazione di libertà e democrazia nel mondo dove esse mancano, ben più inquietante è il messaggio che riceviamo dall'ultimo minuto di registrazione. Se su quel minuto vale esprimere un primo giudizio, mi sembra che Berlusconi abbia frainteso il significato e la portata di quelle che a mio modo di vedere sono state le frecce - le cosiddette moral issues - nell'arco della campagna repubblicana negli States. Richiamandosi a ideali profondamente condivisi dagli americani, addirittura fondanti della Nazione, Bush ha fatto leva su di essi per giustificare la sua visione politica, soprattutto riguardo le politiche che più stavano a cuore all'elettorato: la guerra al terrorismo. Invece, pare che dobbiamo aspettarci un Bush nostrano, all'amatriciana, che si appresta ad introdurre in Italia un conservatorismo non alla Bush, ossia rifondato sulle orme di Reagan, ma che non fa che riprendere la linea Fanfani-Almirante.

Berlusconi sembra aver recepito l'invito che con il suo Foglio Giuliano Ferrara rinnova ogni giorno, a combattere una battaglia culturale. Senza curarsi però di quali compagni di ventura ha al suo fianco e senza ben ponderare il peso dell'assenza nel nostro Paese di anticorpi autenticamente liberali e laici, presenti invece oltreoceano, dei quali certo questo centrosinistra non è portatore. Da noi parlare di "morale" in politica ha un significato ben diverso che in America. Vi sono condizioni che rendono l'operazione del Cav., se si compirà, a rischio di derive clericali. Buttiglione non è Bush, ho scritto tempo fa.

Sempre se abbiamo ben interpretato quel minuto di risposta, dobbiamo riconoscere che ancora una volta Marco Pannella ci ha visto giusto sull'operazione che si va preparando. La riproposizione della linea Fanfani-Almirante, già sconfitta, potrebbe avere oggi maggiore presa sugli italiani. Se laicità e religiosità vanno nuovamente difese, questa è una missione per i radicali. Pannella ha posto le basi intellettuali per questa difesa con il convegno a Bruxelles sulla laicità e le religioni da lui fortemente voluto, che, seppure con evidenti lacune e scivoloni, rappresenta l'inizio di un'opera per riportare alla luce l'altro pensiero cattolico, quello liberale, quello scismatico rispetto al Vaticano, ma maggioritario rispetto alla Chiesa intesa come comunità di fedeli.

Intanto, forse, già ci dobbiamo ritenere fortunati che la ricetta che Berlusconi ha deciso di importare non è quella dell'altro suo amico, Putin. O forse abbiamo frainteso e il Berlusconi del 2006 sarà quello di sempre. Buon 2005!

A forza di svolte ci viene il testacoda

Come ogni anno, il prossimo è sempre quello della «svolta». Parola Sua. Berlusconi però è davvero vicino alla gente. Noi italiani siamo sempre pieni di buoni propositi per l'anno nuovo, peccato che "scadono" quasi sempre il 31 dicembre dell'anno appena trascorso.

Vi invito poi a guardarvi questo passaggio in cui Berlusconi umilia il moralismo piccolo-borghese della giornalista dell'Unità, che dal basso della sua tinta roxy non trova di meglio che chiedere a Berlusconi di rendere conto dei suoi interventi estetici. Se l'è incartata tra le risate generali.

Una Coalition dei soccorsi

Bush telefona al presidente dello Sri LankaStati Uniti, Australia, India e Giappone ci stanno per «prevalere sulla devastazione» come sul terrorismo. Dopo la sicurezza, via dalle mani dell'Onu anche i compiti umanitari. Nuove leadership globali
C'erano già poche cose da salvare di queste Nazioni Unite. Le agenzie umanitarie erano una di queste. Erano. Ora, spinto anche dalle ridicole accuse di "tirchieria" rivolte agli americani addirittura da un vicesegretario dell'Onu, Bush ha deciso di scavalcare nuovamente l'Onu, mettendo su una nuova Coalition of Willings («Prevarremo sulla distruzione», ha dichiarato). Stavolta l'obiettivo non è l'uso della forza di fronte alle minacce, ma il soccorso umanitario delle popolazioni del sud-est asiatico colpite dallo tsunami. Due Coalition dunque, per un doppio impegno volto a superare la doppia inefficienza del Palazzo di vetro, a garantire da un lato la sicurezza e la pace nella libertà e nei diritti, dall'altro il soccorso umanitario senza sprechi e corruzione.
«L'inefficienza è stata rilevata anche in occasione di questa catastrofe naturale. Bush ha ribadito ieri la necessità di "sviluppare un nuovo sistema di prevenzione e d'allarme disponibile per tutti gli Stati", ma le Nazioni Unite, impegnate a fare una distinzione tra paesi ricchi dal braccino corto e paesi poveri non in grado di dotarsi di boe acustiche, sensori, satelliti, dinamiche computerizzate che potessero prevedere, minuto per minuto, l'evoluzione dello tsunami, hanno dimenticato di sottolineare che i prodigi della tecnica non erano necessari domenica scorsa per prevenire, almeno in parte, il disastro nell'Oceano Indiano». Segue >>
I centri preposti alla rilevazione e a lanciare l'allarme sono entrati in azione, e nonostante l'era delle telecomunicazioni e della rete globale di internet ai paesi colpiti non erano indispensabili elaboratori e satelliti, ma sarebbero bastati anche messaggi alla televisione e alla radio, un sistema di altoparlanti nelle città e un piano prestabilito.

Ciò che invece fino ad oggi ha funzionato delle agenzie umanitarie dell'Onu, come ricorda Christian Rocca oggi sul Foglio, lo si deve alla generosità degli Stati Uniti d'America, che nell'Onu hanno sempre investito con convinzione montagne di denaro. Pare che l'Unicef da Fondo per l'infanzia sia stato trasformato «in un collettivo femminista che si occupa di salvaguardare i diritti delle bambine invece di aiutarle a sopravvivere», per non parlare del «più grande scandalo di corruzione di tutti i tempi: i 21 miliardi di dollari di aiuti ai bimbi iracheni scomparsi sotto gli occhi degli uomini (e del figlio) del segretario generale, Kofi Annan».
Nonostante tutto ciò, il grande sistema degli aiuti targato Onu è il più conveniente che ci sia ed è molto più che utile: sfama 100 milioni di persone l'anno, previene l'Aids, cura le malattie e affronta le calamità della Terra. Il motivo? L'impegno degli Stati Uniti d'America. Il 22 per cento del budget dell'Onu, due miliardi e 900 milioni di dollari l'anno, è pagato da Washington (la Russia 1,2 per cento, la Cina 1,5). L'America paga il 57 per cento del bilancio del World Food Programme, il 33 per cento dei costi dell'Agenzia per i profughi, il 27 per cento delle spese di peacekeeping e più di metà dell'attività della Croce rossa. Quest'anno il governo americano ha donato 2 miliardi e 400 milioni di dollari in aiuti umanitari. Negli ultimi quattro anni, ha detto Colin Powell, gli Stati Uniti hanno donato più di tutti gli altri paesi del mondo messi insieme. Dal 1945 nessun paese ha mai donato più degli Usa dentro l'Onu. Nelle prime ore successive al maremoto in Asia, Washington ha finanziato i soccorsi e gli aiuti con una prima e doppia tranche da 35 milioni di dollari, mettendo a disposizione aerei e le navi della marina militare. Nessuno s'è esposto tanto (Francia e Cina 34 volte di meno, la Russia 30).

Eppure un burocrate norvegese dell'Onu, Jan Egeland, ha criticato la scarsa generosità, anzi l'avarizia, di quei leader americani (ed europei) che avrebbero il braccino corto perché impegnati a ridurre le tasse. Il funzionaricchio scandinavo annoti che, anche grazie a quelle politiche fiscali, i cittadini americani, privatamente, donano ogni anno al mondo 34 miliardi di dollari. Una decina di volte l'intero budget annuale delle Nazioni Unite».
Leggi anche: «Onu needs regime change», di Claudia Rosett (Wall Street Journal); traduzione Il Foglio.

Tuesday, December 28, 2004

Chi ha vinto in Ucraina. Una nuova realpolitik

Prende piede in Ucraina e in tutto l'Est ex sovietico un vento democratico, un movimento autenticamente popolare, che promette di realizzare in Europa quell'"effetto domino" che Bush vorrebbe realizzare in Medio Oriente. Faremmo bene ad applicare anche al mondo arabo-islamico le armi che hanno prevalso a Kiev. Si impone come realpolitik una politica che gli strateghi nelle stanze del potere non potranno più liquidare con dei sorrisetti. Gli americani la conoscono, e la praticano da tempo, gli europei dovrebbero...

«People power wins in Ukraine», secondo due autorevoli teorici della nonviolenza, Peter Ackerman e Jack DuVall, che scrivono sul Boston Globe:
«When the people realize they have the power to expose the deceit underlying a government prone to repression, it is the beginning of that regime's end».
Il contributo della nonviolenza nella vittoria della rivoluzione arancione viene sottolineato anche da Adrian Karatnycky, di Freedom House, in «People power triumphs in Ukraine», su NewsDay.
L'Europa ora, scrive sul Times Anatol Lieven, del Carnegie Endowment for International Peace, ha ragioni sia morali che strategiche per spingersi fino all'Ucraina. Una scelta che rappresenta, insieme alla possibile adesione della Turchia, un nuovo "dilemma" per l'Europa.

Quella della democrazia promossa dall'occidente e della voglia di libertà dei popoli è una nuova realpolitik che sta prendendo piede nell'Europa ex sovietica, e di cui anche Putin ha sperimentato la forza dirompente. Il 24 dicembre Il Foglio forniva una lettura molto convincente di ciò che rappresenta la rivoluzione arancione:
«Il voto popolare non è soltanto un diritto, è anche e soprattutto un'urgenza. La piazza "orange" di Kiev l'ha pacificamente dimostrato... La realpolitik continua, come è giusto, ad avere il suo senso, ma è oggi arricchita dalla volontà popolare di avere un peso, l'urgenza della democrazia».
«I voti contano... i frutti si vedono in tutto il mondo... il vento della democrazia soffia su tutta la Terra», sottolinea Giuliano Ferrara:
«I grandi cinici che ritengono che sempre tutto si allineerà alle ragioni di Stato delle grandi potenze, devono incassare l'esito. L'espansione della democrazia, iniziata alla fine degli anni Ottanta con la caduta del Muro di Berlino, ha subito una fortissima accelerazione dopo l'11 settembre del 2001, quando gli americani hanno scelto lo sviluppo della libertà come loro principale obiettivo. Gli equilibri geostrategici basati sull'appoggio a questa o quella autocrazia, gli occhi chiusi di fronte ad aggressivi e feroci dittatori come Saddam Hussein, sono stati messi in secondo piano rispetto all'esigenza di conquistare dovunque libere elezioni che siano di per sé baluardo contro il terrorismo...

La paura, il terrore, il fanatismo sono forze potenti, in certe condizioni invincibili, ma quando la gente comune avverte di potere contare si convince che le grandi decisioni debbano dipendere anche dai suffragi dei singoli, questa consapevolezza avvia una dinamica che supera ostacoli formidabili».
Una lettura completata da altri due articoli. Il «domino dell'Est», sui movimenti democratici e nonviolenti già entrati in azione in Serbia, Georgia, Ucraina, e che potrebbero colpire presto anche in Bielorussia; Il «contagio del Sud», su come l'esempio indiano e alcune nascenti democrazie africane potrebbero sfatare il falso mito delle "democrazie impossibili", confermando così anche le tesi dell'economista indiano, e premio Nobel, Amartya Sen, sostenute nel libro "Lo sviluppo è libertà. Perché non c'è crescita senza democrazia".
«Le democrazie – sostiene Michael Ignatieff nel suo ultimo libro "The Lesser Evil" – commettono spesso l'errore di sottovalutare la propria forza. Nel corso della storia le democrazie hanno saputo vincere guerre, prevalere su tirannidi e totalitarismi e resistere al ricatto terrorista...

Negli ultimi decenni, il progresso della democrazia ha sfatato un altro mito diffuso, l'idea, di origine marxista, secondo la democrazia liberale nasce e cresce soltanto in presenza di determinate condizioni socio-economiche... Peraltro, in diversi paesi africani – dal Sud Africa al Senegal, dal Mali al Botswana, dal Kenya al Ghana – negli ultimi dieci anni, dopo la caduta del Muro di Berlino e con la fine dell'influenza sovietica, la democrazia ha fatto passi in avanti, timidi e incerti sì, ma importantissimi e anche inattesi visto che, nello stesso periodo, la situazione socio-economica e sanitaria avrebbe indotto al pessimismo».
Tuttavia, non bisogna mai dimenticare che:

«Povertà e mancanza di sviluppo non estinguono l'anelito di libertà, ma creano una situazione da cui i più spregiudicati sanno spesso trarre vantaggio. E, se si può essere fiduciosi sulla capacità delle democrazie di resistere al terrorismo degli omicidi politici e, anche, degli attentati suicidi, non possiamo dare per certa la sopravvivenza di leggi e istituzioni democratiche in un paese sottoposto ad attentati persino con armi di distruzione di massa. La democrazia va favorita in medio oriente e riconosciuta e difesa in India, in Africa, in Europa orientale, senza dimenticare l'Europa occidentale».

Count me a "Blair Democrat"

Il più autorevole opinionista liberal, Thomas Friedman (New York Times), invita di nuovo, nel pantano iracheno, a saper distinguere tra le parti in lotta e concentrarsi sulla posta in gioco.
«There is much to dislike about this war in Iraq, but there is no denying the stakes. And that picture really framed them: this is a war between some people in the heart of the Arab-Muslim world who - for the first time ever in their region - are trying to organize an election to choose their own leaders and write their own constitution versus all the forces arrayed against them... As the Johns Hopkins foreign policy expert Michael Mandelbaum so rightly pointed out to me, "These so-called insurgents in Iraq are the real fascists, the real colonialists, the real imperialists of our age".

However this war started, however badly it has been managed, however much you wish we were not there, do not kid yourself that this is not what it is about: people who want to hold a free and fair election to determine their own future, opposed by a virulent nihilistic minority that wants to prevent that».
La cosa terribile è che nonostante il nobile sacrificio di tanti soldati, questa guerra è ancora possibile perderla. Per colpa degli errori commessi da Rumsfeld e dall'amministrazione Bush, degli altri Paesi arabi, e di alcuni europei che «having been made stupid by their own weakness, would rather see America fail in Iraq than lift a finger for free and fair elections there».

Chi meglio ha presente la posta in gioco in questa guerra è invece il primo ministro britannico Tony Blair:
«Whatever people's feelings or beliefs about the removal of Saddam Hussein and the wisdom of that, there surely is only one side to be on in what is now very clearly a battle between democracy and terror. On the one side you have people who desperately want to make the democratic process work, and want to have the same type of democratic freedoms other parts of the world enjoy, and on the other side people who are killing and intimidating and trying to destroy a better future for Iraq».
Parole pronunciate il 21 dicembre a Baghdad. Sul Weekly Standard alcuni estratti del discorso di Blair, qui la trascrizione della conferenza stampa.

Reuel Marc Gerecht fa il punto della situazione sui vari fronti e opzioni che costituiscono «The Struggle for the Middle East». Una lotta che riguardo i suoi protagonisti politici e militari induce qualcuno sul Washington Times a parlare di «New Great Generation», paragonabile alla great generation della WWII.

E' sui passi di Roosevelt, Truman e Kennedy

Jeff Jacoby si rivolge soprattutto a sinistra quando sul Boston Globe ricorda che:
«When Bush calls for waking the Arab world from its nightmare of repression and misrule, he is walking in the footsteps of Kennedy, Truman, and FDR. That's something today's Democratic Party might want to bear in mind».
«The same revolutionary beliefs for which our forebears fought are still at issue around the globe: the belief that the rights of man come not from the generosity of the state, but from the hand of God». Queste parole che si potrebbero ben immaginare uscire dalla bocca del presidente Bush, furono invece pronunciate nel suo discorso di insediamento da John Fitzgerald Kennedy (1961).

«The advance of freedom is the calling of our time. As in Europe, as in Asia, as in every region of the world, the advance of freedom leads to peace», ha dichiarato Bush al National Endowment for Democracy, legando strettamente l'avanzamento della libertà nel mondo alle sorti della sicurezza degli Stati Uniti. Le sue parole suonano come quelle di altri famosi presidenti degli Stati Uniti.
Harry Truman (1949)...
«We believe that all men have a right to equal justice under law and equal opportunity to share in the common good... We believe that all men are created equal because they are created in the image of God. From this faith we will not be moved... Our efforts have brought new hope to all mankind. We have beaten back despair and defeatism. We have saved a number of countries from losing their liberty... Events have brought our American democracy to new influence and new responsibilities. They will test our courage, our devotion to duty, and our concept of liberty. But I say to all men, what we have achieved in liberty, we will surpass in greater liberty».
... e Franklin Delano Roosevelt:
«Democracy alone, of all forms of government, enlists the full force of men's enlightened will» (1941);
«Our own well-being is dependent on the well-being of other nations far away. We have learned that we must live as men, not as ostriches, nor as dogs in the manger... Almighty God has... given our people stout hearts and strong arms with which to strike mightily blows for freedom and truth. He has given to our country a faith which has become the hope of all peoples in an anguished world» (1945)
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Spostato l'asse terrestre. La padrona è tornata

The Incredible TideCentomila anime spazzate via in pochi istanti. Un solo grido assordante per l'intero genere umano.
Ipnotizzati da tutte le menate sui terribili cambiamenti climatici che potremo causare con la nostra tecnologia e dal falso mito del controllo del clima, utopia ambientalista del protocollo di Kyoto. Poi, un evento come questo ci ricorda chi è la vera padrona. Si parla di spostamento dell'asse terrestre, qualcosa cioè che per quelli che sono i miei ricordi scolastici in materia di geografia astronomica ha molto a che fare con il clima del pianeta. Non mi spingo in commenti, o facili catastrofismi, che esulano le mie competenze, ma riporto quanto leggo e ne ricevo un senso di impotenza, in positivo o in negativo, dell'uomo sulla natura.

Il terremoto del 26 dicembre, seguito dal maremoto, è stato talmente violento da modificare in modo considerevole l'inclinazione dell'asse di rotazione terrestre. E' quanto hanno verificato i ricercatori del Centro di Geodesia Spaziale dell'Asi (Agenzia spaziale italiana) di Matera, che stanno elaborando in tempo reale i dati prodotti dalla rete mondiale di telemetria laser satellitare.

I risultati preliminari, riferisce una nota dell'Asi, indicano uno spostamento dell'asse di rotazone terrestre pari a circa 2 millesimi di secondo d'arco, corrispondente ad uno spostamento lineare di 5-6 cm. L'analisi dei dati sta continuando a ritmo serrato per verificare l'effetto prodotto dal sisma su altri parametri terrestri, come la posizione del centro di massa e la forma del campo di gravità. «La variazione osservata è molto piccola e non penso che ci possano essere ripercussioni sul clima. Per avere conseguenze di questo tipo sarebbero necessari spostamenti di gran lunga maggiori», ha spiegato Giuseppe Bianco, ricercatore del Centro.
Fonti: Apbiscom e Ansa
Qui il commento di un geologo americano su Slate.

Da altri blog:
«Con la tecnologia attuale, nell'Oceano Pacifico è già possibile prevedere il formarsi e la direzione dello tsunami, e avvertire i singoli Paesi in appena 20 minuti. L'alto costo degli strumenti e la rarità di questo fenomeno nell'Oceano Indiano ha fatto sì che Paesi come l'India, l'Indonesia, lo Sri Lanka - per non parlare dell'Africa – non si siano dotati di tale sistema computerizzato. Ma grande parte della responsabilità va addossata a una comunità internazionale – Europa in testa - che da decenni ha sposato l'ideologia ambientalista concentrando le risorse finanziarie e scientifiche su un impossibile controllo del clima, piuttosto che sulle possibilità di regolarne le conseguenze, come l'uomo ha fatto per millenni. Certo, un sistema di allarme per lo tsunami può costare diverse centinaia di milioni di dollari, ma è soltanto una piccola parte dei 18 quadrilioni di dollari (seicento volte il Prodotto interno lordo dell'intero pianeta), che l'Onu ha stimato quale costo complessivo dell'applicazione del Protocollo di Kyoto (ovvero la presunzione di poter controllare il clima). E' venuto il momento di dire basta a questa follia ambientalista se davvero vogliamo il bene dell'uomo e dell'ambiente».
Svipop
«E' relativamente facile respingere l'Apocalisse cristiana, negandola in toto e sostituendola con l'idea di un paradiso etico e naturista in terra, ma è molto difficile accettare l'idea della inevitabile apocalisse personale, e l'idea che la natura non è il nostro prodotto, né il nostro Giardino (nel bene e nel male), ma un insieme di forze ingovernabili e non descrivibili soltanto dalla razionalità.
(...)
Dov'è ora il realizzabile paradiso in terra? Quale progresso reca la sostituzione della Città di Dio con lo Stato Etico dei post-socialisti? Ed è davvero vincente velare Cristo con il Grande Nulla degli stoici, di Seneca, dei buddhisti, dei post-socialisti (di nuovo), e infine di chi-sceglie-di-vivere-nella-superficie? Non sembra che la trasfigurazione laica di Dio abbia migliorato la vita "reale". Non sembra che la "legge morale eterna" scalfariana produca una risposte alla domanda di vita, al di là di un Nulla i cui echi cominciano a turbare anche l'al di qua dei singoli e delle società. Ma non ci si preoccupi troppo: si tratta di un frissonement, un veloce brivido. Domani la superficie prenderà il suo dominio sul turbamento».
Paolo di Lautreamont
Spostamenti di palle. «Questa sera tentando di mettere la macchina nel box ho distrutto uno specchietto e rigato la fiancata. L'unica scusa che m'è venuta in mente per non darmi del coglione, è stato lo spostamento dell’asse terrestre. Poi ci ho ripensato: effettivamente sono un coglione»
Quattro Passi
«L'uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c'è bisogno che tutto l'universo s'armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d'acqua basta a ucciderlo. Ma, anche se l'universo lo schiacciasse, l'uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell'universo su di lui... Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. E' con questo che dobbiamo nobilitarci e non già con lo spazio e il tempo che potremmo riempire. Studiamoci dunque di pensare bene: questo è il principio della morale. (Blaise Pascal)
via michelelembo

Sunday, December 26, 2004

E' assurdo de-cristianizzare il Natale

... come ha scritto recentemente Charles Krauthammer sul WP.
Questo articolo di James Q. Wilson per il Wall Street Journal ci ricorda come il principio alla base dei rapporti tra Stato e religioni in America abbia reso religiosi gli americani e laiche le loro istituzioni.
«We are more religious than any European state precisely because in this country there has never been a national church against which to rebel».

Thursday, December 23, 2004

Lo scalpo di Rumsfeld. Non supera il voto del 30 gennaio

L'autorevole esponente neoconservatore William Kristol ha scelto il Washington Post per il suo duro atto d'accusa nei confronti del segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, criticato già da mesi sul Weekly Standard per i suoi errori nella gestione del dopoguerra in Iraq. Subito altri importanti opinionisti americani si sono schierati.

Contro Rumsfeld:
  • Andrew Sullivan, Sunday Times

  • Pro Rumsfeld:
  • John Podhoretz, New York Post
  • Tony Blankley, Washington Times
  • Newt Gingrich, Baltimore Sun


  • Il 23 dicembre un editoriale del Foglio individuava «due errori strategici all'origine dell'affanno americano in Iraq»: sottovalutati il grado di sfacelo socio-politico del paese sotto Saddam e i pericoli iraniani, siriani e sauditi. Trattandosi di problemi ampiamente prevedibili e aggiungendo a questi un terzo fattore - sottovalutata l'importanza di conquistare il cuore e le menti degli iracheni - credo che Bush debba sostituire Rumsfeld all'indomani delle elezioni irachene del 30 gennaio.

    Le urne più potenti delle pallottole? Lo diranno le elezioni del 30 gennaio, scrive il premier iracheno Ayad Allawi sul Wall Street Journal.

    Wednesday, December 22, 2004

    Missione Ucraina

    Tre radicali in missione in Ucraina per la ripetizione del ballottaggio presidenziale, prevista per il giorno di Santo Stefano, il 26 dicembre. Tre "osservatori" radicali inquadrati in Freedom House incontreranno i protagonisti della "Rivoluzione arancione". Speriamo che trovino il tempo di raccontarci in anteprima web quello che vedono. Qualcuno ha passato alcune ore a preparagli un blog apposta.

    Qui un interessante reportage di Anders Åslund, direttore del programma russo-europeo al Carnegie Endowment for International Peace.

    Anche politiche "sciagurate" danno i loro frutti

    E' stata una serie di «eventi disgraziati», sorride David Brooks sul New York Times, ad averci portato oggi a nutrire così tante speranze per il Medio Oriente. Sono state le "sciagurate" politiche messe in atto da Sharon e Bush, odiati e condannati da tre quarti del mondo:
    «It almost makes you think that all those bemoaners and condemners don't know what they are talking about. Nothing they have said over the past three years accounts for what is happening now».
    Bush invece ci ha visto giusto:
    «deduced that Sharon could grasp the demographic reality and lead Israel toward a two-state solution; that Arafat would never make peace, but was a retardant to peace; that Israel has a right to fight terrorism; and that Sharon would never feel safe enough to take risks unless the U.S. supported him when he fought back. Bush concluded that peace would never come as long as Palestine was an undemocratic tyranny, and that the Palestinians needed to see their intifada would never bring triumph... We owe this cautiously hopeful moment to a series of unfortunate events - and to a president who disregarded the received wisdom». Leggi tutto

    Anche Bush può riparare l'immagine dell'America nel mondo

    Negli ultimi 4 anni l'antiamericanismo è cresciuto «drammaticamente» in tutto il mondo, osserva il teorico del soft power, del potere di "attrazione", Joseph Nye, ma Bush (già, persino lui) sembra attento al problema e può «invertire» questa tendenza. Dice di voler costruire istituzioni multilaterali, sta avendo un approccio multilaterale sulle questioni Iran e Corea del Nord. Ma i "se" non sono da poco, Bush ci riuscirà a certe condizioni, un nuovo «test per la sua leadership»:
    «If Bush is able to hold elections and find a political solution in Iraq; if he can show that he is making serious efforts toward his rhetorical goal of creating a Palestinian state living at peace with Israel; and if he can make the style of his foreign policy appear more consultative and less arrogant in the eyes of others, he may be able to reverse the anti-American trends that developed during his first term».

    «When the Right Is Right»

    Il liberal Nicholas D. Kristof si è accorto che su molti temi la "Destra" cristiana è addirittura di sinistra:
    «Members of the Christian right, exemplified by Mr. Brownback, are the new internationalists, increasingly engaged in humanitarian causes abroad - thus creating opportunities for common ground between left and right on issues we all care about. So Democrats should clamber down from the window ledges, roll up their sleeves and get to work on some of these issues. Because I'm embarrassed to say that Democrats have been so suspicious of Republicans that they haven't contributed much on those human rights issues where the Christian right has already staked out its ground». Leggi tutto

    Sunday, December 19, 2004

    Multiculturalismo addio

    Il multiculturalismo ha fallito laddove è divenuto sinonimo di "pluralismo". Anziché concedere spazi di libertà e di diritto ai singoli individui, abbiamo concesso autonomie etnico-confessionali all'interno delle nostre città, quando non veri e propri rapporti privilegiati con lo Stato, ad etnie e gruppi religiosi in quanto comunità. Esse, e non il singolo individuo, sono così divenute le naturali portatrici di istanze meritevoli di attenzione, così ché, in nome di una malintesa tolleranza, abbiamo chiuso un occhio su usanze e comportamenti contrari, non alla nostra cultura, ma alle nostre leggi basate sul rispetto della persona e dei suoi diritti individuali. Così, accusando di "razzismo" chi chiedeva regole e maggiori controlli, abbiamo sacrificato sull'altare del relativismo la possibilità di una vera integrazione fondata su valori politici condivisi.

    E' anche il tema di un'inchiesta pubblicata sul Corriere di oggi da Magdi Allam, che prende spunto dal caso olandese balzato agli onori delle cronache dopo il brutale assassinio del regista Theo Van Gogh:
    «Multiculturalismo, addio. L'idea che fosse sufficiente concedere la libertà a tutte le etnie e a tutte le religioni, nel nome del relativismo culturale, affinché la libertà diventasse patrimonio comune, si è rivelata una mera chimera, l'inesorabile suicidio di una civiltà. Proprio l'Olanda, la patria delle libertà, il laboratorio più avanzato del multiculturalismo, è in profonda crisi. Tutti, a sinistra, al centro e a destra concordano che il multiculturalismo è una scatola vuota di valori, incapace di cementare una identità condivisa».
    In Olanda è oggi riconosciuto da tutti che si è trattato di «un'esperienza fallimentare, un capitolo della storia che deve essere archiviato», ma come mai in Italia ci mettiamo anni ad aprire gli occhi di fronte alla forza dirompente dei fatti? Saranno la strumentalizzazione politica e il conformismo buonista?
    Allam prosegue la sua analisi citando esponenti politici olandesi:
    «E' l'indifferenza dello Stato la causa dello sviluppo dell'estremismo islamico. Qui i marocchini non possono continuare a vivere come vivevano nel Rif. Devono cambiare le loro abitudini. Eppure noi non vedevamo l'enorme gap culturale. Credevamo che acquisendo la nostra cultura avrebbero perso parte della loro. In più non siamo stati chiari sulla nostra cultura, sui loro doveri. Non siamo stati severi. Abbiamo avuto troppa fiducia in noi stessi.
    (...)
    La società multiculturale non esiste. E' un'idea sbagliata. E' piuttosto una società multietnica, ci sono molti gruppi etnici, circa 187 nazionalità ad Amsterdam. Se si pensa a una società multiculturale si pensa a un melting pot, a un crogiolo, ma non è il nostro caso. Da noi non c'è fusione, non c'è compenetrazione».
    C'è stata «troppa tolleranza, che forse non era vera tolleranza, ma una sorta di indifferenza», si accorgono oggi gli olandesi. Da noi cos'è? Anche da noi si fa della tolleranza a buon mercato, una spasmodica rincorsa a conformarsi, una gara a chi si dimostra più "buono" con i diseredati e non importa se occorre accantonare i problemi veri, perché apparire "buoni e giusti" è ciò che conta.

    Conclude Magdi Allam:
    «Si è infranto un mito che per oltre mezzo secolo ha affascinato e illuso, è crollato un altro muro ideologico dietro cui si celavano l'ingenuità dell'Occidente e la malizia di quanti in un modo o nell'altro mirano a distruggere la civiltà dell'Occidente».
    I neocons negli Stati Uniti, da tenaci sostenitori dei diritti civili, non hanno mai creduto al mito del multiculturalismo. Sull'argomento anche un'interessante articolo di Michael Ledeen e una riflessione di Marco Pannella a Radio Radicale:
    «Se multiculturalismo significa creare situazioni concordatarie con organismi detti rappresentativi di ambienti religiosi o altro, sono contrario. Il pluralismo è un valore che non ritengo tale, sono sulle posizioni di Martin Luther King: gli individui vanno tutelati nei loro diritti e quanto più sono negati, tanto più è un problema generale di tutti gli individui».

    Person of the Year

    George W. BushE' George W. Bush la persona dell'anno di Time per il 2004. Per non «aver mai mollato, né le armi, né i principi... perché ha cambiato le regole della politica per adattarle al suo stile di leadership da generale, e per aver persuaso stavolta una maggioranza di elettori che meritava di restare alla Casa Bianca per altri quattro anni», scrive il direttore Jim Kelly, consapevole di aver scontentato molti lettori: «Ma anche chi non ha votato per lui deve riconoscere che Bush è uno dei presidenti piu influenti degli ultimi 50 anni».

    E' dal 1927 che Time, nel numero in edicola a fine dicembre, dedica la sua copertina all'uomo, la donna o l'idea che più hanno influenzato i precedenti 12 mesi. Una prima pagina sulla quale abbiamo visto stampati i volti di Lindbergh, Mahatma Gandhi, John F. Kennedy, Rudolph Giuliani, ma anche di Stalin, Adolf Hitler e dell'ayatollah Khomeini. Si tratta della seconda volta per Bush jr. (2000) e anche suo padre aveva avuto l'onore delle cover di Time di dicembre (1990).

    Time ha premiato anche il blog dell'anno, Powerline.
    Fonte: Ansa

    Gli Indifendibili

    «Il rinvio alle Camere della legge sull'ordinamento giudiziario da parte del capo dello Stato è un'opportunità che il Parlamento dovrebbe sapere cogliere», scrive oggi sul Corriere della Sera Piero Ostellino, che però, rivolgendosi alle opposizioni, definisce indifendibile l'assetto attuale della giustizia italiana:
    «Ma lo status quo non merita di essere difeso. Soprattutto, non merita di essere difesa l'interpretazione rigida del dettato costituzionale che attribuisce al Consiglio superiore della magistratura il monopolio assoluto sulle carriere dei magistrati in ogni loro aspetto. Poiché è impossibile, e del tutto innaturale in qualunque circostanza, che gli "eletti" (tali sono i membri del Csm) siano in grado di controllare i loro elettori, il risultato di questo sistema è stata la fine di ogni serio controllo e, come diretta conseguenza, la fine di ogni responsabilità.
    (...)
    È indubbio che scopo principale della riforma Castelli sia di indebolire/ridimensionare il ruolo del Csm. Ma questo, di per sé, non è un obiettivo sbagliato. È possibile conseguirlo senza minare l'indipendenza del giudice? Sicuramente sì. È possibile, inoltre, conseguire l'obiettivo senza passare attraverso una riforma della Costituzione? Su quest'ultimo punto i pareri sono divisi».

    Saturday, December 18, 2004

    Verso una "nuova" identità europea

    bambino turco sventola bandieraL'identità è qualcosa che si costruisce nel tempo, esercitando il nostro libero arbitrio, è il frutto delle nostre scelte, di una progettualità. La scelta di avviare i negoziati di adesione della Turchia all'Ue segnerà in un senso o nell'altro, a seconda del loro esito, l'identità europea, da una parte rafforzando talune nostre eredità a scapito di altre, dall'altra aggiungendo elementi di novità.

    Le cronache riferiscono del grande entusiasmo con il quale i turchi incollati alle tv hanno atteso ieri il fatidico "Sì", senza però «dimenticare i contrastanti umori dei futuri partner». Gli osservatori più autorevoli e acuti non si fanno illusioni circa i vantaggi economici che questo passo storico potrà produrre, ma ciò che importa di più è «avere un preciso punto di riferimento. Appartenere alla grande famiglia dell'Unione aiuterà a consolidare la nostra democrazia, a diffondere la cultura del rispetto dei diritti umani e potrà offrire condizioni di vita migliori».

    Tuttavia, come mi appariva chiaro fin da subito, e osserva oggi Franco Venturini sul Corriere, «malgrado il diluvio delle congratulazioni reciproche, sono stati i dubbi generalizzati, i paletti piantati ovunque», i veri protagonisti della giornata di ieri alla Rond-point Schuman di Bruxelles.

    Al messaggio politico che la Turchia moderna porta con sé, di capitale importanza nel mondo di oggi, e cioè che Islam e democrazia sono conciliabili, l'Europa ha risposto sollevando in modo pretestuso il problema irrisolto (da Annan) della divisione di Cipro e superato poi con un inevitabile capolavoro di ambiguità diplomatica. Ma «da quel momento non si è più parlato di grandi progetti». Il problema dell'identità europea è un problema che l'Europa - la Vecchia Europa soprattutto - ha con se stessa, è il problema di un'identità percepita a cui troppo spesso non seguono fatti, progetti, grandi visioni coerenti con essa. Di questo non possiamo incolpare i turchi.
    «Il problema non è più di sapere se la Turchia debba entrare un giorno nell'Unione (troppo laceranti sarebbero le conseguenze di un "No" sullo scacchiere islamico-mediorientale) bensì di capire per tempo quale Unione possa accogliere la Turchia dopo il 2014».
    Giuliano Ferrara nel suo editoriale di oggi ricorda che i più attivi sostenitori dell'apertura alla Turchia, Bush, Blair, Berlusconi e Israele, «sono precisamente le forze che hanno teorizzato e praticato una risposta di autodifesa attiva dell'occidente di fronte alla guerra portatagli dagli islamisti fondamentalisti» e che «le loro opinioni non sono deboli né sospette». Ci ricorda che è in gioco la «collocazione internazionale» di un paese, la Turchia, «che fino ad ora è stato con molte ambiguità un bastione antifondamentalista e a suo modo occidentalista», da mezzo secolo integrato lealmente nella Nato.

    Poi però ci avverte che «non si decide la storia senza coinvolgere i popoli» e per questo appoggia l'idea di un referendum sull'ingresso della Turchia. Sarebbe un trattamento senza precedenti, ma è anche vero che si tratterebbe di un'adesione dal carattere unico e non paragonabile a quelle già avvenute. Osservo solo che parlare di referendum oggi, e non alla fine dei negoziati, è un po' come brandire una minaccia, lo fa Chirac, lo fanno gli austriaci. Ma forse, come prevede Pannella, fra qualche anno sarà l'Europa a supplicare la Turchia di entrare e allora potrò dire anch'io «sì al referendum».

    Niente di più e di meno di una cultura politica illiberale

    Piero Ostellino, oggi sul Corriere della Sera, indaga l'ampia «zona grigia» di cui è affetto il nostro Diritto. A partire da quel reato inconcepibile del «concorso esterno in associazione mafiosa», che «conferisce alla magistratura un eccessivo potere discrezionale, incoraggiandola a farne un uso improprio, cioè a trasformarla in uno strumento di lotta politica».

    Esiste infatti il paradosso logico di come può colui che è associato a qualcosa esserlo solo "esternamente". Esiste poi il problema giuridico di un reato che colpisce una libertà costituzionalmente garantita, la libertà di associazione, mentre a definire illecita un'associazione non dovrebbe essere un aggettivo, ma precisi fatti criminali che però - quando isolati e individuate le responsabilità - sarebbero sufficienti a sanzionare il reo e, in caso, a sanzionarlo se quei fatti ne dimostrano l'appartenenza ad una organizzazione criminale.

    Ma Ostellino intende andare oltre queste ambiguità e denunciare la cultura politica che ha partorito questo mostro giuridico, indivuduando «due diversi modi non tanto di guardare alla funzione della Giustizia quanto al tipo di società nella quale si vuole vivere».
    «Il primo modo pone al centro della sua speculazione l'individuo e la sua libertà. Il secondo pone al centro della sua speculazione la società e la sua necessità. E allora è forse venuto il momento di alzare il tiro e, invece di scandalizzarsi di fronte all'ambiguità dei casi di associazione "esterna" alla mafia, di denunciare una cultura politica che, sul piano del diritto, rivela la sua natura intimamente illiberale. Dalla Costituzione ai Codici la Patria del Diritto è immersa in una zona grigia, pre-ordinata secondo una precettistica meta-giuridica che, lasciando al potere margini di interpretazione amplissimi, gli consentirebbe di trasformare il Paese...

    Il magistrato che condanna per eccesso di legittima difesa l'esercente che, per difendere il proprio diritto di proprietà, ha ucciso il rapinatore ubbidisce al criterio meta-giuridico che minacciare la proprietà non è come minacciare la vita. Lo stesso criterio secondo il quale, per il pacifista, neppure la difesa della libertà giustifica il ricorso alla forza. E' questa la società nella quale vogliamo vivere?»

    I Democratici si guardano in faccia

    Stralci dell'intervista di Christian Rocca a Martin Peretz, editore e direttore della rivista liberal New Republic, nella quale si fanno i conti - onesti - con i problemi del Partito Democratico:
    «Per prima cosa i democratici dovranno riconoscere chi sono i nostri amici e individuare i nostri nemici. Poi dovranno comprendere che il totalitarismo islamista è una minaccia seria almeno quanto il totalitarismo sovietico. Se non lo faranno, sarà difficile che tornino alla Casa Bianca.
    (...)
    Il punto è che in America, come ovunque, i liberal hanno un problema con la religione: la disprezzano. E questo atteggiamento fa perdere il consenso di chi sta con i Democratici su altri temi. Capita la stessa cosa con il patriottismo».
    Anche nella sinistra americana l'Onu ha perso tutto il suo credito, ma in Italia siamo un po' ritardati:
    «L'Onu è avviata sulla stessa strada della Lega delle Nazioni, cioè alla chiusura. Non è interessata alla giustizia. La Carta delle Nazioni Unite, per dirne una, avrebbe difeso la Polonia dall'aggressione della Germania nazista. E' una Carta che protegge l'integrità territoriale degli Stati membri, ma la maggior parte degli Stati membri non è composta da vere nazioni. I peggiori orrori del mondo capitano lì. Ma l'Onu non ha mai avuto la voglia e la capacità di affrontarli».

    Friday, December 17, 2004

    Ecco la data X per l'Europa che non vede le sue fortune

    Assicurato un risultato storico "nonostante" questa Europa

    Pur di non esprimere un "Sì" pieno ed entusiasta all'avvio dei negoziati con la Turchia, i leader europei si sono attaccati in modo pretestuoso alla questione Cipro. Così, ancora una volta, si sono dimostrati incapaci di darsi una visione e di dare forza e valore ai decisivi interessi strategici ai quali il legame nato oggi tra Ue e Turchia risponde, per l'Europa, per la guerra al fondamentalismo islamista, per il mondo libero, e, in prospettiva, per il nuovo Medio Oriente.

    Inoltre, la clausola dell'accordo «in caso di esito negativo dei negoziati si cercherà di ancorare la Turchia alle strutture europee con il più forte legame possibile» non può che rassicurare se letta in buona fede, ma può anche nascondere una trappola. E' vero che l'apertura di negoziati che saranno lunghi e difficili non assicura di per sé il loro esito positivo, ma non si può nascondere dietro questa legittima cautela un tacito obiettivo minore che non ha altro scopo se non quello di preparare un fallimento senza doversene assumere la responsabilità.

    Sembra proprio questo il disegno del presidente francese Jacques Chirac. Oggi ha subito raffreddato gli entusiasmi ricordando che «negoziato non vuol dire adesione», che sarà un processo «lungo e difficile», che «ci vorrà ogni volta l'unanimità dei 25 per aprire e chiudere i vari capitoli» e che «ogni Paese può mettere fine al negoziato» non solo sulla base di gravi violazioni o inadempimenti da parte turca, ma anche solo «se le proprie opinioni pubbliche e i suoi governi lo desiderano».

    Oggi tuttavia possiamo non curarci di monsieur Chirac, degli scettici, delle trame di chi rema contro e minaccia referendum popolari, poiché, come prevede Pannella, fra qualche anno sarà l'Europa a supplicare la Turchia di entrare. Il passo decisivo è stato fatto.

    Quella convergenza per un'Alleanza delle Democrazie

    Stralci dell'intervista di chro e mv al neocon "moderato" David Brooks, editorialista sul liberal New York Times, e al neocon "falco" Joshua Muravchik, dell'Aei.
    «Le Nazioni Unite sono fallite completamente, se si considera il motivo per cui sono nate: difendere la pace e la sicurezza internazionale. Credo che il fallimento sia irreversibile. Le proposte di riforma presentate nei giorni scorsi non risolvono nulla. Una parte del lavoro dell'Onu va preservata, anzi rafforzata, ed è quella che riguarda gli sforzi umanitari. Ma il Consiglio di sicurezza e l'Assemblea generale andrebbero aboliti e, come sostengono i due liberal Ivo Daalder e James Lindsay, magari sostituiti con una nuova alleanza delle democrazie».
    Joshua Muravchik
    America nazione unita.
    «Oggi in America si discute di leadership, del modo di guidare un paese. Tra i democratici, da Kerry a Gore a Clinton a Dukakis, c'è uno stile costante: gente colta, esperta, che sa esprimere tutte le sfumature possibili per comprendere la complessità del mondo. I repubblicani, invece, da Reagan a Bush non mettono mai l'accento sulla complessità, piuttosto su valori semplici e solidi... non esistono due Americhe, non siamo un paese diviso in due culture rivali. Condividiamo lo stesso modello di vita. Semplicemente discutiamo su chi sia più adatto a guidare il paese: chi è incline alla complessità o chi ha fede nelle cose che ha fatto nella vita».
    David Brooks
    La religiosità del presidente.
    «Molti fraintendono la religiosità del presidente. la sua religiosità non si riflette sulla sua politica, né in politica estera né in politica interna. E' un liberale, non vuole giudicare le persone. Non sarebbe neanche intervenuto sui matrimoni gay se non fosse stato costretto dalla sentenza del Massachusetts e dai suoi consiglieri politici, i quali hanno visto nell'attivismo dei giudici un'opportunità politica da sfruttare».
    Sull'aborto, dice Brooks e conferma Muravchik, Bush non ha mai spinto per renderlo illegale: «Su questi temi, se ci pensate, Bush è molto più a sinistra dei leader europei». Infatti il divieto di "nascita parziale" introdotto da Bush all'inizio dell'anno, in Italia è vietato da sempre. Mentre le adozioni gay, aggiunge Muravchik, le stesse che vorrebbe introdurre il premier spagnolo Zapatero, in America sono possibili.

    America ed Europa, quite different.
    «In termini di valori, noi americani dobbiamo fare i conti con un investimento di tipo religioso nel civismo e nella politica. Forse la principale differenza con l'Europa sta nel fatto che per noi la politica estera tocca direttamente la dignità umana, la libertà dell'individuo, la democrazia».

    Il pretesto di Cipro spiega la viltà di questa Europa

    Scriveva ieri Giuliano Ferrara che bisogna appurare se l'Europa sia degna della Turchia, e non il contrario. La conferma arriva oggi dal ridicolo ostruzionismo messo in atto in queste ore al Consiglio europeo. Lo scoglio all'avvio dei negoziati di adesione della Turchia sembra ora il riconoscimento di Cipro da parte di Ankara. Dietro questo scoglio però si cela, senza neanche il coraggio di sostenerlo in modo trasparente, la volontà di alcuni membri dell'Ue con la Francia in testa di lasciare aperta la possibilità che i negoziati portino non ad una piena adesione, ma semplicemente ad una partnership privilegiata.

    Ovviamente i turchi a queste condizioni non ci stanno: «Vogliamo che i negoziati possano o fallire punto e basta, o arrivare alla piena adesione, senza "ruote di scorta" che potrebbero minare i negoziati già sul nascere». L'apertura di negoziati che saranno lunghi e difficili non assicura di per sé il loro successo, ma non si può nascondere dietro questa ovvia considerazione un tacito obiettivo minore che non ha altro scopo se non quello di preparare un fallimento senza doversene assumere la responsabilità.

    Inoltre, i turchi sono disponibili verso la questione del riconoscimento di Cipro, ma non se utilizzata come condizione capestro dell'ultima ora che oltretutto rappresenta un'umiliazione diplomatica. «La questione di Cipro va risolta, ma in un contesto separato e non come vincolo all'avvio dei negoziati», spiegano fonti diplomatiche turche.

    Thursday, December 16, 2004

    Sotto l'albero...

    Idee regalo. Quest'anno voglio essere buono per Natale. Ecco alcuni consigli se intendete essere anche voi generosi sul posto di lavoro. Una bottiglia di Fernet Branca per ripartire ogni mattina di slancio, il dvd Fuga da Alcatraz per ogni evenienza, una scatola di costruzioni (base) è l'ideale per sviluppare la creatività, una confezione gigante di Dove per chi fa sentire troppo la propria presenza, un bel kit di coltelli in legno (il modello carighedda è il mio preferito), perché a qualcuno non bastano mai. Si accettano suggerimenti...

    Wednesday, December 15, 2004

    Ora Europa e Nato offrano delle prospettive all'Ucraina

    A chiederlo sono due autorevoli esponenti sia di area neocon che di area clintoniana.

    I neocons. In questo articolo sulla Orange Revolution in Ucraina, Tod Lindberg, sul Washington Times, ricorda - a dispetto del discredito gettato sull'influenza esercitata dall'occidente nella crisi politica - che l'impegno delle organizzazioni occidentali pro-democracy non avrebbe avuto effetto se la voglia di libertà e democrazia non fosse spontaneamente radicata nel popolo ucraino.
    «But if this was "people power" on the streets of Kiev, let us not shrink from another set of relevant facts: that the Orange Revolution is something proponents of democracy, liberalization and political reform in the United States and Europe sought and worked for in Ukraine and supported morally and materially. The opposition was the only hope for securing political freedom in Ukraine, and this fact was well understood by Ukrainian as well as Western non-governmental organizations and party-building enterprises active there».
    Ora però, avverte Lindberg, l'Europa deve dare seguito a quel potere di "attrazione" che mostra e dice di avere non negando all'Ucraina una prospettiva di integrazione che per molti Paesi dell'Est ha significato la realizzazione di importanti riforme politiche e il consolidamento della demcorazia:
    «The EU rightly prides itself on its ability to "export" democracy to its neighbors through the power of attraction — its accession process... It would be a tragedy if the courageous Orange Revolutionaries, so strongly and rightly supported by friends of freedom in the West, subsequently knocked on the doors of Western institutions only to find them barred. Freedom is perishable. We who enjoy it need to maintain our commitment to it».

    I clintoniani. Anche Richard Holbrooke, ambasciatore clintoniano alle Nazioni Unite, in questo articolo sul Washington Post avverte: è solo l'inizio, non la fine, di una trasformazione democratica, che deve essere completata dall'uscita dallo «spazio russo» e dal conseguente accoglimento dell'Ucraina nella Nato e nell'Unione europea.
    «Ironically, Putin's heavy-handedness, so reminiscent of the Soviet era, is likely to have an effect opposite to its intent -- and to accelerate Ukraine's quest for NATO and E.U. membership. As one of Yushchenko's closest advisers put it, "After what Putin has already done, how can we afford to risk floating between East and West?"»
    Per l'Ue il problema è più complesso, ma l'integrazione nella Nato può divenire realtà in breve tempo, e Putin non potrebbe che accettare il fatto:
    «The path of NATO enlargement, so thorny and mysterious when we embarked on it in 1994-95, is now well understood. It has paid off handsomely for U.S. and European security and for its new members -- and it has not destroyed relations with Moscow. It may seem a long way from the "tent city" in Kyiv to NATO, but because of those idealistic young demonstrators, the trip has begun. The logic of the situation is turning the once-unthinkable into the inexorable».

    Abu Mazen parla da moderato

    Abu Mazen si prepara alle elezioni del 9 gennaio per la successione di Arafat e parla da moderato: «La rivolta è il legittimo diritto del popolo ad esprimere il proprio rifiuto dell'occupazione con mezzi sociali e popolari». Ma «usare armi nell'Intifada è stato un errore» e questo errore «deve cessare». Queste le dichiarazioni al quotidiano arabo stampato a Londra Ashraq al Awsat.
    Fonte: Adnkronos

    Resta da vedere se, come Arafat, i suoi comizi avranno esiti diversi se pronunciati in inglese o in arabo. Qui il parere di Joseph Biden, il senatore democratico più autorevole su Medio oriente e politica estera, che avanza dei consigli ad Israele e Stati Uniti su come rafforzare la posizione "moderata" di Abu Mazen in seno alle faide palestinesi:
    «Arafat had the capacity to make peace, but lacked the will. Abbas has the will, but does he have the capacity to overcome violence, corruption and the sense of victimization that are a legacy of Arafat's leadership?
    Israel, the United States and the international community have a shared responsibility to help him build a capacity for peace»

    Una proposta antiproibizionista

    Camillo ci segnala questo articolo di Christopher Hitchens su Slate dal titolo «Let the Afghan Poppies Bloom». Spiega come e perché la cosiddetta guerra alla droga danneggi la guerra al terrorismo e avanza una proposta... antiproibizionista. Da leggere.

    Nati in questo mondo

    Nella rubrica "Lettere private", su questo sito, colonna di destra:
    Mi chiedo come sia possibile che colui che "saccheggia" i domini dei siti dell'area radicale allo scopo di porre in essere un ricatto politico risulti sui libri paga di via Principe Amedeo e venga incaricato di ristrutturare il sito di Radio Radicale, mentre chi vi lavora da anni con passione e lealtà viene messo alla porta. Questo è il mondo che ho toccato con mano e verso il quale dovrò aprire una riflessione "radicale".

    Monday, December 13, 2004

    La maschera di una democrazia debole

    Aumentano gli episodi di intolleranza nelle Università italiane. Esiste una sinistra anti-democratica. Profondamente anti-democratica. Che gode della "comprensione" ideologica delle istituzioni. Che gode di un'impunità fondata sulla pretesa superiorità morale di lotte contro le ingiustizie che in verità producono sempre ingiustizie supreme e prevaricazione. Va riconosciuto ed è un fardello di cui qualcuno dovrebbe farsi carico.

    Lo scorso 14 ottobre Il Foglio ha denunciato l'aggressione ai danni di Shai Cohen all'Università di Pisa. Questa mattina è toccato alla Facoltà di Scienze politiche dell'Università Roma Tre, dove i "democratici" (!) sono entrati in azione cercando di impedire al ministro Alemanno di partecipare ad una conferenza sugli ogm. L'azione era annunciata da un volantino: "Basta fascisti all'Università".

    Sono stato per 4 anni rappresentante degli studenti in quella Facoltà. Conosco bene il rettore Guido Fabiani e il preside Luigi Moccia, che nei confronti di simili episodi hanno per anni adoperato il sistema dei "due pesi, due misure", guardandosi bene dal prendere seri provvedimenti quando gli atti di intolleranza e violenza provenissero da ambienti di sinistra o estrema sinistra. Eppure tutti sapevano quali fossero gli elementi da isolare e punire all'interno delle facoltà, altro che le solite «componenti esterne» dietro cui si nasconde la propria colpevole impotenza. Non vorrei prevalesse una certa "comprensione" ideologica verso i "compagni che sbagliano". Rammarico.

    Già lo scorso anno il rettore di Roma Tre si rese protagonista di una iniziativa fuori-legge: la chiusura delle attività didattiche motivata dal dover incoraggiare la partecipazione di tutte le componenti dell'Ateneo alle manifestazioni contro la guerra in Iraq. Oggi di nuovo la scelta di sospendere le attività didattiche, impedendo a centinaia di studenti l'esercizio di quel diritto allo studio di cui tanto ci si riempie la bocca, è una sconfitta per l'Ateneo e per la forza pubblica, che non hanno saputo garantire l'esercizio della libertà d'espressione, cedendo invece al ricatto violento di chi vuole impedirla. Il rettore di Roma Tre e il preside di Sc. Politiche incarnano così la resa di istituzioni corrotte e corruttibili.

    Democratic Providentialism

    «Democrats, who once were heirs of big dreamers like Franklin Roosevelt and Woodrow Wilson, risk becoming the party of small dreams, while the Republicans, who under Nixon and Kissinger seemed determined to divest foreign policy of high moral purpose, have become the party that wants to change the world.
    (...)
    Another question mark over the administration's commitment to democracy abroad is its attitude toward democracy at home. Democracy is something more than red-state majority rule. The democratic faith also requires respect for the judiciary, deference to constitutional separation of powers, decent respect for the opinions of mankind, not to mention democratically ratified treaty law like the Geneva Conventions and, last but not least, the humility that goes with knowing that you serve the people, not a providential design that only you and other true believers can understand.
    (...)
    But while you may not like the providential aspect of democratic providentialism, it remains true that the promotion of democracy by the United States has proved to be a dependably good idea». Leggi tutto
    Michael Ignatieff (New York Times Magazine, 12 dicembre)

    Friday, December 10, 2004

    Malati terminali di buonismo e veltronismo

    Sono tempi davvero duri, una dittatura psicologica opprime i nostri neuroni. Il conformismo, l'ipocrisia, il politically correct regnano in tutti i campi della nostra vita sociale e politica.

    Vieto il presepe a scuola, "virtù" invece di "Gesù" nella canzoncina natalizia, piani scolastici che sembrano il programma dei Verdi. Poi le strumentalizzazioni. Fa comodo agli uni e agli altri discutere di radici sotto attacco, di scontro fra culture, di complotto anticristiano. Fa comodo porla in questi termini distorti: sia a chi cerca di trarre vantaggio elettorale richiamandosi a valori largamente condivisi, sia a chi sente di dover difendere a spada tratta uno spirito d'integrazione e di tolleranza che nessuno si sogna di mettere in discussione e che è ben saldo nella nostra società.

    La vera questione riguarda lo stato di abbandono in cui versa la scuola pubblica di ogni grado e livello, la povertà culturale e intellettuale di un'intera classe di insegnanti messa a nudo da scelte semplicemente, quindi più gravemente, idiote. Più gravemente perché, scrivevo in questo post di qualche giorno fa, non frutto di attacchi premeditati ai valori o di complotti ai danni della nostra identità. Questa volta a colpire non è il "laicismo" (nun ce provate!), ma è un'altra malattia, è il buonismo, il veltronismo, sono le persone perbene che non vogliono far politica, ma beneficenza... maledetti siano la beneficenza e il pietismo. Sono le stesse maestrine casa-chiesa-volontariato "equo e solidale", un po' cattoliche e un po' diessine, che mesi fa esponevano bandiere arcobaleno dalle finestre delle classi pretendendo di insegnare così ai loro alunni la pace... quella di Monaco '38.

    Cacciate quella maestra ignorante, perché l'Islam si ritiene un superamento, non una negazione del cristianesimo e della "sacralità" di Gesù. Dunque un problema che riguarda il ministro Moratti, non gli imam o i preti, che vanno fin troppo a braccetto. Nella scuola italiana c'è una tale concentrazione di mentecatti da rendere vano ogni progetto di riforma abbandonato nelle loro mani. Una professione vissuta per decenni dal potere democristiano come valvola di sfogo alla richiesta di lavoro femminile; poi l'ondata di sessantottini falliti che si sono riversati nelle aule. Libertà d'insegnamento è divenuta sinonimo di arbitrio del singolo docente, e l'autonomia sinonimo di autogestione. Occorre rinnovare il "parco insegnanti", con provvedimenti disciplinari fino al licenziamento negli episodi più miseri, con prepensionamenti, con lo stop del turn over proprio a partire dalla scuola pubblica, rivedendo i criteri di accesso alla professione e di avanzamento.

    Dove fallisce il multiculturalismo. Al contrario che negli altri paesi europei, in Italia iniziano solo ora ad affiorare i problemi dell'integrazione e le ricette multiculturaliste, ma siamo da un lato i più preparati, dall'altro i meno, ad affrontarli. Più preparati per il buon senso, la tolleranza, l'apertura e l'umanità "accogliente" che ci contraddistinguono, meno preparati per la cultura concordataria del nostro Stato. Il multiculturalismo ha fallito laddove è divenuto sinonimo di "pluralismo". Anziché concedere spazi di libertà e di diritto ai singoli individui, si concedono rapporti privilegiati con lo Stato ad etnie e gruppi religiosi in quanto comunità. Esse, non il singolo, sono portatrici di istanze meritevoli di attenzioni, così ché vengono legittimati usanze e comportamenti contrari, non alla nostra cultura, ma alle nostre leggi basate sul rispetto della persona e dei suoi diritti individuali. Sacrificata all'altare del relativismo la possibilità di un'integrazione fondata su valori politici condivisi.

    Thursday, December 09, 2004

    L'Europa vende la faccia alla Cina: fermiamoli!

    Hu Jintao e CiampiIn questa Europa entrerebbe prima la Cina che la Turchia. Solo i radicali denunciano il silenzio sui diritti umani, ma per quanti di loro, Pannella compreso, l'influenza del complesso militare-industriale è problema americano e non soprattutto europeo?

    Francia, Germania, e ora l'Italia, sono favorevoli alla revoca dell'embargo che nel 1989 l'Unione europea pose nei confronti della Cina come conseguenza del massacro di piazza Tiananmen, nella repressione del movimento democratico.
    Tutti i perbene che scattano in piedi a denunciare gli americani e le loro guerre, fatte per arricchire l'industria delle armi - con le quali, nel bene e nel male, popoli oppressi tornano a eleggere i propri governi o fuggono ai massacri - tutti quei perbene sono rimasti ben incollati alle loro sedie ora che la Vecchia Europa renana, incredibilmente con l'Italia fascista di Ciampi e Fini, promette di tornare a vendere armamenti alla Cina, uno dei regimi più violenti, oppressivi e pericolosi - anche per le sue dimensioni - della storia. Nutrendo solo l'illusione di recuperare i colpevoli ritardi nel mercato asiatico.

    Dunque che succede? La cattiva Washington in mano agli affaristi rinuncia al commercio di armi con la Cina e l'Europa predica di pace e saggezza seminando vento per nuove tempeste? Anziché scoprire la necessità di una visione più strategica della sua politica di allargamento, come sottolineato da osservatori americani considerato l'esito della crisi ucraina, e come imporrebbe la grande occasione che si presenta con l'avvio dei negoziati di adesione con la Turchia, l'Europa italo-renana si volge all'oriente, trovando nella Cina un «partner da sostituire agli Stati Uniti... Pechino salvi l'Europa da Washington, dopo che Washington l’ha salvata da Mosca», leggiamo sul Foglio.

    Attenzione. Non sono tra quei sognatori che hanno un approccio moralistico alla politica estera, rifiutandosi di concepire il gioco degli interessi nazionali. Ma sono tra quei realisti che vedono l'interesse primario alla nostra sicurezza perseguito attraverso il "bastone" della democrazia e dei diritti umani e non la "carota" del Dio denaro. Né sosterrei mai di arrestare gli scambi commerciali; anzi, lo scambio di beni è sempre scambio di valori, materiali e culturali. In questo caso però stiamo per armare nuove crisi regionali e mondiali, come l'oppressione di interi popoli.

    Italietta d'Oriente. La figura dell'Italietta poi è ridicola. In cambio, pare, la Cina appoggerà la tesi italiana sulla riforma dell'Onu, di escludere cioè nuovi membri permanenti, ma già si sa che Pechino non permetterà al Giappone di sederle accanto. A chi andrebbe inoltre la maggior fetta dei 65 miliardi di dollari stanziati quest'anno per la Difesa dal governo cinese? Al complesso militare-industriale prevalentemente franco-tedesco. Bell'affare, tutto sommato al "modico" prezzo di veder allargare il divario tra le due sponde dell'atlantico.

    In un post che avevo intitolato «Una morte lenta per la Nato» segnalavo un articolo uscito sul Washington Times a commento della visita di Chirac in Cina, a metà dell'ottobre scorso:
    «Riprendere a vendere armi alla Cina porrebbe un seria ipoteca sulla cooperazione Usa-Ue in materia di difesa. Se i governi europei cominceranno a condividere con Pechino delicate tecnologie militari, Washington dovrà bloccare alle industrie europee l'accesso a diverse teconologie di difesa, con seri danni per le sorti della Nato». Leggi
    Nell'ipotesi di un futuro conflitto per l'isola Taiwan, l'aviazione cinese potrebbe attaccare le forze militari americane con Mirage francesi!

    Presidente Ciampi, per lei chiedo l'impeachment. C'è infine una questione costituzionale per lo più sfuggita alle cronache di questi giorni, ma non di poco conto. Non riguarda certo la visita in sé, quanto le aperture, strettamente politiche, fatte da Ciampi al leader cinese Hu Jintao durante il suo viaggio. Quale, di grazia, l'articolo della Costituzione italiana dal quale si evince che la politica estera è prerogativa condivisa tra governo e presidente della Repubblica? Il presidente viola, come spesso accade ma stavolta in modo clamoroso e pericoloso, la Costituzione, che gli assegna un ruolo diplomatico di semplice rappresentanza e buone relazioni. Eppure, siccome Ciampi sta simpatico ai "perbene", si fa finta di niente, tutto gli è perdonato al simpatico vecchietto, e mandiamo pure i cervelli in stand-by.

    Monday, December 06, 2004

    Divisione dei compiti: il "soft power" all'Europa

    Nuovi basi per un'alleanza transatlantica

    Per una volta, brava Europa! Gli applausi alla cooperazione transatlantica dimostrata durante la crisi politica in Ucraina giungono addirittura dal neocon Robert Kagan. In un articolo sul Washington Post si spinge a dire che «forse questo è il reale futuro della cooperazione transatlantica». Una spartizione dei compiti tra Stati Uniti ed Europa, riconoscendo a quest'ultima - che con l'attuale politica estera all'insegna dell'allargamento esercita tutto il suo soft power - un potere effettivo "di attrazione" nei confronti delle are di crisi confinanti: Medio Oriente, Balcani, ex repubbliche sovietiche.

    L'America può quindi abbracciare la «nuova entità postmoderna che l'Europa è divenuta», spiega Kagan:
    «Se non per il commercio, l'Europa non è più un attore globale nel tradizionale senso geopolitico di proiettare potere e influenza molto al di là dei suoi confini... Gli americani dovrebbero seppellire una volta per tutte i timori assurdi di veder sorgere una superpotenza europea ostile. (...) La crisi in Ucraina dimostra quale enorme e vitale ruolo può giocare e sta giocando l'Europa nel formare la politica e le economie delle nazioni e i popoli lungo i suoi confini in espansione. E' un compito di importanza strategica monumentale per gli Stati Uniti».
    A dimostrarlo sono le tre aree (Medio Oriente, Balcani, ex-Urss) nelle quali l'Europa «esercita un tipo di potere unico, non militare, ma il potere dell'attrazione. Un gigante magnete politico ed ecomomico la cui grande forza è la spinta attrattiva che esercita sui suoi vicini che cercano di divenire suoi membri. (...) Questa Europa in espansione assorbe problemi e conflitti piuttosto che affrontarli nel modo americano».

    La prova Turchia. Al ruolo della potenza militare americana non si può rinunciare (primo pilastro), ma la cooperazione transatlantica può trovare un nuovo equilibrio se in Europa prevalesse una visione strategica della politica di allargamento e del potere di attrazione dell'Europa (secondo pilastro). La consapevolezza di questo ruolo è più importante delle poche migliaia di truppe che potrebbero essere inviate in Iraq.

    Assicurare alla democrazia e allo stato di diritto uno stato islamico come la Turchia sarebbe la prova più alta della consapevolezza, da parte dell'Europa, di questo nuovo ruolo strategico. Se la Gran Bretagna, la "Nuova Europa" e l'attuale leadership in Germania condividono questa visione strategica, ad opporvisi sono la Francia e quanti ritengono ancora che l'Ue debba rimanere un'entità cristiana.

    Lo stupore democratico di Alì

    Ne avevo parlato venerdì delle splendide pagine in cui un blogger iracheno, Alì, racconta la democrazia con lo sguardo di chi si stupisce di non essere impiccato se vuole fondare un partito politico, il Partito iracheno per la democrazia. Di quelle pagine un passaggio mi ha colpito in particolare:
    «Ogni volta che cercavamo di organizzare un gruppo che non comprendesse soltanto noi e i nostri amici più intimi, non riuscivamo a ottenere l'appoggio di più di 5-10 persone. Fidarsi degli altri era quasi impossibile e molto rischioso. Dovevamo tenere conto del fatto che non rischiavamo solo la nostra vita, ma anche quella dei nostri familiari».
    Un giorno però, le cose sono cambiate. Quando la paura non ha più il volto della legalità, ma al massimo quello del terrorismo, è già cambiato tutto. Per quanti orrori potranno ancora spaventare il nuovo Iraq in questi mesi, il risultato incaccellabile dell'"occupazione" angloamericana è stato quello di aver bandito la paura del potere: associarsi liberamente, esprimere le proprie idee, non è più fuori-legge, e questo già basta a togliere speranza e futuro al terrorismo per ricosegnarli agli iracheni.

    Severino, quelli del Foglio e sto' benedetto "senso comune"

    L'embrione è da taluni considerato persona non perché già lo è, ma perché lo diverrà. Il filosofo Emanuele Severino ha scritto sul Corriere che il processo che trasforma l'embrione in uomo non è inevitabile né garantito, esprime quindi la differenza tra atto e potenza. Quelli del Foglio, Eugenia Roccella e Roberto de Mattei, replicano con obiezioni ragionevoli:
    a) la distinzione appare «scolastica e non utilizzabile» perché la sensibilità dell'opinione pubblica travalica il parere tecnico di saperi iniziatici;
    b) è utile richiamarsi al "senso comune", che non serve per pensare, ma per «guardarsi pensare», per ristabilire l'equilibrio, il senso della misura, delle proporzioni, il senso di realtà laddove sembra smarrirsi: «Reagire all'eccessivo intellettualismo che domina nel discorso e traduce la cosa nel concetto della cosa fino alla rarefazione e alla scomparsa della cosa»;
    c) il fatto che «il processo per cui l'embrione svolge le sue potenzialità e diviene persona» possa essere interrotto da noi pone dei dubbi sul piano dell'etica;
    d) è quanto meno ragionevole pensare che l'embrione sia «insieme un essere in atto e in potenza... un uomo-embrione in atto e un uomo-adulto solo in potenza» e che seppure «non attua perfettamente la natura umana, partecipa alla dignità di questa natura».

    E' anche vero però, che il prof. Severino si è posto il problema di replicare a chi, attingendo ad un sapere altrettanto iniziatico del suo, è così sicuro che l'embrione sia una persona, un "essere-già-uomo", e da questa premessa - comunque indimostrabile "icto oculi" - traduce una serie di divieti giuridici. Richiamare il concetto aristotelico di potenza mi sembra altrettanto astratto e in fin dei conti inutile per il legislatore di quanti si richiamano a convinzioni religiose.

    Il punto vero è che mi pare non si debba essere filosofi, o definire ontologicamente l'embrione, per poter fare una buona legge in materia di fecondazione assitita, cellule staminali e clonazione terapeutica. La Roccella ci richiama al "senso comune" di La Capria, ma è proprio richiamandosi a questo senso comune che diviene indifendibile la legge 40 approvata in Parlamento. Abolirla, ed introdurre una regolamentazione anche severa come è in Gran Bretagna e Svizzera, non significa non porre limiti alla tecnica, essere schiavi dello scientismo, bensì beneficiare di quel "senso comune" a cui ci si è richiamati per riprendere Severino. Da qualunque posizione ideologica si vadano cercando ragioni teologiche e filosofiche ci si ritroverà con un pugno di dubbi ancora ronzanti e il problema legislativo sempre lì: che fare?

    Cacciate quella maestra!

    Per non urtare la suscettibilità religiosa degli alunni di fede musulmana, in una scuola alla perifieria di Como le insegnanti hanno deciso che nei canti natalizi la parola "Gesù" verrà sostituita dalla parola "virtù". In altre scuole si è deciso di non allestire presepi.
    La gravità di questo tipo di scelte, così ridicole da suscitare in me solo pena per chi le compie, non sta tanto nel danno - davvero minimo - arrecato alle nostre radici, culturali ancor prima che religiose. Sarebbe una esagerata strumentalizzazione sostenere che una maestrina idiota possa solo scalfire tradizioni e sentimenti che appartengono a tutti noi.

    Piuttosto, ciò che mi inquieta è che questi fatti mettono inesorabilmente a nudo la povertà culturale e intellettuale di un'intera classe di insegnanti. Di questo dovremmo essere preoccupati, di dover un giorno affidare l'istruzione dei nostri figli a gente capace di simili idiozie. Non soffermatevi su questo episodio, ma provate solo ad immaginare quante "cazzate" - di cui però non sapremo mai nulla - simili insegnanti siano in grado di produrre in un'intera carriera di lezioni quotidiane, ciascuno nella propria materia. Quale insegnamento, se non il puro conformismo, ne trarranno le migliaia di bambini sottoposti a tale devastante e profondissima ignoranza? Tremo solo all'idea di dare una risposta.

    Spero che la Moratti si convinca ad una bella sfoltita di personale e dell'urgenza di una riforma radicale dell'accesso all'insegnamento. Intanto, cacciate quella maestra! con il suo stipendio la scuola di Como potrà acquistare 15 postazioni pc in un anno.

    Saturday, December 04, 2004

    Prodi e il suo «modo di lavorare»

    L'antropologicamente superiore leader della sinistra ha definito «mercenari» i giovani di Forza Italia. Per quanto io possa non condividere le politiche del partito che quei miei coetanei sostengono, non posso che ritenere volgare e inqualificabile l'insulto che hanno ricevuto dall'ex presidente della Commissione europea. Questo, dice Prodi, è il suo «modo di lavorare». Il modo un po' sporco e un po' squadrista da mestatore stalinista?

    Contro l'Onu la sentenza inappellabile della storia

    «Se le Nazioni Unite sono fallite, meglio fare le Nazioni Democratiche»
    Ero intenzionato ieri a dedicare un post alla pubblicazione del rapporto dei saggi per una riforma dell'Onu. A studiarlo, a commentarlo. Ho ritenuto altri spunti più interessanti. Mi sono detto: "L'Onu ormai è irrilevante, perché perdere tempo con una riforma che non si farà mai?". Oggi ricevo conferma dai «bad guys» del Foglio. Christian Rocca e Mauro Suttora scrivono sull'Onu una sentenza di fallimento che è sotto gli occhi di tutti, ma che ancora in molti, in Europa, si ostinano a non vedere. L'istituzione fondata da «un'idea americana, lo strumento ideato per promuovere i valori e i principi americani su scala globale» è divenuta l'istituzione sede del conformismo politically correct, relativista e terzomondista, alla quale affidarsi come fonte di una pretesa morale superiore.

    Peccato che la «chiarezza morale» dei fondatori sia stata sostituita dall'egemonia di 109 agguerrite dittature che «agiscono come blocco» e si impadroniscono dei lavori e delle decisioni dell'Assemblea. Sono a un passo dall'avere la maggioranza dei due terzi, comandano loro, mentre le democrazie già provvedono a circa l'80% delle risorse finanziarie. Altro che Comunità internazionale, se non ci sono valori comuni, se i principi sanciti non hanno forza sufficiente a convincere, nel 1948 sovietici e sauditi, oggi l'intero blocco afro-asiatico che ha ben altra concezione dei diritti umani. L'Onu è un «paradiso» per queste dittature, «perché le sue condanne morali, quando le fa, possono avere un'influenza soltanto sugli Stati democratici, non sui regimi dove non esiste opinione pubblica».

    Oggi ci troviamo di fronte a un chiaro esempio dell'eterna lotta tra "forma" e "vita" all'interno dei processi storici. L'istituzione umana "Onu", ormai sclerotizzata, è una "forma" che imprigiona, fino a stritolarla, la "vita" dei principi per i quali era stata ideata. Oggi, di fronte alle rinnovate minacce alla dignità dell'uomo portate dai regimi non democratici e dalle ideologie fondamentaliste, occorre preservare in "vita" i principi fondanti dell'Onu elaborando nuove "forme".

    Le Nazioni Democratiche al posto delle Nazioni Unite. Il primo nostro compito è quello di squarciare il velo di conformismo che attribuisce ancora così tanta autorevolezza al Palazzo di vetro e che impedisce persino a giornali e politici di prendere posizione per le inevitabili dimissioni di Kofi Annan, a causa dello scandalo Oil for Food. E' ora di raggiungere, a livello di opinione pubblica, a livello dell'informazione e delle classi dirigenti, la massa critica necessaria a sviluppare la stessa consapevolezza alla quale in America sono giunti sia clintoniani che bushiani, liberal e conservatori, e che rappresenta l'unica «alternativa multilaterale all'America che fa da sé»:
    «Puntare sulle democrazie è la riforma vera, quella più radicale, l'unica in grado di far rivivere lo spirito e la chiarezza morale dei padri fondatori dell'Onu».
    Su questo blog, già lo scorso 19 novembre, avete potuto leggere ampi stralci tradotti dell'articolo in cui gli intellettuali liberal Ivo Daalder, della Brookings Institution, e James Lindsay, del Council on Foreign Relations, hanno teorizzato l'«Alleanza delle Democrazie».

    Cosa può fare l'Italia. In questo post, del 20 novembre, ho cercato di spiegare perchè, a mio avviso, l'Italia, invece di inseguire la Germania alla spasmodica ricerca di un seggio in Consiglio di Sicurezza, dovrebbe scommettere su un nuovo assetto multilaterale del mondo libero, su una nuova organizzazione internazionale per il lancio della quale l'America si muoverà unita. L'Italia dovrà farsi trovare pronta, dal punto di vista ideale e operativo, essere tra i fondatori, svolgere un ruolo attivo e di primo piano nella costruzione di tale nuova istituzione, prepararsi a questo scopo con le personalità più autorevoli sulla scena estera. Non è giocando le sue carte spericolatamente su un improbabile miracolo all'Onu che l'Italia potrà preparare il suo rilancio sulla scena internazionale.

    Rocca esordisce con la conclusione a cui Daalder e Lindsay sono giunti:
    «Le Nazioni Unite sono fallite. Bisognerebbe prenderne atto, dirlo chiaramente, non sprecare tempo in riforme e alchimie istituzionali che non potranno mai essere approvate e che non cambiano di una virgola la sostanza, che è questa: rispetto alle grandi questioni, cioè la guerra e la pace, l'Onu è un ente pressoché inutile, se non dannoso. E' un'organizzazione che non ha mai funzionato oppure ha tradito lo spirito dei suoi fondatori e rinnegato i principi contenuti nella sua Carta. Le Nazioni Unite andrebbero ringraziate, poi salutate e infine chiuse, cancellate, archiviate».
    «L'elenco dell'irrilevanza e dei disastri è lungo». La mancata difesa della risoluzione su Israele; la risoluzione 2.708 del 1970 che riconosceva il diritto all'uso del terrorismo per esercitare il diritto all'autodeterminazione; Le crisi di Corea del Nord, Cambogia, Cuba, Vietnam, poi le invasioni sovietiche in Ungheria, Cecoslovacchia, Afghanistan, le crisi umanitarie in Bosnia e Kosovo, il genocidio ruandese, dove la decisione di Kofi Annan di non "compromettere" l'imparzialità dell'Onu è costata la vita a 800 mila persone. In ultimo, ancora oggi, l'assenza dall'Iraq e la mancata condanna dell'antisemitismo.

    Friday, December 03, 2004

    Putin KO, perde la faccia. L'Impero non tornerà

    Orange FlagL'Ucraina resterà un Paese di frontiera Est-Ovest, ma da oggi un po' più civile
    Contrario alle leggi del paese l'operato della commissione elettorale centrale che aveva proclamato la vittoria di Yanukovic, annullato l'esito del contestato ballottaggio a causa dei brogli accertati e accolti i ricorsi presentati da Yushchenko. Disposta la ripetizione del ballottaggio per il 26 dicembre. Smentita la linea Kuchma-Putin(-Gorbaciov) di ripetizione di entrambi i turni elettorali. Festa in piazza e arancioni in tripudio a Kiev e nel resto dell'Ucraina, dove «le leggende su "Yushenko agente della Cia" e le equiparazioni tra il suo partito e il fascismo non potevano che apparire per quello che sono: spazzatura». Ora dobbiamo chiederci perché invece in Europa sono state credute.

    Impraticabile la trappola Kuchma-Putin(-Gorbaciov). Il verdetto inappellabile smentisce la posizione del presidente uscente Leonid Kuchma che, con il pieno appoggio del Cremlino, aveva finora respinto, definendola «anticostituzionale e assurda», l'idea di un secondo ballottaggio. Ieri aveva addirittura preso un volo per Mosca dove, incontrando il presidente Putin, lo aveva assicurato che a suo avviso era impensabile «una soluzione al problema ucraino senza Mosca». La precisa richiesta del candidato dell'opposizione Yushchenko era invece di ripetere, a breve (già il 19 dicembre) il ballottaggio, nel timore che la ripetizione dell'intero processo elettorale potesse consentire l'emergere di un nuovo candidato filo-russo al posto dell'ormai screditato Yanucovic.
    Guarda un po', è critico con la sentenza di oggi il premio nobel per la pace Michael Gorbaciov, il residuato bellico sovietico.

    Nessuno in Ucraina ha creduto al complotto americano. Andrei Kurkov, famoso scrittore ucraino intervistato dall'agenzia Ansa, liquida come «sciocchezze, frutto di analisi dilettantesche», gli scenari secondo cui una vittoria di Yushenko determinerebbe la fine dell'influenza russa sull'Ucraina a vantaggio di un'egemonia degli Stati Uniti. Il destino dell'Ucraina resta infatti quello di un Paese di frontiera, in equilibrio tra Est e Ovest, Russia e Occidente. L'unica differenza è che «con Yushenko sarà forse un un po' più civile che con Yanukovic».
    «Il presidente Vladimir Putin e i suoi consiglieri del Cremlino hanno screditato completamente la Russia quaggiù. Non hanno tenuto conto della mentalità ucraina, né hanno capito le tendenze odierne della nostra società. Confidavano nella pazienza degli ucraini... ma non comprendendo che da noi negli ultimi anni si è sviluppata una nuova ondata di coinvolgimento della gente in politica. A differenza di quanto avvenuto nello stesso periodo in Russia, dove la società esprime una crescente indifferenza per la politica».
    La stessa propaganda di Mosca si è rivelata «controproducente», assicura lo scrittore. Soprattutto a Kiev e negli ambienti intellettuali del Paese, dove «le leggende su "Yushenko agente della Cia" e le equiparazioni tra il suo partito, Nostra Ucraina, e il fascismo non potevano che apparire per quello che sono: spazzatura». Nonostante tutto, Kurkov esclude che la Russia sia destinata a «perdere l'Ucraina».
    «I legami - culturali, economici, geografici, di sangue - sono semplicemente troppo forti: diminuirà l'interferenza politica, ma vi saranno persino più spazi per rafforzare la leva economica ed energetica... L'America può avere su di noi un certo interesse geopolitico, ma nel complesso è lontana e distaccata... A bilanciare il peso russo sull'Ucraina può essere invece l'Europa, soprattutto Polonia e Germania, purché investano non solo in Galizia, ma anche a est del Paese».
    Fonte: RadioRadicale.it/Ansa

    Wind of Change in Medio Oriente

    Iraqi pro-democracy party«Le uniche e prime elezioni libere del mondo arabo si tengono soltanto nei paesi "occupati"»

    Il Foglio decide di uscire allo scoperto e dichiara, con una "prima paginona" zeppa di notizie e opinioni, che è lecito essere ottimisti per il futuro democratico dell'Iraq. Così il direttore Giuliano Ferrara spiega la scelta:
    «I norvegesi definiscono "bel tempo coperto" una situazione in cui il cielo è pieno di nuvole ma l'aria è diventata respirabile, ogni furia di freddo e di pioggia e di neve è passata o rinviata a domani. L'Iraq, questo paese fatale ai nostri tempi, sembra essere entrato in questa condizione a nemmeno due anni dalla sua liberazione armata per mano degli americani e degli inglesi. Quelli che parlano a vanvera e biascicano ideologismi non se ne sono ancora accorti, ma quelli che esprimono opinioni serie e informate, compreso l'inviato di Repubblica, un esotico pentito dell'apocalissi, registrano la novità e mettono le mani avanti... Si vede meglio quel che maturava già prima, un processo politico forse irresistibile che porterà cattive notizie democratiche per gli alauiti di Siria e gli ayatollah iraniani, per bin Laden e per al Jazeera...»
    «Opinioni serie». Alla fine di gennaio si terrà in Iraq «la quarta elezione», come l'ha definita William Safire sul New York Times. Dopo Karzai in Afghanistan, Howard in Australia, Bush in America, i «bad guys» ce l'hanno fatta. In Iraq «the vote must go on», perché «una democrazia rimandata è una democrazia negata». A gennaio tocca anche ai palestinesi e a maggio a Blair. Tra le «opinioni serie», accanto a quelle «a vanvera» (nulla potrà mai rovinare la festa a Lilli), c'è anche quella di Anne Applebaum sul WP, che già vi avevo segnalato: non ci voleva credere, ma si è dovuta convincere che quella del complotto americano mondiale è la dietrologia «più popolare che circola su internet, la più cliccata, la più accredita» e che «molti tra quelli che rifiutano di condannare un dittatore antiamericano non riescono ad ammirare democrazie che sostengono, o almeno non odiano, gli Stati Uniti». Max Boot, sul Los Angeles Times, giudica positivamente l'azione militare a Fallujah, non per quello che è successo, bensì per quello che «non è successo»: nessuna crisi d'immagine, il governo Allawi non è caduto, nessuna sollevazione popolare.

    Opinioni arabe. I commentatori arabi più avveduti (Fonte: Memri), come su Al Hayat, si sono accorti che «le uniche e prime elezioni libere del mondo arabo si tengono soltanto nei paesi "occupati": dagli americani, in Iraq, e dagli israeliani, in Palestina. E' «patetico e triste» che ci si preoccupi dell'"occupazione" e non del fatto che nei cosiddetti "indipendenti, liberi e sovrani" paesi arabi i cittadini non possano far sentire la loro voce.
    La questione sunnita va trovando la strada di «un patto nazionale da rifondare», ci sono ancora le pericolose ambiguità siriane e iraniane, ma poi ci sono le splendide pagine di Alì, un blogger iracheno che ha fondato un partito ed è entusiasta perché per la prima volta cambiare il governo non sarà considerato un atto sovversivo. Racconta lo stupore di non aver rischiato l'impiccagione nel registrare il loro partito, il Partito iracheno per la democrazia. E al di là di tutti gli orrori di questi mesi, Alì ci dice qual è il risultato incaccellabile dell'"occupazione" angloamericana: ora le assemblee non sono fuori-legge, e questo potrebbe già bastare.
    «Ogni volta che cercavamo di organizzare un gruppo che non comprendesse soltanto noi e i nostri amici più intimi, non riuscivamo a ottenere l'appoggio di più di 5-10 persone. Fidarsi degli altri era quasi impossibile e molto rischioso. Dovevamo tenere conto del fatto che non rischiavamo solo la nostra vita, ma anche quella dei nostri familiari». Un giorno però, le cose sono cambiate...
    Conclude Ferrara:
    «La lotta tra la normalità e la vita da una parte, le truppe scelte della reazione banditesca all'abbattimento di Saddam dall'altra, comincia a girare verso il quotidiano, la compravendita delle case, la formazione di una classe dirigente che è impreparata alla democrazia, e tuttora vulnerabile dalla violenza, ma di un programma democratico non è in grado di fare a meno. Si scopriranno a poco a poco, se il bel tempo coperto continua, nuovi modesti e precari colori di quel teatro di guerra che mette in scena la pacificazione dopo l'orrore. E i colpi di coda della bestia ferita non contano».