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Tuesday, May 25, 2004

I tre «passi» che hanno frenato la nuova politica estera americana

Il discorso fatto ieri da Bush non poteva che aumentare le mie preoccupazioni. Bush ha dovuto parlare agli elettori per cercare di tranquillizzarli sul fatto che l'amministrazione non è allo sbando in Iraq e sa come vincere, ha una strategia. Purtroppo però, il peso dell'anno elettorale è il dato preminente. Sulla nuova rotta, in atto da tempo (Bush chiama l'Onu da mesi), hanno influito:
  • I fondamentali errori di approccio nel dopoguerra, come la rinuncia all'uso della propaganda: Bush non si può permettere di rischiare altre figuracce e consegna tutto in mano all'Onu

  • L'ostilità interessata da parte dell'Europa che conta: lasciare sola l'America in Iraq, anche dopo questa nuova risoluzione, è il modo per mandare a casa Bush. Gli iracheni? Pazienza.

  • Il né aderire né sabotare degli arabi: un regime autoritario sunnita a Baghdad per impedire l'effetto domino democratico e salvaguardare gli altri regimi arabi
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    Questa «svolta» annunciata sa quindi di ridimensionamento delle ambizioni americane in Medio Oriente: la parola d'ordine stabilità ha superato la parola d'ordine democrazia. Dall'Onu di nuovo protagonista passa la exit strategy di un Bush che in campagna elettorale si accontenta di uno scivolo per sé, per non scuotere troppo il mondo. Resta da vedere l'impatto della Greater Middle East Initiative. Su questo piano riponiamo le speranze rimanenti.
    Torna in auge la politica compromissoria della vecchia Europa e dell'Onu: se gli Stati Uniti avessero saputo evitare errori ed incertezze decisivi in Iraq, non avrebbero dovuto subire questo ritorno al cinico realismo.
    «A questo punto c'è una responsabilità internazionale che, se viene rigirata sull'Onu, ci deve vedere partecipi. Il mondo è lì per essere governato: noi dobbiamo essere parte di quel governo».
    Giuliano Amato

    I tre «passi» che hanno frenato la nuova politica estera americana:

    Ecco il voto dell'Europa per mandare a casa George W. e Tony. Philip Gordon, direttore del Centro Usa-Europa alla Brookings Institution: «Gli europei non lo ammetteranno mai apertamente, ma l'ultima cosa che desiderano al mondo è permettere a Bush di mettersi a capo degli alleati occidentali». Negargli il ruolo di leader, sarà il loro voto per la Casa Bianca 2004, la delega totale all'Onu, la fine del «sogno democratico per il Medio Oriente».

    Il compromesso sul campo. Il passaggio di sovranità agli iracheni avrà successo se sarà garantita agli iracheni una adeguata sicurezza e «per ottenerla - scrivono Kristol e Lehrman sul Weekly Standard - occorre una decisa operazione militare contro le insorgenze armate che cercano di impedire la nascita di un governo iracheno», occorre «distruggere le milizie che si oppongono alla transizione pacifica. Fallujah deve essere conquistata e ai terroristi deve essere impedito di trovare rifugio nelle città». Solo in questo modo, «un Iraq sovrano, con l'assistenza militare americana e di altri, sarà in grado di affrontare la sfida della ricostruzione politica». Ma l'ondata neocons è da tempo rifluita a Washington. Dipartimento di Stato e Pentagono oggi considerano una vittoria il "modello Fallujah". Gli errori e i danni d'immagine non consentono, a pochi mesi dalle elezioni, di aprire altri fronti pericolosi sul piano della guerra mediatica. Intanto, «i guerriglieri non vengono neutralizzati, anzi acquistano coraggio, la popolazione perde fiducia e l'iniziativa militare passa nelle mani dei terroristi. Il pericolo è evidente: rimettendo al governo delle città la leadership sunnita, la coalizione rischia di perdere il consenso sciita, specie quello decisivo fornito dall'ayatollah Sistani».
    Un quadro più ottimistico da Andrew Sullivan sul Sunday Times.

    Lega araba: né aderire né sabotare. E' chiaro che i Paesi arabi hanno da perdere sia dal successo della democrazia in Iraq, sia dal caos di una sconfitta americana. La loro opzione, anche dei Mubarak e degli Abdullah, è sempre la solita: un uomo forte, tratto dalle file dell'ex esercito iracheno, ma rispettato e non compromesso con gli orrori del regime, per guidare la transizione ad un regime autoritario, guidato da un sunnita, preferibilmente militare, a tutela dell'unità irachena e come baluardo di stabilità: per contenere l'Iran e il suo sostegno destabilizzante alla maggioranza sciita, per reprimere ogni spinta autonomista (curdi), per frustrare il processo democratico. Un altro Saddam insomma, ma meno crudele.
    Se «al Pentagono sono troppo indeboliti dallo scandalo delle torture per poter imporre la mano forte contro la guerriglia, la partita si gioca a Foggy Bottom, dove gli arabisti sono influenzati dai leader sunniti dell'Arabia Saudita, dell'Egitto e della Giordania che a Baghdad vorrebbero un baathista sunnita come garanzia per la stabilità del paese. E le mosse del sunnita Lakhdar Brahimi rientrano in questo schema». Su questa linea è l'aiuto chiesto ai leader sunniti per pacificare Fallujah, così come la scelta di rigettare la politica di de-baathificazione del Paese, l'emarginazione di Ahmed Chalabi e il soffocamento dello scandalo "Oil for Food". E Bush non si è potuto permettere di citare nel discorso di ieri sera il ruolo di Iran e Siria.

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